Con la recente ordinanza n. 17970 del 9 luglio 2018, la Suprema Corte ha ribadito che la qualità di “chiamato all’eredità” non è sufficiente per far sì che questi sia obbligato a rispondere dei debiti del de cuius, siano essi di natura tributaria o meno.
Sul punto, la Cassazione ha affermato che l’accettazione dell’eredità è presupposto imprescindibile affinché possa “affermarsi l’obbligazione del chiamato all’eredità a rispondere dei debiti ereditari”.
Il fatto
A seguito di verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza, emergeva che il contribuente aveva omesso di presentare le dichiarazioni dei redditi dal 1999 al 2005; pertanto, l’Agenzia delle Entrate emetteva avviso di notifica di accertamento IVA, IRAP ed IRPEF alle eredi del contribuente che frattanto era deceduto.
Le signore presentavano ricorso avverso il suddetto atto sul rilievo che le stesse avevano rifiutato l’eredità e pertanto non potevano essere chiamate a rispondere delle obbligazioni tributarie del de cuius.
Il ricorso veniva accolto e confermato anche dalla Commissione Tributaria Regionale, adita dall’Agenzia delle Entrate.
Quest’ultima proponeva, dunque, ricorso per Cassazione al quale resistevano con controricorso le chiamate all’eredità.
L’Ufficio ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione “degli artt. 65 d.P.R. n. 600 del 1973, 7 e 36, comma 3, d.lgs. n. 346 del 1990 e 2697 cod. civ., sostenendo che aveva errato la CTR ad escludere la responsabilità delle contribuenti per le obbligazioni tributarie del de cuius, essendo all’uopo sufficiente la chiamata all’eredità”.
I motivi della decisione
La Corte ha analizzato la disciplina in materia di successioni e di imposta di successione definendo alcuni punti fermi, in coerenza con l’orientamento sul punto che può dirsi consolidato.
La delazione non è di per sé sola sufficiente a far acquisire la qualità di erede
Si diviene eredi solo per effetto dell’accettazione dell’eredità (espressa o tacita) oppure per la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 485 c.c. nel caso i chiamati all’eredità si trovino nel possesso di beni del defunto.
Questo principio, più volte ribadito da precedenti della stessa Corte[1] – richiamati proprio nella sentenza in commento – è alla base del procedimento successorio che si articola in tre step:
1) apertura della successione al momento e nel luogo della morte del soggetto: il patrimonio del defunto resta privo di titolare;
2) vocazione, ossia la designazione (per legge o per testamento) di coloro che dovranno subentrare al de cuius;
3) delazione, che si può spiegare come l’offerta del patrimonio del de cuius al soggetto designato il quale, dunque, ha il diritto di accettare o rifiutare l’eredità. La delezione viene anche definita, nei libri di testo, come l’effettiva “chiamata dell’erede”[2].
Spetta a chi agisce in giudizio nei confronti del preteso erede di provare l’effettiva assunzione della qualità di successore
Peraltro, afferma la Corte, tale prova non è impossibile visto che l’art. 481 C.C. consente a chiunque vi abbia interesse (quindi anche gli eventuali creditori del de cuius) di adire l’Autorità Giudiziaria affinché fissi un termine entro il quale il chiamato deve dichiarare se accetta o rinunzia all’eredità.
Ciò, evidentemente, a tutela delle ragioni di quanti potrebbero ricevere pregiudizio nell’attendere i dieci anni riconosciuti dalla legge ai chiamati per accettare o rinunciare al patrimonio ereditario.
Chiarimenti sulla disciplina in materia di imposta di successione
A questi principi – afferma la Corte – non fa eccezione neppure la disciplina in materia di imposta di successione (D.P.R. n. 637/1972 e D.Lgs. n. 346/1991 c.d. Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni), in considerazione anche della Circolare Ministeriale 17 del Marzo 1991 che ne ha chiarito il senso.
Pertanto, se l’accettazione dell’eredità prevale sulla delazione in materia di imposta di successione, dice la Corte, a maggior ragione deve prevalere sulla delazione ed essere condizione imprescindibile per essere obbligati a rispondere dei debiti del defunto, siano essi di natura tributaria o meno.
Da tutto quanto sopra esposto, consegue che non può essere obbligato a rispondere né dei debiti del de cuius, né dell’imposta di successione, chi ha rinunciato all’eredità e ne ha dato prova in giudizio, come nel caso in esame. Dall’altro lato, sottolinea la Corte, l’Amministrazione finanziaria ricorrente non ha dato prova alcuna dell’acquisto della qualità di erede delle chiamate.
A suffragio della propria argomentazione, la Corte di legittimità ha richiamato anche un recente arresto[3] nel quale si afferma che “in ipotesi di debiti del de cuius di natura tributaria […] l’accettazione dell’eredità è una condizione imprescindibile affinché possa affermarsi l’obbligazione del chiamato all’eredità a risponderne. Non può ritenersi obbligato chi abbia rinunciato all’eredità, ai sensi dell’art. 519 cod.civ.”, precisando che “una eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali desumere una accettazione implicita dell’eredità (art. 476 cod. civ.)”, del cui onere probatorio è onerata l’Amministrazione finanziaria e che non può fondarsi sulla mera presentazione della denuncia di successione, che “non ha alcun rilievo ai fini dell’accettazione dell’eredità”.
Per tali ragioni, la Corte di Cassazione, nell’ordinanza in commento, ha rigettato il ricorso avanzato dall’Agenzia delle Entrate.
[1] Cfr. Cass. n. 2820/2005; Cass. n. 6479/2002; Cass. n. 11634/1991; Cass. n. 1885/1988; Cass. n. 2489/1987; Cass. n.4520/1984; Cass. n. 125/1983.
[2] Cfr. M. Di Pirro, Manuale di istituzioni di diritto privato, 2016, Ed. Giuridiche Simone.
[3] Cass. n. 8053 del 29/03/2017.