Dichiarazione fallimento richiesta prima della risoluzione del concordato preventivo (Sezioni Unite)

in Giuricivile.it, 2022, 3 (ISSN 2532-201X)

La dichiarazione di fallimento richiesta prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato preventivo omologato, alla luce del principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite.

Il caso in esame

Nella vicenda in esame, l’esigenza di richiamare l’attenzione delle Sezioni Unite è sorta in seguito al ricorso in Cassazione, presentato da un curatore fallimentare, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Campobasso, con cui veniva revocata la pronuncia di primo grado, dichiarante il fallimento della società debitrice, già ammessa a procedura di concordato preventivo in continuità aziendale, omologato.

Il Tribunale adito, aveva ritenuto che la società si trovasse in stato di insolvenza, attesa l’incapacità della stessa di adempiere alle obbligazioni derivanti dal concordato preventivo omologato, senza tuttavia tener conto della necessità, ad avviso della Corte d’Appello, della preliminare risoluzione del concordato preventivo omologato, ai sensi dell’art. 186 l.fall.

I giudici del gravame sostenevano che, a differenza della disciplina previgente (secondo cui il concordato preventivo inadempiuto doveva essere dichiarato risolto dal Tribunale d’ufficio, o su iniziativa del commissario giudiziale ex artt. 137 e 186 l.fall.), l’accordo de quo, conformemente al nuovo assetto normativo, non poteva essere risolto, se non su iniziativa dei creditori, conseguendo, in caso contrario, l’impossibilità di dichiarare il fallimento.

Il curatore fallimentare reagiva a tali affermazioni, ricorrendo ex art. 360, co. 1°, n.3), c.p.c., denunciando la violazione, nonché la falsa applicazione degli artt. 5 e 186 l.fall. (RD n. 267/42).

In primo luogo, si contestava l’inadempimento di quanto pattuito in sede di concordato preventivo omologato, in species, la non ripresa dell’attività aziendale da parte della debitrice, il mancato aumento del capitale sociale e il fatto che l’attivo conseguito o realizzabile è risultato nettamente inferiore alle previsioni e tale da non consentire la regolare esecuzione del piano concordatario.

Inoltre, veniva evidenziata l’assenza di previsioni normative, in riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 5 e 186 l.fall., circa la necessità di una previa risoluzione del concordato, al fine della dichiarazione di fallimento, allorquando la lo stato di insolvenza si manifestasse, come nel caso concreto, successivamente all’omologazione.

Quest’ultima considerazione sarebbe confortata, ad avviso del ricorrente, da un arresto delle Sezioni Unite, citato dalla stessa Corte d’Appello a sostegno della propria decisione, secondo cui: “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”[1].

Con controricorso, la parte debitrice faceva presente che il Tribunale avesse dichiarato il fallimento per un’insolvenza riferibile alle obbligazioni antecedenti al concordato preventivo, dovendo pertanto applicarsi la regolazione ivi prescritta, essendo il piano concordatario omologato dotato di efficacia erga omnes.

Ne deriva l’impossibilità di ricondurre al concordato l’effetto novativo delle obbligazioni pregresse, di tal che “una stessa crisi non può essere regolata da due diverse procedure, senza previa rimozione, per risoluzione e/o annullamento, di quella preventivamente adita”.

L’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile

Nella disamina dei motivi addotti dalla parte ricorrente e, dalla debitrice, nel controricorso, i giudici di Cassazione hanno rilevato alcuni dubbi interpretativi.

La prima questione concerne l’art. 186 l.fall., come riformato, dalla lettura del quale si evincerebbe l’assenza di un automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento, potendo quest’ultima intervenire quantomeno nei casi in cui il creditore faccia valere il credito nella misura falcidiata con la proposta concordataria omologata ineseguita.

Invero, ai sensi dell’art. 5, co. 2°, l.fall., lo stato di insolvenza, l’accertamento del quale è presupposto della dichiarazione di fallimento, si manifesta con inadempimenti o altri fattori esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Con il concordato preventivo, tuttavia, l’imprenditore in stato di crisi previene il verificarsi della situazione descritta nell’art. 5, proponendo ai creditori un piano per la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, secondo lo schema descritto nell’art. 160, allegando al medesimo le informazioni di cui all’art. 161 e, in particolare, un programma contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, premurandosi altresì di indicare l’utilità precisamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore[2].

L’inadempimento del concordato, successivamente alla sua omologazione, rappresenterebbe perciò un fatto autonomo, come suggerisce la Corte, sopravvenuto, determinante perciò lo stato di insolvenza giustificativo della dichiarazione di fallimento.

Come però osserva sempre la Sezione interpellata, autorevole dottrina ritiene, al contrario, che un fallimento omissio medio non sia configurabile, per il carattere speciale della disciplina del concordato preventivo, in particolare dell’art. 186, l.fall., rispetto alla regola generale di cui all’art. 6.; per il rappresentarsi di una nuova insolvenza limitatamente alle obbligazioni contratte dopo l’omologazione del concordato e rimaste inadempiute, considerata l’esdebitazione originaria prodottasi con l’omologazione e con il conseguente ritorno in bonis del debitore.

Alla luce di tali considerazioni, i giudici hanno ritenuto opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente ex art. 374, co. 2°, c.p.c., per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unitedella questione dell’ammissibilità dell’istanza di fallimento ex articoli 6 e 7 legge fallimentare nei confronti di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, a prescindere dall’intervenuta risoluzione del contratto, quale questione di massima di particolare importanza”[3].

La decisione delle Sezioni Unite 

Rimessa la questione alle Sezioni Unite, queste si sono pronunciate rilevando l’assenza di un contrasto giurisprudenziale in materia, nonché l’insussistenza di una violazione della normativa in materia fallimentare, in merito alla dichiarazione di fallimento, senza la previa risoluzione del concordato preventivo.

L’iter logico seguito dai giudici, finalizzato alla formulazione del principio di diritto, si è sviluppato richiamando inizialmente la sentenza del 2015 della stessa Corte.

In tal proposito, è stato ribadito che “la pendenza di una domanda di concordato preventivo impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 legge fall. (…)” e che, in pendenza di una procedura concordataria, “il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 legge fall. e cioè rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato (…)”[4].

Pertanto, in pendenza del concordato preventivo, il fallimento sarebbe precluso, salvo che ricorrano le ipotesi tassativamente previste negli artt. 162, 173, 179, 180 l.fall., intendendosi per “pendenza” le fasi di ammissione, approvazione e omologazione.

Ne consegue la preminenza della procedura concordataria rispetto a quella fallimentare, indipendentemente dalla priorità temporale con cui vengono presentate le relative istanze, non operando, dunque, il meccanismo della prevenzione (in base al quale si applicherebbe la procedura attivata per prima).

La conferma del favor per l’istituto de quo si rinviene nella Raccomandazione europea 12 marzo 2014, con cui l’UE ha suggerito agli Stati Membri la previsione, al fine di agevolare negoziati sui piani di ristrutturazione, della sospensione delle domande di insolvenza presentate dopo proposta di concordato, in guisa da evitare che l’accordo stipulato tra i creditori e il debitore, volto a regolare l’insolvenza, venga pregiudicato dalla presentazione di domanda fallimento.

Sicché, ricordano le Sezioni Unite, non solo è necessario un coordinamento tra le procedure, ma è occorre altresì che tale collegamento si attui, assicurando il previo esaurimento della procedura di concordato preventivo.

La dichiarazione di fallimento presuppone quindi l’esito negativo della procedura concordato e non consente presentazione di ulteriori domande di concordato preventivo, mentre “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”[5].

Le argomentazioni riportate, non vengono ritenute dai giudici in contrasto con il fallimento senza previa risoluzione.

In primo luogo, si sottolinea come i casi e le norme suddette riguardino situazioni patologiche anteriori all’omologazione, mentre la fattispecie concreta, oggetto di disamina della Corte, si colloca nella fase post-omologazione. Decretatasi la conclusione della procedura concordataria ex art. 181 l. fall., viene meno la necessità della soprarichiamata coordinazione.

Invero, i giudici ricordano la finalità strettamente processuale del coordinamento: mediante l’omologazione, lo stato di insolvenza viene, in modo definitivo e irrevocabile, assegnato alla ristrutturazione debitoria concordata e alle modalità satisfattive in essa contemplate. Questo non implica, tuttavia, la preclusione della dichiarazione di fallimento, ogniqualvolta, nell’adempimento dell’accordo raggiunto, le modalità da quest’ultimo previsto si rivelino inattuabili, in guisa da attestare la persistenza dello stato di insolvenza, in un momento successivo alla conclusione della procedura concordataria.

Così l’inadempimento accordo rientrerebbe nei “fatti sopravvenuti”, in presenza dei quali (oltre alla risoluzione e all’annullamento), ricorre la possibilità di presentare nuove istanze fallimento, essendo l’improcedibilità derivante dall’omologa riservata alle sole istanze di fallimento già presentate.

Ne deriva che il favor per il concordato preventivo, non possa ritenersi estendibile oltre l’evidenza dell’impossibilità della proposta concordataria omologata.

Con l’omologazione non si produce l’effetto novativo dell’obbligazione, in quanto, pur nelle più favorevoli modalità ed entità prescritte nel concordato, il credito risulta ugualmente inesigibile.

Perciò si ripristinano le generali regole di responsabilità, con la piena legittimazione dei creditori ad agire contro il debitore per ottenere l’esecuzione patto.

Sulla base di tale assunto, invocando la par condicio creditorum, i giudici sostengono che non si possa precludere ai creditori l’ottenimento dell’esecuzione del patto, con tutti i mezzi consentiti dalla legge e, quindi, ricorrendo oltre alla tutela individuale anche a quella concorsuale, senza la condizione dell’istanza di risoluzione.

La posizione delle Sezioni Unite, alla luce del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza 

Le Sezioni Unite affrontano un ultimo argomento che, prima facie, potrebbe far deporre per il divieto di apertura della procedura fallimentare, senza la previa risoluzione del concordato preventivo.

Nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (CCII), introdotto con D. lgs. n. 14 del 2019, segnatamente all’art. 119, al co. 7°, il legislatore specifica che “Il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di concordato preventivo”.

In via preliminare, i giudici hanno precisato che si tratta di una norma non ancora vigente e che, nel regime transitorio previsto dal legislatore, è disposto l’assoggettamento delle procedure pendenti alla disciplina previgente.

A tal riguardo si ricorda l’applicazione dell’art. 186 l.fall., in cui, al contrario di quanto prescritto nell’art. 119 del Codice della crisi di impresa, la risoluzione del concordato non è condizione necessaria per la richiesta della dichiarazione di fallimento.

In secondo luogo, ipotizzando il verificarsi della fattispecie in esame, nella vigenza della nuova norma più volte menzionata, questa non risulterebbe ugualmente applicabile, in quanto l’inadempimento del concordato omologato, resterebbe un fatto sopravvenuto al deposito della domanda di concordato preventivo e come tale fondante la dichiarazione di fallimento.

L’ipotesi conclusiva, circa la possibile applicazione della disciplina de qua, riguarda la valenza interpretativa postuma della stessa, ovverosia l’attuabilità “anticipata” dell’art. 119, sulla base del positivo accertamento in ordine alla continuità tra il vecchio e il nuovo regime normativo.

Nel rapporto fra l’assetto regolamentare antecedente e successivo alla riforma, la Cassazione non individua alcun legame, viste alcune differenze di rilievo quali:

  1. il nuovo ruolo assegnato al commissario giudiziale, potendo costui agire, ex art. 119, CCII, agire per la risoluzione del concordato, ove uno dei creditori gli faccia richiesta, non restando più tale facoltà riservata esclusivamente ai titolari del diritto di credito;
  2. considerato quanto esposto al punto a), nella Relazione illustrativa si chiarisce “come l’innovazione sia stata necessaria per imprimere una svolta ad uno stato di cose – evidentemente indotto dall’attuale regime, nel quale la risoluzione ex art. 186 l.fall., viene dai creditori percepita come un rimedio giudiziale inutilmente defatigante e dispendioso in un quadro di già conclamata insoddisfazione – caratterizzato dalla presenza di un numero elevatissimo di concordati preventivi dormienti”, cioè, come spiegano i giudici, “procedure concordatarie che si prolungano per anni ineseguite in quanto i creditori, spesso scoraggiati dall’andamento della procedura e preoccupati dei costi per l’avvio di un procedimento giudiziale, non si vogliono assumere l’onere di chiederne giudizialmente la risoluzione”[6];
  3. l’aver subordinato la liquidazione giudiziale alla risoluzione del concordato, nell’art. 119 CCII.

Pertanto, escludendo l’applicabilità della nuova disciplina al caso in esame, la Cassazione è pervenuta a definire la propria decisione sulla questione interpretativa sollevata dalla Prima Sezione.

Il principio di diritto

Accogliendo il ricorso della curatela fallimentare, le Sezioni Unite, in data 07/12/2021, hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Campobasso, la quale sarà chiamata a riesaminare il caso applicando il seguente principio di diritto:

nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D.lvo n.5/2006 e dal D.lvo 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari, può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 l.fall.[7].


[1] Cass., Sez. Un., n. 9935/15

[2] Cfr. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli, 2015, pp. 1486-1490.

[3] Cass. Civ. Sez. Un. n. 4696/22

[4] Cass. Civ. Sez. Un. n. 9935/15

[5] Cass. Civ. Sez. Un. n. 4696/22

[6] Cass. Civ. Sez. Un. n. 4696/22

[7] Idem.

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