Domanda nuova ex art. 183 c.p.c. e legittimità della delibera condominiale relativa all’area comune

La recente ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione II Civile, n. 16148 del 17 giugno 2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), affronta questioni rilevanti in materia di diritto condominiale e processuale civile. La pronuncia si concentra, in particolare, sull’ammissibilità di domande nuove introdotte nel corso del giudizio e sulla legittimità delle delibere assembleari relative alla gestione delle aree comuni. La Corte ha rigettato il ricorso dei condomini, confermando le decisioni dei giudici di merito e fornendo importanti chiarimenti sui limiti dello ius variandi e sulla natura delle opere di regolamentazione degli spazi condominiali.

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Formulario commentato del nuovo processo civile

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Lucilla Nigro
Autrice di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.

 

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Il caso

La controversia ha origine dall’impugnazione, da parte di alcuni condomini, di una delibera assembleare approvata il 29 aprile 2009. Con tale delibera, l’assemblea disponeva l’installazione di un dissuasore a scomparsa e di uno scudetto per l’abilitazione al parcheggio sullo spazio comune antistante il fabbricato condominiale, fino ad allora utilizzato per la sosta e l’accesso ai locali terranei di proprietà esclusiva dei ricorrenti, destinati ad attività commerciale.

I condomini impugnanti lamentavano diverse violazioni: il mancato rispetto del regolamento condominiale, l’eccesso nel numero delle deleghe, la violazione dei quorum deliberativi previsti ai commi 2 e 5 dell’art. 1136 c.c., nonché l’illegittimità della delibera per l’incidenza su suolo di proprietà comunale e per la lesione del loro diritto di proprietà, determinata dalla limitazione dell’accesso ai locali destinati alla clientela.

Nel giudizio di primo grado, con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., i ricorrenti introdussero una domanda volta ad accertare l’esistenza di un diritto reale di uso e/o di una servitù – sia per destinazione del costruttore, sia per usucapione ventennale – sull’area in questione.

Il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 1141/2015, respinse la domanda e condannò i ricorrenti al pagamento delle spese di lite. Anche la Corte d’appello, investita del gravame, rigettò l’impugnazione, confermando le statuizioni di primo grado e qualificando la nuova richiesta come mutatio libelli, inammissibile poiché estranea all’oggetto originario del giudizio. La Corte rilevava inoltre la mancanza di prova del diritto di servitù e la legittimità della delibera, anche sotto il profilo della presunta incidenza su proprietà comunale. Rilevava, infine, che il regolamento condominiale prodotto non risultava né firmato né approvato e che la delibera impugnata non integrava un’innovazione soggetta ai quorum dell’art. 1136 c.c., non modificando la destinazione delle aree comuni.

Contro tale decisione, i condomini proponevano ricorso per cassazione, articolato in sette motivi. Il Condominio resisteva con controricorso.

I primi cinque motivi – trattati congiuntamente per connessione logico-giuridica – denunciavano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ultrapetizione, obiter dictum, motivazione ad abundantiam, contraddittorietà e lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. I ricorrenti lamentavano che la domanda di servitù proposta con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. fosse stata illegittimamente qualificata come “domanda nuova”, mentre avrebbe rappresentato un’emendatio libelli coerente con le originarie richieste. Contestavano inoltre l’interpretazione della domanda come fondata su usucapione e non su un diritto di passaggio e sosta, nonché la mancata applicazione del principio di non contestazione.

Il sesto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c., denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 e ss. c.c., del d.lgs. n. 285/1992 (artt. 20 e 21) e dell’art. 22, comma 3, della legge n. 2248/1865, per avere la Corte territoriale escluso l’illegittimità della delibera nonostante questa incidesse, a dire dei ricorrenti, su un’area di proprietà pubblica.

Il settimo motivo, infine, denunciava violazione degli artt. 1120, 1136, comma 5, 1102, 1130 n. 2), 1138, comma 4, c.c. e 115, 167, comma 1, c.p.c., contestando la legittimità della deliberazione adottata con soli 501,38 millesimi in tema di installazione e regolamentazione di dispositivi di chiusura dell’area comune. I ricorrenti sostenevano che tale intervento costituisse una vera e propria innovazione soggetta al quorum rafforzato previsto dall’art. 1136, comma 5, c.c.

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La decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi proposti dai ricorrenti.

Inammissibilità della domanda nuova ex art. 183, comma 6, c.p.c.

Con riferimento ai primi cinque motivi di ricorso, la Corte ha confermato la correttezza della pronuncia della Corte d’appello, che aveva qualificato come domanda nuova e dunque inammissibile la richiesta di accertamento del diritto di servitù, proposta con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.

La Cassazione ha ribadito che tra la domanda originaria di annullamento della delibera assembleare e la successiva actio confessoria servitutis non sussisteva alcuna connessione per alternatività o incompatibilità. La nuova domanda non rappresentava, quindi, un’espressione legittima dello ius variandi ammesso dalla giurisprudenza consolidata (Cass. Sez. U., n. 12310/2015; n. 22404/2018; n. 26727/2024), ma una aggiunta non consentita.

È stato altresì precisato che la domanda di accertamento di una servitù su bene condominiale deve essere proposta nei confronti di tutti i condomini, unici titolari del diritto, e non contro l’amministratore. Le censure relative al riconoscimento della cosiddetta servitù industriale sono state ritenute assorbite o irrilevanti in conseguenza dell’inammissibilità dell’actio confessoria.

Pretesa incidenza su area di proprietà pubblica

Quanto al sesto motivo, la Corte ha ritenuto infondata la doglianza relativa alla presunta natura pubblica dell’area oggetto della delibera. Ha confermato la valutazione del giudice di merito, secondo cui non era stata fornita alcuna prova della proprietà comunale.

È stato ricordato che l’esame delle risultanze documentali e testimoniali rientra tra gli apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, insindacabili in sede di legittimità salvo vizi logico-giuridici manifesti. Di conseguenza, non sussisteva alcuna illegittimità della delibera in relazione alle norme che vietano opere su beni pubblici.

Regolamentazione dell’uso delle parti comuni: nessuna innovazione

Anche il settimo motivo è stato respinto. La Corte ha confermato l’orientamento consolidato (Cass. Sez. 2, n. 4340/2013; n. 3509/2015), secondo cui la deliberazione assembleare che dispone l’installazione di cancelli o dissuasori per disciplinare l’accesso all’area condominiale non costituisce un’innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.

Tali interventi sono qualificati come misure di regolamentazione dell’uso della cosa comune, che non ne modificano la destinazione né limitano i diritti degli altri condomini, e pertanto non richiedono il quorum qualificato dei due terzi previsto dall’art. 1136, comma 5, c.c.

La delibera impugnata, adottata con 501,38 millesimi, è stata dunque ritenuta legittima e conforme alla legge.

Conclusione

La Corte di Cassazione ha confermato la validità della delibera condominiale impugnata, ribadendo l’inammissibilità della domanda nuova proposta in corso di causa ex art. 183, comma 6, c.p.c., poiché priva di connessione con la domanda originaria e tale da integrare una mutatio libelli non consentita. La richiesta di accertamento della servitù, inoltre, avrebbe dovuto essere proposta nei confronti di tutti i condomini, rafforzando così il principio del litisconsorzio necessario nei giudizi relativi a diritti reali su beni comuni. La Corte ha poi escluso che l’apposizione di dissuasori configuri un’innovazione ex art. 1120 c.c., trattandosi invece di una legittima regolamentazione dell’uso dell’area condominiale, approvabile con maggioranza semplice. Infine, ha ritenuto infondate le doglianze relative alla presunta proprietà pubblica dell’area, valorizzando la discrezionalità del giudice di merito nella valutazione delle prove e confermando l’assenza di vizi logico-giuridici nella motivazione impugnata.

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