Convivenza more uxorio e impresa familiare: illegittimità artt. 230 bis e 230-ter

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, per non includere il “convivente more uxorio” tra i familiari e nelle imprese familiari. La sentenza n. 148 del 2024 stabilisce che anche i conviventi devono essere riconosciuti e tutelati nella normativa sull’impresa familiare.

Corte costituzionale- sent. 148 del 25-07-2024

Q.L.C. dell’Art. 230-bis c.c.

La Corte di Cassazione, con un’ordinanza del 18 gennaio 2024, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale riguardante l’articolo 230-bis c.c. Questa norma, che regola l’impresa familiare, non prevede il riconoscimento dei diritti di partecipazione e gestione per il convivente more uxorio, al contrario di quanto avviene per i familiari legalmente riconosciuti. La questione è emersa in un caso presentato da una donna che, dopo la morte del compagno con cui viveva dal 2000, ha richiesto il riconoscimento della sua partecipazione all’impresa agricola familiare, di cui sosteneva di aver contribuito alla gestione.

Secondo la Corte, la normativa attuale potrebbe aver messo in luce diverse violazioni dei  principi costituzionali, tra cui l’art. 2, 3, 4 Cost. oltre a non rispettare appieno i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana e dalle norme europee. In particolare, la Corte ha evidenziato che il convivente more uxorio non riceve la stessa tutela garantita ai coniugi, nonostante il contributo lavorativo possa essere equivalente.

Nel caso di specie, il Giudice delle Leggi ha vagliato la partecipazione di un convivente more uxorio all’impresa familiare, con riferimento all’articolo 230-bis del codice civile, rispetto al più recente art. 230-ter introdotto dalla legge sulle unioni civili del 2016. Tale norma non è applicabile retroattivamente, pertanto, non può essere utilizzato per casi conclusi prima della sua introduzione.

 

Inapplicabilità retroattiva dell’art. 230-ter c.c.

La Corte ha dunque confermato l’applicazione del quadro normativo vigente all’epoca, che non prevedeva specifiche tutele per i conviventi more uxorio, mettendo in luce l’importanza di aggiornare la legislazione in risposta alle trasformazioni sociali e familiari. Questo dibattito sottolinea la necessità di un’adeguata regolamentazione delle diverse forme di convivenza, riconoscendo i cambiamenti nei modelli familiari e le implicazioni giuridiche che ne derivano.

L’introduzione dell’art. 230-bis c.c., operata dall’art. 89 della l. 19 maggio 1975, n. 151, rappresenta una svolta fondamentale nel diritto di famiglia, particolarmente per quanto riguarda la regolamentazione dell’impresa familiare. Questa norma ha riconosciuto per la prima volta una protezione specifica a coloro che, legati da vincoli di parentela o di coniugio, contribuiscono all’attività produttiva dell’impresa familiare, pur non avendo una posizione formale di socio o dipendente.

In passato, la partecipazione lavorativa all’interno della famiglia era considerata una prestazione gratuita, dettata dall’affetto e dalla benevolenza, una concezione che trovava il suo fondamento nella presunzione giuridica di gratuità per i servizi resi in ambito familiare. Questa visione, tuttavia, era spesso inadeguata a proteggere i membri della famiglia coinvolti in modo significativo e continuativo nell’impresa, esponendoli a potenziali situazioni di sfruttamento.

L’art. 230-bis ha quindi posto le basi per una tutela giuridica che riconosce il valore economico e sociale del lavoro svolto dai familiari nell’ambito dell’impresa. In particolare, la norma prevede che il familiare che contribuisce in modo continuativo all’impresa abbia diritto non solo al mantenimento proporzionato alla condizione economica della famiglia, ma anche a una partecipazione agli utili e agli incrementi patrimoniali dell’azienda, inclusi i beni acquistati con tali utili e l’avviamento.

Evoluzione del diritto di famiglia

Questa riforma si inserisce in un contesto più ampio di evoluzione del diritto di famiglia, in cui emerge la necessità di superare le concezioni patriarcali che vedevano nell’imprenditore familiare un’autorità predominante.

Attualmente, la tutela offerta dall’articolo 230-bis si estende anche ai conviventi di fatto, attraverso l’introduzione dell’articolo 230-ter c.c. che, sebbene preveda una protezione meno ampia rispetto a quella riservata ai familiari, riconosce comunque diritti specifici ai conviventi che partecipano all’impresa.

In questo quadro normativo, il diritto del lavoro all’interno dell’impresa familiare non viene considerato né puramente gratuito né subordinato, ma viene inquadrato come un contributo significativo che merita una regolamentazione specifica. Questo approccio non solo rafforza i diritti individuali dei familiari lavoratori, ma contribuisce anche a una gestione più equa e sostenibile delle imprese familiari, promuovendo al contempo i valori costituzionali di solidarietà, uguaglianza e tutela del lavoro.

Estensione della tutela ai conviventi di fatto con l’art. 230-ter c.c.

La giurisprudenza di legittimità, nel tempo, ha ulteriormente chiarito che l’impresa familiare non configura una gestione collettiva dell’impresa, ma rappresenta una forma di collaborazione con un regime di tutela che, pur lasciando intatta la figura dell’imprenditore come unico responsabile verso terzi, garantisce una giusta ricompensa e partecipazione ai familiari coinvolti.

Il recente dibattito giuridico  ha evidenziato dei limiti nella protezione economica del convivente more uxorio. all’interno dell’impresa dell’altro convivente. In assenza di un rapporto contrattuale di società o lavoro subordinato, il convivente ha diritto solo a una partecipazione economica legata ai risultati aziendali, lasciando così un margine di incertezza in caso di esiti negativi dell’impresa. Inoltre, manca un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o cessione dell’impresa, escludendo il convivente dalle decisioni gestionali e produttive, e rendendo la sua tutela economica altamente precaria e dipendente dai profitti dell’azienda.

Rilevanza costituzionale della convivenza more uxorio

I giudici della Corte Costituzionale hanno chiarito che la convivenza more uxorio, pur non avendo la stessa valenza giuridica del matrimonio, rappresenta una formazione sociale di rilevanza costituzionale. Dunque, le unioni di fatto devono essere riconosciute e tutelate dal punto di vista legale, specialmente in settori cruciali come il diritto all’abitazione, l’assistenza sanitaria e la protezione sociale.

In diverse sentenze, la Corte ha evidenziato che una relazione di convivenza stabile e consolidata, sebbene priva del vincolo formale del matrimonio, non può essere considerata irrilevante ai fini costituzionali. Tale assunto è basato sull’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

I giudici hanno inoltre sottolineato che, in casi specifici, la differenza di trattamento tra conviventi e coniugi potrebbe risultare incostituzionale se non giustificata da ragioni obiettive e proporzionate.

Nelle recenti pronunce della Corte di Cassazione, in particolare con la sentenza del 18 dicembre 2023 n. 35385 e l’ordinanza del 12 dicembre 2023 n. 34728, è stato chiarito che la convivenza prematrimoniale e durante il matrimonio assume rilevanza determinante nella valutazione dell’assegno divorzile e di mantenimento.

Giurisprudenza sull’assegno divorzile e di mantenimento

L’orientamento di legittimità ha sottolineato che la durata e la qualità della convivenza, anche antecedente all’unione ufficiale, costituiscono elementi fondamentali per determinare l’entità dell’assegno. Questo principio è stato esteso anche alle unioni civili, come affermato nella sentenza del 27 dicembre 2023 n. 35969, che ha riconosciuto il diritto del partner di una unione civile a un trattamento analogo a quello riservato agli ex coniugi, includendo il periodo di convivenza antecedente l’unione civile nella valutazione dell’assegno.

Tale orientamento giurisprudenziale si inserisce in un contesto di adeguamento della normativa italiana ai principi della CEDU e della CDFUE, che promuovono il riconoscimento e la tutela dei diritti legati alla vita familiare, a prescindere dalla forma giuridica dell’unione. 

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