Demansionamento e danno non patrimoniale: quando basta la prova indiziaria

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 32598 del 14 dicembre 2025 (puoi leggerla cliccando qui), è tornata a pronunciarsi sulla tutela della persona del lavoratore, censurando l’erronea esclusione del risarcimento del danno non patrimoniale,  segnatamente il danno all’immagine e la lesione della professionalità, derivante dalla violazione dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona del lavoratore ex art. 2087 c.c. Per approfondimenti in materia, Maggioli Editore ha organizzato il “Corso avanzato di diritto del lavoro – Il lavoro che cambia: gestire conflitti, contratti e trasformazioni”, a cura di Federico Torzo (clicca qui per iscriverti). 

Il caso

La vicenda sottoposta all’esame della Cassazione riguardava un medico dipendente di un’Azienda Ospedaliero-Universitaria, il quale aveva dedotto di aver subito, nel corso di un arco temporale pluriennale, una condotta datoriale di natura vessatoria e omissiva. Tale condotta si era concretizzata nella sistematica privazione delle mansioni e nella conseguente emarginazione dalle attività di reparto e da quelle scientifiche, nonostante il sanitario ricoprisse un ruolo apicale, quale dirigente con incarico di alta specializzazione in ambito oncologico.

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Formulario commentato del nuovo processo civile

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Il giudizio di primo grado aveva accertato la responsabilità dell’Azienda per violazione dell’obbligo di tutela e aveva liquidato, in favore del lavoratore, il danno biologico e il danno patrimoniale. In sede di gravame, la Corte d’Appello di Firenze aveva ridotto sensibilmente il quantum risarcitorio: pur avendo confermato l’illiceità della condotta datoriale, qualificata in termini di emarginazione e deprivazione delle mansioni, aveva escluso sia il danno patrimoniale sia, soprattutto, il danno non patrimoniale, nella sua componente esistenziale e d’immagine. Secondo la Corte territoriale, il ricorso introduttivo era carente di allegazioni specifiche e i fatti accertati non erano idonei a dimostrare il nesso causale tra le condotte denunciate e il pregiudizio non patrimoniale lamentato.

L’Azienda, a propria difesa, aveva sostenuto che il medico avesse comunque continuato a percepire voci retributive connesse all’incarico di alta specializzazione, così ridimensionando la rilevanza del demansionamento e dell’emarginazione professionale.

Danno non patrimoniale e irrilevanza della qualificazione formale della condotta

Tale ricostruzione non ha superato, tuttavia, il vaglio della Suprema Corte con riferimento all’esclusione del risarcimento del danno non patrimoniale. In via preliminare, l’ordinanza ha ribadito un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: la nozione di mobbing, pur utile sul piano descrittivo, non possiede autonoma rilevanza giuridica ai fini della configurazione dell’illecito. Ciò che rileva, ai fini della responsabilità datoriale, è l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza e di tutela imposto dalla normativa civilistica.

La Cassazione, nel rigettare i motivi di ricorso fondati sull’asserita necessità di un’espressa qualificazione della condotta in termini di mobbing, ha chiarito che qualsiasi comportamento datoriale, anche un singolo atto, ovvero, come nel caso di specie, una prolungata condotta omissiva di emarginazione, è fonte di responsabilità ove ne derivi una lesione dell’integrità psico-fisica o della personalità morale del lavoratore. Le qualificazioni di mobbing o straining assumono, pertanto, un valore meramente descrittivo e non incidono sulla fondatezza della domanda risarcitoria, che resta ancorata alla prova dell’illecito e del danno conseguente.

In tale prospettiva, la Corte ha censurato l’errore di diritto commesso dalla Corte d’Appello nell’escludere il danno non patrimoniale per difetto di allegazioni specifiche. Pur non configurandosi come danno in re ipsa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona e può essere dimostrato attraverso plurimi strumenti probatori, anche di natura presuntiva, senza necessità di una puntuale descrizione analitica di ciascuna sua manifestazione.

La lesione della professionalità come danno non patrimoniale

Il fulcro della decisione risiede nell’accoglimento del motivo di ricorso relativo al danno all’immagine e alla professionalità, quale componente del danno non patrimoniale. La Suprema Corte ha affermato che la totale privazione delle mansioni o la prolungata inattività del lavoratore integra una lesione grave del diritto fondamentale al lavoro, inteso come espressione della personalità. Da tale lesione deriva un pregiudizio alla dignità e all’identità professionale, che si manifesta tanto nella dimensione soggettiva, quale percezione che il lavoratore ha di sé nel contesto lavorativo e sociale, quanto in quella oggettiva, con riferimento alla reputazione professionale nei confronti di colleghi e superiori.

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Prova presuntiva del danno e criteri di valutazione nel giudizio di rinvio

Quanto all’onere probatorio, la Corte ha chiarito che l’esistenza del danno non patrimoniale non richiede una prova diretta, potendo essere accertata mediante un ragionamento presuntivo unitario, fondato su una valutazione complessiva degli elementi di fatto acquisiti. In tale prospettiva, il giudice del rinvio è chiamato a valorizzare, secondo le nozioni di comune esperienza, indici quali il livello professionale e la specializzazione del medico, la gravità e la durata della deprivazione delle mansioni, la collocazione in ambienti inidonei, l’eventuale presenza di segnalazioni rimaste senza riscontro e il nesso tra le condotte datoriali e la scelta del prepensionamento. La Cassazione impone così di superare un’analisi frammentaria dei singoli elementi, riconoscendo che gli stessi fatti integranti la violazione dell’obbligo di tutela sono idonei a costituire presunzioni gravi, precise e concordanti dell’esistenza del danno non patrimoniale da lesione della professionalità e dell’immagine.

Conclusioni

L’ordinanza si inserisce in un filone giurisprudenziale che interpreta l’obbligo di tutela non solo come una norma di sicurezza fisica, ma come una norma di tutela della persona del lavoratore nella sua integrità psicofisica e morale, in ossequio ai principi fondamentali della Costituzione. L’inadempimento di tale obbligo non solo espone il datore di lavoro a responsabilità per eventuali danni alla salute, ma anche per danni alla dimensione sociale e relazionale della persona.

Il pregiudizio all’immagine e alla professionalità (non patrimoniale) non richiede una prova diretta, bensì una prova che si adatti alla natura del danno stesso, spesso derivante da condotte subdole e omissive. La prova indiziaria è, dunque, lo strumento processuale che garantisce la piena effettività della tutela.

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