Controlled Foreign Companies: pratica fiscale e strumenti di contrasto

in Giuricivile, 2020, 4 (ISSN 2532-201X)

1. Profili introduttivi: la concorrenza fiscale tra Stati e la risposta delle imprese

Le strategie di pianificazione fiscale che vedono protagoniste le Controlled Foreign Companies sono tra le più diffuse ed utilizzate tra i gruppi di imprese multinazionali. Si tratta di una pratica fiscale dannosa che, attraverso un utilizzo abusivo e quindi strumentale della residenza fiscale, mira a far ottenere all’operatore economico un beneficio indebito, generalmente consistente in una tassazione più favorevole rispetto a quella altrimenti applicabile.

Le circostanze che creano terreno fertile allo sviluppo di questo genere di condotte sono la crescente globalizzazione, innovazione e digitalizzazione delle operazioni economiche, la presenza di regimi fiscali molto rigidi rispetto a redditi d’impresa definibili più flessibili e l’assenza di coordinamento tra i regimi nazionali. La globalizzazione ha comportato il passaggio da un sistema fondato su economie chiuse a un sistema di economie che riconoscono come scenario delle proprie attività non più il singolo Stato ma il territorio internazionale. A questa premessa segue che le attività economiche e le forme di ricchezza che per loro natura sono facilmente trasferibili, tenderanno a individuare il Paese che offre il regime fiscale più vantaggioso e ivi localizzarsi. È dunque proprio in tale contesto che nasce e si sviluppa il fenomeno della concorrenza fiscale tra Stati1. Tale fenomeno costituisce una forma di competizione caratterizzata dal fatto che gli ordinamenti sfruttano la leva tributaria col fine di attrarre capitali e imprese nel proprio territorio. Lo strumento utilizzato è dunque una politica fiscale attrattiva: gli Stati presentano nel panorama internazionale una legislazione fiscale che risulterà tanto più appetibile quanto maggiore sarà la riduzione operata sulla tassazione delle imprese e gli operatori economici di conseguenza sceglieranno di localizzarsi nel territorio che riterranno più conveniente dal punto di vista fiscale2. Tale politica viene posta in essere per attrarre, in particolare, i grandi gruppi multinazionali, poiché da un lato sono portatori di ricchezza e di opportunità per la società, dall’altro dispongono di strutture d’impresa talmente diffuse e articolate che risulta facile per loro spostare la residenza fiscale da un Paese ad un altro.

Ma quali sono i benefici per lo Stato in cui la società decide di localizzarsi? La risposta si potrebbe sintetizzare nella formula del “rendimento indiretto”: si tratta di proventi socio-economici, quali l’incremento dell’occupazione, la richiesta di forniture di beni e/o servizi da operatori nazionali, il deposito di liquidità nelle banche nazionali, etc. Secondo il calcolo economico effettuato dagli Stati questa forma di rendimento è in grado di determinare un aumento del benessere collettivo che supera quello che deriverebbe da un livello di tassazione ordinario3.

Se la concorrenza fiscale non nasce con un’accezione negativa, essendosi anzi riconosciuto in questa prassi un possibile strumento di politica economica in grado di favorire lo sviluppo di fattori della produzione e di iniziative imprenditoriali attraverso l’acquisizione di capitali esteri nuovi, facilmente può assumerla. Si è andata così enucleando la nozione di “concorrenza fiscale sleale” tra Stati (harmful tax competition), con l’intento di indicare un utilizzo delle pratiche sopra esposte in chiave distorsiva rispetto alle normali logiche del mercato. Ciò che contraddistingue la slealtà è la caratteristica di selettività che si rinviene quando la detassazione interessa solo alcune tipologie di attività economiche, in particolare le imprese multinazionali estere, a svantaggio del sistema produttivo interno4.

Di pari passo alla globalizzazione un secondo fattore ha stravolto il mondo economico di fine millennio: la tecnologia. La ricchezza si è “deterritorializzata” e “dematerializzata”. Se quindi le imprese già con l’apertura dei confini nazionali avevano iniziato a spostarsi e a localizzare le proprie attività anche fuori dallo Stato di residenza, il processo di digitalizzazione facilitò ulteriormente questo movimento. In altre parole, trasformando il modello tradizionale di impresa in forme di business digitale, appunto “dematerializzate”, si resero ancora più veloci e immediati gli spostamenti delle rispettive aziende5. Quello che in questa sede viene analizzato riguarda un risvolto patologico di questo nuovo assetto economico, un suo uso strategico, uno sfruttamento della delocalizzazione aziendale che provoca effetti negativi sia a livello economico, creando perdite per gli Stati e alterando la concorrenza, che sociale, basti pensare alle ripercussioni sull’occupazione.

L’era digitale, dunque, amplifica le problematiche relative alla tassazione delle impese multinazionali: le fonti di ricchezza delle società (quindi ciò che crea reddito tassabile) diventano intangibili e pertanto più facilmente trasferibili. La mancanza di una presenza fisica sul territorio se da un lato concorre a implementare nuovi modelli di business sul mercato globale dall’altro, intensificando l’asimmetria tra il luogo in cui si crea la ricchezza e quello in cui essa viene sottoposta a tassazione, inevitabilmente viene sfruttata dagli operatori economici per nuovi schemi di pianificazione fiscale aggressiva6.

Al pari della concorrenza fiscale per gli Stati, la quale può svolgersi in maniera leale e quindi legittima, ma può anche trasformarsi in una pratica dannosa e quindi censurabile, nella pianificazione fiscale gli operatori economici si trovano di fronte allo stesso limite. Questa infatti nasce come prassi liberamente esercitabile dai soggetti, i quali possono autonomamente scegliere tra le occasioni offerte dagli Stati, individuando la politica che preferiscono per ottenere legittimi risparmi di imposta. Quando però le disparità e le incongruenze transnazionali tra gli ordinamenti vengono sfruttate al fine di conseguire vantaggi che gli Stati non avrebbero altrimenti inteso concedere, ecco che la pianificazione fiscale si trasforma in aggressiva e quindi illecita7.

Sono le imprese multinazionali, in particolare, a porre in essere tali pratiche. Se infatti gli Stati attraverso la concorrenza fiscale tendono ad attrarre soprattutto multinazionali, saranno di conseguenza queste imprese a sfruttare maggiormente le differenze tra i diversi regimi tributari e le relative politiche fiscali offerte loro8. La motivazione che risiede alla base di questa pratica consiste nel fatto che le multinazionali, come anticipato, operando sul territorio di più Stati, sono in grado di minimizzare il carico fiscale attraverso una distribuzione delle proprie strutture operative e dei relativi profitti secondo criteri di convenienza fiscale; questo comporta che riescano a vedere tassati i propri redditi non necessariamente dove essi sono stati prodotti, ma nel Paese che presenta una tassazione decisamente ridotta o addirittura nulla9.

2. La pratica fiscale delle Controlled Foreign Companies

Con l’espressione Base Erosion and Profit Shifting l’OCSE10 intende definire l’insieme delle architetture di natura fiscale che alcune imprese multinazionali (MNE) pongono in essere al fine di raggiungere un livello minimo di tassazione. Attraverso queste condotte le imprese tentano di sfuggire all’imposizione ad opera dello Stato di residenza, mediante lo spostamento dei profitti dalle giurisdizioni in cui sono effettivamente svolte le attività (profit shifting), e/o sfruttando le lacune e le incongruenze tra le normative fiscali nazionali da cui può derivare una tassazione nulla o ridotta al minimo (base erosion)11. Il risultato finale di queste pratiche è una disconnessione tra il luogo in cui vengono svolte le attività economiche che generano un profitto e il luogo in cui questo profitto viene localizzato per essere sottoposto a tassazione12. Questo comporta per i governi una sempre maggiore perdita di gettito, non essendo essi più in grado di mantenere un equilibrio tra la produzione della ricchezza imponibile che avviene nel proprio territorio e l’esercizio della sovranità impositiva13.

La principale difficoltà che si riscontra nell’opera di regolamentazione di simili operazioni consiste nel fatto che le condotte causa di BEPS non si pongono in aperto contrasto con alcuna disposizione normativa, risultando apparentemente lecite. Ciò che viene evidenziato invece è un comportamento che si pone in contrasto con lo “spirito della legge”, ossia ne rispetta la lettera ma non la ratio14. Questo apre l’importante questione di come si possano dunque definire tali pratiche: eliminata la possibilità di parlare di evasione e verificato che si tratta di ipotesi patologiche di pianificazione fiscale, risulta più appropriato utilizzare l’espressione “abuso del diritto”. È importante sottolineare, tuttavia, come l’incessante evoluzione della tecnologia, che porta con sé il continuo sviluppo di tali pratiche, renda molto difficile, e quindi pericolosa, una definizione univoca delle condotte che integrano i BEPS.

Tra le prassi più comuni di BEPS vi è quella relativa alle Controlled Foreign Companies. Tale strategia si avvale della struttura tipica delle multinazionali, composta da entità aziendali e altri strumenti localizzati in più di uno Stato, al fine di sfruttare qualsiasi disallineamento tra i vari ordinamenti per ottenere risparmi d’imposta.

Le relazioni di controllo presenti all’interno dei gruppi societari possono essere viste da una prospettiva dinamica e propulsiva, come strumento di investimento e di sviluppo delle attività economiche e di integrazione del mercato internazionale, ma possono anche essere viste da una prospettiva limitativa, come mezzo per eludere le norme tributarie nazionali. È in questo secondo caso che si creano i presupposti per l’esercizio della condotta abusiva oggetto della presente analisi, ossia quando si riscontra un impiego artificioso della relazione di controllo, il cui utilizzo quindi diventa strumentale all’elusione del presupposto impositivo nazionale15. Detto in altre parole, la libertà di una società di espandersi nel territorio internazionale attraverso i vari strumenti che la globalizzazione oggi le offre, tra cui la possibilità di creare società controllate, non costituisce di per sé un comportamento censurabile; la costituzione di una società controllata estera acquisisce però i connotati dell’illegittimità quando la motivazione principale che sta alla base di questa operazione è l’intento di dirottare gli utili verso un Paese diverso da quello di costituzione della società madre, avente un regime fiscale più favorevole.

Una tale prassi è evidente che porti con sé delle conseguenze, tra le più gravi vi è il fatto che la ricchezza prodotta su un determinato territorio non rimanga più confinata all’interno di quello Stato, ma migri verso Paesi che presentano regimi fiscali più vantaggiosi. Questo meccanismo sottrae materia imponibile allo Stato in cui è stata effettivamente creata quella ricchezza, pregiudicando quindi le entrate pubbliche e di conseguenza il benessere della società. Per arginare il pericolo che attraverso l’utilizzo di strutture di per sé lecite il soggetto tragga dei vantaggi fiscali illegittimi, sono state sviluppate apposite normative finalizzate ad evitare che determinati redditi vengano imputati alla controllata e quindi tassati in uno Stato che non ha un effettivo collegamento economico con essi, sfuggendo invece alla tassazione nello Stato di residenza della società controllante16. Le normative in questione si propongono di attrarre a tassazione per trasparenza, in capo alle società controllanti, gli utili prodotti dalle controllate localizzate in Paesi a regime fiscale privilegiato.

3. Misure di contrasto: il progetto BEPS OCSE

L’urgenza di creare uno strumento di contrasto alle pratiche di pianificazione fiscale aggressiva adottate dalle multinazionali si è manifestata durante la più grande crisi economica e finanziaria dei nostri tempi, precisamente nel 2012, quando i leader del G20, riuniti a Lima per il Summit del 18 e 19 giugno, hanno invitato la comunità internazionale ad adottare azioni coordinate in materia di trasparenza e di lotta alle pratiche abusive. Il 5 ottobre 2015, con la pubblicazione del Rapporto finale da parte dell’OCSE, insieme all’Action Plan, il progetto è stato concluso, con approvazione da parte del G20 nel mese di novembre. Si tratta chiaramente di uno strumento di soft law, privo di efficacia normativa diretta tra i Paesi membri dell’OCSE. L’Organizzazione individua 15 Azioni che dovranno essere eseguite dagli Stati nella lotta all’erosione della base imponibile mediante spostamento dei profitti. Fatta eccezione per la prima e l’ultima, le Azioni dalla numero 2 alla 14 sono articolate su tre pilastri: dare una maggiore coerenza ai diversi regimi fiscali nazionali in materia di attività transnazionali (coerenza); rafforzare i requisiti sostanziali alla base degli standard internazionali vigenti (sostanza); aumentare la trasparenza, lo scambio di informazioni e migliorare la certezza del diritto sia per i governi che per le imprese (trasparenza e certezza del diritto)17.

3.1. Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Companies Rules

L’Azione 3 (“Designing Effective Controlled Foreign Companies Rules”) riguarda la normativa sulle imprese estere controllate. La pratica delle CFC utilizza strutture offshore per trasferire i redditi da giurisdizioni ad alta tassazione verso Stati a fiscalità privilegiata; le CFC rules quindi intendono evitare questo trasferimento, in primo luogo definendo quando si sia in presenza di una Controlled Foreign Company, poi delineandone una normativa per evitare gli abusi18.

L’OCSE percepisce l’esigenza, da una parte, di migliorare le normative CFC già presenti in alcuni ordinamenti, in quanto ancora deboli nella lotta contro le pratiche abusive, dall’altra ritiene fondamentale che i Paesi che ancora non dispongono di una simile normativa la introducano. Questa seconda esigenza è data anche dal fatto che altrimenti si verrebbe a creare una situazione di svantaggio competitivo per gli Stati che presentano CFC rules, considerati dagli investitori poco attraenti, con la conseguenza che le società finirebbero per localizzarsi in Stati che non hanno adottato questa normativa. L’intento della presente Azione è quello di predisporre un corpo di raccomandazioni che possano essere direttamente efficaci per lo Stato che decide di sottoscriverle, andando quindi oltre la definizione di semplici standard minimi, presentando direttamente misure consistenti per impedire lo spostamento del reddito ad opera di una società. L’Organizzazione struttura il lavoro in sei building blocks: definizione di una CFC; previsione di esenzioni alla disciplina CFC e di requisiti minimi; definizione di reddito CFC; calcolo del reddito; attribuzione del reddito; prevenzione ed eliminazione della doppia imposizione19.

Per quanto concerne il primo modulo, l’OCSE si preoccupa di fornire una definizione di ciò che si intenda per Controlled Foreign Company, in modo tale da riconoscere quando le regole oggetto di questa disciplina siano applicabili. Ogni giurisdizione in procinto di applicare CFC rules in un determinato caso, deve infatti considerare preliminarmente due questioni: se l’entità estera si possa considerare CFC e se la società madre eserciti un’influenza o un controllo sulla società estera tale che quest’ultima possa effettivamente considerarsi una società controllata. In merito alla prima questione la raccomandazione è di definire in senso lato le entità che rientrano nella definizione di CFC, in modo da includere non solo le società ma anche strutture diverse comunque in grado di spostare redditi verso Stati a fiscalità privilegiata, come stabili organizzazioni o entità trasparenti (ad esempio società di persone o trust), quando i redditi prodotti sono di elevata quantità e non sono presenti nella giurisdizione di riferimento normative più adatte.

Riguardo la seconda questione la raccomandazione è quella di applicare almeno un test di controllo giuridico, che riguarda in genere la detenzione dei diritti di voto esercitabili in assemblea, ed uno economico, in merito alla detenzione dei diritti agli utili o al capitale; se entrambi vengono soddisfatti la società estera può dirsi controllata. Poiché questi due tipi di controllo possono facilmente essere aggirati, attraverso riorganizzazioni del gruppo societario, è lasciata la possibilità agli Stati di integrare queste valutazioni anche con un test di controllo de facto, ossia considerando se, al di là dei criteri sopra esposti, sia comunque riscontrabile tra le due società un rapporto di influenza notevole, che può ravvisarsi dalle decisioni più importarti fino a quelle di ordinaria amministrazione. Quest’ultimo test viene per tale motivo definito dall’OCSE un test “anti-elusivo degli altri test di controllo”. Determinata la tipologia di controllo, resta da definire il livello di tale controllo necessario per l’applicazione delle CFC rules. La soglia di riferimento che viene proposta dall’OCSE, affinché i soggetti residenti (che siano persone fisiche, società o altro) siano considerati controllanti, è quella del controllo superiore al 50%, sia per quanto riguarda il controllo diretto sia per quello indiretto (ad esempio attraverso una holding intermedia); gli Stati rimangono liberi di scegliere una soglia inferiore se congeniale ai propri obiettivi anti-elusivi. Se tale verifica risulta semplice nel caso in cui il controllo sia esercitato da un unico azionista, si presentano complicanze quando questo dev’essere verificato sulla base dell’agire congiunto di più azionisti, ciascuno detentore di una quota inferiore al 50%. Per questa eventualità, nella valutazione circa il soddisfacimento o meno della soglia minima di controllo, l’OCSE si raccomanda che gli Stati utilizzino uno dei tre diversi approcci proposti per verificare se gli azionisti agiscano effettivamente insieme. Il primo è quello di applicare un “acting-in-concert” test che, come suggerisce il nome, propone una valutazione delle operazioni che vengono svolte dagli azionisti per accertare se nella pratica agiscano in modo congiunto, quindi se gli interessi convergano. Il secondo approccio guarda alle relazioni presenti tra le parti. Il terzo approccio punta su un c.d. “concentrated ownership requirement”, che consiste nell’imporre una soglia minima di controllo della CFC da parte dei singoli azionisti, affinché questi vengano considerati nell’agire comune20.

Quanto appena esposto consiste in una serie di raccomandazioni e come tutte le raccomandazioni si tratta quindi di requisiti minimi di cui si consiglia l’adozione, nulla vieta però alle giurisdizioni di arricchire queste regole e anche di renderle più severe.

Ultimo criterio che l’OCSE si raccomanda di includere nelle normative interne è quello temporale, che individua il momento in cui dev’essere valutato il controllo; molti ordinamenti scelgono la fine dell’anno, ma per gli Stati più frequentemente soggetti ad elusione risulterebbe più sicuro includere un test che verifichi anche la soglia di controllo negli altri momenti dell’anno21.

Il secondo building block dell’Azione 3 concerne la previsione di esenzioni dalla disciplina CFC e di requisiti minimi; in altre parole delimita l’ambito di applicazione della normativa. L’intento dell’OCSE è di circoscrivere l’attenzione ai casi in cui si presenti un effettivo pericolo di BEPS, dove quindi il rischio di spostamento dei profitti in caso di mancata applicazione della normativa è alto. Il Rapporto esamina i tre tipi di esenzioni e requisiti CFC adottati dai diversi Stati coinvolti nel progetto: il primo tipo consiste nella previsione di una soglia massima di reddito della controllata, il secondo consiste nella predisposizione di una norma anti-elusione, il terzo si basa sull’aliquota fiscale a cui è soggetta la CFC.

Analizzando più approfonditamente i modelli proposti, il primo consiste nel determinare una soglia massima di reddito realizzabile dalla CFC, sopra il quale i redditi sono attribuibili alla società controllante; al contrario, se gli utili rimangono al di sotto di tale soglia, non si applica la disciplina22. Questa regola, se ha il beneficio di ridurre gli oneri amministrativi, rischia però anche di essere facilmente aggirabile attraverso una frammentazione degli utili al fine di eludere tali soglie, distribuendo il reddito della CFC tra diverse filiali cosicché ognuna detenga un utile che non superi la soglia prevista. Di conseguenza sono state adottate da diversi Stati normative di salvaguardia che proteggano le amministrazioni da simili raggiri, come ad esempio la possibilità di considerare in modo aggregato redditi detenuti da più CFC, qualora lo scopo principale di questa organizzazione di società fosse proprio quello di aggirare il requisito della soglia massima23.

Il secondo modello adottato dagli Stati consiste nella valutazione dell’intento elusivo. Premettendo che l’OCSE non promuove questo tipo di requisito, preferendo approcci basati sulla definizione del reddito, tale orientamento vorrebbe limitare l’applicazione della normativa CFC alle situazioni in cui è presente una finalità elusiva. Risulta tuttavia evidente la difficoltà che questo metodo porta con sé in termini di aggravamento degli oneri amministrativi, richiedendo un’attenta valutazione di ogni singola transazione.

Vi è, infine, l’esenzione basata sull’aliquota fiscale, soluzione adottata dalla maggior parte delle normative CFC. Ragionando sempre in termini di maggior rischio di elusione, le CFC rules si applicano solo se la controllata estera è soggetta ad un’aliquota fiscale molto bassa. Questo metodo richiede una definizione preventiva delle aliquote ritenute ridotte: si può procedere ad una verifica caso per caso, oppure alcuni Stati optano per la definizione anticipata di una black/white list che selezioni già le giurisdizioni che offrono aliquote basse24. L’OCSE raccomanda che sia presa in considerazione l’aliquota fiscale effettiva della giurisdizione della CFC, ossia quella ottenuta dalla media delle aliquote di diversi anni, al netto di eventuali deduzioni o agevolazioni, e questo a discapito di quella nominale (statutaria). Il parametro di confronto potrà essere o un’aliquota predefinita, considerata già di per sé al limite, oppure l’aliquota presente nella giurisdizione della società madre25, e per questa decisione l’OCSE lascia agli Stati la libertà di scegliere l’approccio che preferiscono26.

Il terzo building block riguarda la definizione di reddito da CFC, ossia quel reddito che diventa attribuibile alla società controllante. Sebbene alcune giurisdizioni considerino tutto il reddito prodotto dalla controllata estera come “CFC income”, la raccomandazione dell’OCSE agli Stati è di includere nella propria normativa la definizione di quella particolare categoria di reddito che solleva preoccupazione di BEPS. Alcuni Stati già distinguono le due tipologie di reddito e lo fanno sulla base di diversi fattori, ad esempio la probabilità che il reddito venga spostato geograficamente o il fatto che parti correlate abbiano collaborato alla sua produzione. L’OCSE si limita dunque ad elencare i diversi approcci per la definizione del reddito CFC adottati dagli Stati, che sono essenzialmente tre: uno più formale, uno più sostanziale, e uno incentrato sulla determinazione dell’extra profitto.

Nella maggior parte dei casi le norme CFC nazionali adottano il metodo più formale: il reddito viene diviso in categorie e a seconda della categoria d’appartenenza viene assegnato o meno, in modo automatico, alla controllante. I fattori rilevanti che definiscono una categoria generalmente sono la qualificazione legale, la correlazione delle parti e la fonte del reddito. La classificazione basata sulla qualificazione legale identifica il reddito per la sua natura, che può essere quella di dividendo, interesse, canone, reddito da IP, etc.; queste categorie vengono divise dal resto del reddito, in quanto considerate a maggiore rischio di essere spostate geograficamente. Un’altra classificazione utilizzata è quella che valuta la correlazione delle parti, ossia si concentra sull’entità che produce il reddito, piuttosto che sulla natura del reddito stesso. In questo caso la normativa CFC include automaticamente il reddito acquisito da parti correlate, in quanto ritenuto facilmente trasferibile. La variante di questa prassi, che la differenzia quindi da Stato a Stato, consiste nel grado di correlazione richiesto affinché questa regola venga applicata. La fonte del reddito è infine un ulteriore fattore in grado di classificare il reddito da CFC; in questo caso viene preso in considerazione il luogo in cui è stato prodotto il reddito.

Il metodo più sostanziale si basa sulla valutazione dell’attività svolta dalle società estere e individua il reddito CFC nei casi in cui la società non eserciti un’attività effettiva. Nell’applicazione di tale regola gli Stati utilizzano fattori in grado di rilevare se la società sia in grado di produrre il proprio reddito, quali la presenza di personale, di uffici, strutture, macchinari, etc. Questo metodo può svilupparsi attraverso un “threshold test” o una “proportionate analysis”: il primo individua una soglia massima di attività (che si ritiene la CFC sia in grado di esercitare), superata la quale tutto il reddito della CFC viene attribuito alla controllante; il secondo invece divide il reddito in maniera proporzionale, salvaguardando la quota che la CFC è capace di produrre (sulla base ad esempio della struttura che possiede) e attribuendo quella eccedente alla controllante27.

Un ulteriore metodo proposto dall’OCSE è quello dell’analisi dei “profitti in eccesso”: si tratta di individuare il reddito in eccesso rispetto al rendimento normale ottenibile in una determinata attività. L’OCSE suggerisce l’adozione di questo approccio in particolare con riguardo alle società estere che svolgono attività aventi ad oggetto beni intangibili (soprattutto generanti IP income), in quanto se svolte all’interno di un gruppo il rischio è che siano strumentalizzate per spostare i redditi. Se dalla sottrazione del reddito normale al reddito generato dalla CFC vi è un residuo, questo è considerato reddito in eccesso e quindi reddito CFC.

Infine, indipendentemente dal metodo che sceglie di adottare, lo Stato deve decidere anche il tipo di approccio con cui lo applicherà, optando per un approccio “entity-by-entity basis” o un approccio “transactional basis”. Quello per entità è un approccio di tipo “o tutto o niente”, a seconda che la società superi o meno una determinata percentuale di reddito CFC. L’approccio transazionale, invece, valuta singolarmente il carattere di ciascun flusso di reddito per valutare se rientri o no nella definizione di reddito CFC; in questo secondo caso quindi è possibile che solo alcune quote di reddito siano attribuite alla controllante, mentre altre possono rimanere escluse. La scelta tra i due approcci si baserà sulle seguenti considerazioni: il primo approccio diminuisce gli oneri amministrativi e aumenta la certezza per i contribuenti, ma si dimostra poi eccessivamente inclusivo o esclusivo, a seconda dei casi; il secondo aumenta gli oneri amministrativi ma è decisamente più accurato nell’attribuzione del reddito28.

Dopo averlo definito e individuato, il quarto building block si occupa delle modalità di calcolo del reddito CFC, ossia della sua quantificazione monetaria. L’OCSE si raccomanda che gli ordinamenti nazionali adottino anche regole per la determinazione della quantità di reddito attribuibile e che questo avvenga attraverso due decisioni preliminari: gli Stati devono stabilire quali norme delle diverse giurisdizioni debbano applicarsi e se sia necessaria l’adozione di norme specifiche per il calcolo. Riguardo alla prima questione l’OCSE sollecita l’applicazione delle regole proprie della giurisdizione principale, quindi quelle previste dallo Stato di residenza della controllante; in merito alla seconda questione si esortano gli Stati ad adottare previsioni che limitino la possibilità di compensare le perdite della CFC solo con i profitti della stessa CFC o di altre CFC localizzate nello stesso territorio, al fine di evitare manipolazioni strategiche delle perdite. Tornando alla prima questione, riguardante le regole per il calcolo, l’OCSE ha valutato quattro opzioni alternative, finendo poi per suggerire l’adozione della prima. L’opzione raccomandata è quella di applicare la normativa della giurisdizione principale, quella di residenza della società madre, scelta che si rivela la più efficace in termini di lotta all’erosione della base imponibile. Seconda opzione sarebbe quella di applicare le regole della giurisdizione della CFC, scelta chiaramente in contrasto con gli obiettivi stessi dell’Action 3 che nasce proprio dalla necessità di limitare i benefici offerti da giurisdizioni a bassa imposizione quando questi siano indebiti. Terza opzione, parimenti pericolosa, prevede che la scelta della normativa da applicare ricada sul contribuente stesso. Ultima opzione è l’adozione di standard comuni internazionali per il calcolo del reddito, applicabili in tutti gli Stati; soluzione che quindi eliminerebbe alla fonte il rischio di strategie fiscali facenti leva sulla localizzazione dell’impresa29.

Le norme sull’attribuzione del reddito occupano il quinto building block. Definito e calcolato il reddito CFC da conferire, si prosegue alla determinazione delle regole specifiche per l’attribuzione dello stesso al soggetto controllante. Questo momento si divide in cinque fasi: la determinazione dei contribuenti destinatari del reddito; la determinazione dell’ammontare del reddito attribuibile; la determinazione del periodo d’imposta in cui imputare il reddito; la determinazione di come considerare il reddito; la determinazione dell’aliquota fiscale applicabile. L’OCSE in merito fornisce alcune raccomandazioni agli Stati: innanzitutto di prevedere una soglia minima di controllo esercitato dal controllante affinché gli sia attribuito il reddito; allo stesso modo anche la ripartizione del reddito tra i controllanti dovrebbe rispecchiare la loro quota di controllo, valutata considerando anche la durata del periodo in cui è stato esercitato. Riguardo al periodo d’imposta in cui dichiarare il reddito e come quest’ultimo debba essere considerato, viene lasciata piena libertà di scelta alle singole giurisdizioni. L’aliquota fiscale applicabile, infine, dovrebbe essere quella della giurisdizione principale30.

Il sesto ed ultimo elemento costitutivo dell’Azione 3 riguarda le norme per prevenire o eliminare la doppia imposizione. La raccomandazione dell’OCSE è per gli Stati di includere nelle CFC rules anche disposizioni volte a prevenire questo tipo di rischio. Il problema può emergere in tre differenti situazioni: in primo luogo quando il reddito della CFC attribuito alla controllante è stato in realtà già tassato anche dallo Stato di residenza della controllata; in questa eventualità l’OCSE suggerisce la previsione di un credito per le imposte effettivamente pagate. Un secondo caso si ha quando un reddito CFC rientra nella potestà impositiva di più Stati, i quali quindi finiscono per tassare più volte la stessa ricchezza poiché in ciascuno risiede una controllante che, congiuntamente alle altre, esercita un controllo sulla CFC. Anche in questo caso l’OCSE consiglia di adottare regole sul credito d’imposta, con la raccomandazione però di definirle insieme ad un modello gerarchico che determini i Paesi a cui attribuire priorità; quest’ultima precisazione potrà ad esempio generare un sistema che favorisce la giurisdizione di residenza dell’azionista che detiene una quota maggiore di controllo. Ultima ipotesi prevista è quella in cui una CFC distribuisca dividenti che costituiscono reddito già attribuito ai controllanti; qui l’OCSE raccomanda di prevedere apposite regole per esentare da tassazione dividendi e utili derivanti dalla cessione di azioni CFC qualora il reddito sia già stato precedentemente assoggettato a tassazione. L’OCSE conclude con un’ultima considerazione in merito ai casi di doppia imposizione non menzionati, ossia che gli Stati attraverso la propria normativa interna siano in grado di prevenire anche questi31.

4. La normativa CFC italiana a confronto con le linee guida OCSE

La normativa sulle Controlled Foreign Companies presente oggi nel nostro ordinamento all’art. 167 del TUIR è il risultato di una lunga evoluzione iniziata dal legislatore quando, con l’art. 1 della Legge n. 342/2000, ha voluto allineare la normativa italiana a quella di altri Stati32 che già avevano risposto all’invito dell’OCSE di adottare una disciplina in materia di Controlled Foreign Companies per contrastare i fenomeni di concorrenza fiscale dannosa33. L’ultima modifica in materia è avvenuta ad opera del legislatore nazionale per conformarsi alla nuova disciplina elaborata dalla Commissione europea: agli articoli 7 e 8 della Direttiva 2016/1164/UE (c.d. ATAD I, “Anti Tax Avoidance Directive”) è stata introdotta una riforma della disciplina CFC per conformare gli Stati membri alle nuove regole OCSE. La Direttiva ATAD ha l’importante merito di essere in grado di esercitare un’azione più efficace di quella dell’OCSE, essendo vincolante per gli Stati membri dell’Ue.

Passando all’esame della normativa nazionale, è opportuno premettere che l’ordinamento italiano ha sempre optato per il jurisdictional approach, basato sull’individuazione degli Stati c.d. “paradisi fiscali” che, se da qualche anno ormai non si trovano più elencati in black list, sono comunque identificabili attraverso i presupposti applicativi della normativa CFC. Questo significa che il reddito prodotto da una controllata estera localizzata in quei territori è imputato al controllante, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, a prescindere dalla natura del reddito. È giusto segnalare, tuttavia, che la crescente rilevanza riconosciuta alla presenza di passive income tra i redditi prodotti dalla controllata estera (presenza divenuta dirimente nella valutazione del presupposto per l’applicazione della disciplina stessa) è indice che il nostro ordinamento si sta evolvendo verso un sistema misto che prende in considerazione anche la tipologia del reddito CFC34.

Il primo comma dell’art. 167 individua i soggetti destinatari della disciplina: si tratta delle persone fisiche residenti; le società di persone di cui all’art. 5 del TUIR (società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice); i soggetti di cui all’art. 73 comma 1 lettere a), b) e c), ossia società commerciali, enti commerciali residenti e in determinati casi fondazioni, associazioni e trust non commerciali, residenti nel territorio dello Stato. Novità introdotta dalla Direttiva ATAD è l’estensione della normativa anche alle stabili organizzazioni italiane di soggetti non residenti, i quali a loro volta controllano società estere; tale estensione opera però limitatamente alle quote di partecipazione nella CFC detenute dalla stabile organizzazione35. Ai commi 2 e 3 viene poi specificato chi siano i soggetti controllati non residenti: “le imprese, le società e gli enti non residenti nel territorio dello Stato”, “le stabili organizzazioni all’estero dei soggetti di cui al comma 2” (quindi dei soggetti esteri) e “le stabili organizzazioni all’estero di soggetti residenti che abbiano optato per il regime di cui all’articolo 168-ter” (ossia il c.d. branch exemption36).

Per quanto riguarda il concetto di controllo bisogna riferirsi al comma 2 dell’articolo 167, così come modificato dalla Direttiva ATAD; se infatti prima il controllo si limitava sostanzialmente ad un richiamo all’art. 2359 del codice civile, la Direttiva aggiunge un’ulteriore ipotesi basata sulla nozione di partecipazione agli utili37. In forza del novellato comma 2 “si considerano soggetti controllati non residenti le imprese, le società, gli enti non residenti nel territorio dello Stato” che, alternativamente, soddisfino una delle seguenti condizioni: “a) sono controllati direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciaria o interposta persona, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile […]; b) oltre il 50 per cento della partecipazione ai loro utili è detenuto, direttamente o indirettamente, mediante una o più società controllate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile o tramite società fiduciaria o interposta persona, da un soggetto di cui al comma 1”.

La prima ipotesi di controllo è quella civilistica, che a sua volta si sviluppa in tre tipi: controllo di diritto, controllo di fatto e controllo di tipo contrattuale. Il comma 1 dell’articolo 2359 del codice civile definisce il controllo di diritto come detenzione della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea, il controllo di fatto come possedimento di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in assemblea e il controllo contrattuale come un’influenza dominante su un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali. Il comma 2 dell’articolo 167 specifica che il controllo civilistico può essere esercitato in modo diretto o indiretto, quindi anche tramite una subholding residente in uno Stato a fiscalità ordinaria che controlli a sua volta una società estera. Se quindi anche una partecipazione indiretta è rilevante nella valutazione dei requisiti per l’applicazione delle regole CFC, è necessario tenere in considerazione eventuali partecipazioni detenute attraverso società fiduciarie, per interposta persona, o tramite società controllate dal soggetto residente (controllo c.d. “a catena”)38. Questa previsione è di grande rilievo perché i controlli indiretti si presentano tipicamente nei gruppi societari, i quali si è avuto modo di verificare essere tra i più comuni autori di strategie fiscali aggressive, spesso aventi ad oggetto proprio lo sfruttamento di società estere controllate. Questo fenomeno, tuttavia, se già nei limiti di una pianificazione fiscale genuina può destare problemi nell’individuazione del soggetto effettivamente detentore del potere di direzione e coordinamento, a maggior ragione li potrà destare quando il gruppo crea appositamente una struttura complessa con lo scopo di confondere e disperdere la ricchezza all’interno della struttura sociale, a tal punto che le CFC sono tra gli strumenti maggiormente utilizzati dai gruppi multinazionali per sviluppare queste tipologie di strategie.

La seconda ipotesi di controllo è quella introdotta dal legislatore col recente D. Lgs. n. 142/2018 alla lettera b) comma 2 articolo 167, ossia il controllo mediante partecipazione agli utili di una società estera. Questa ipotesi nasce per regolamentare i casi in cui il soggetto residente detenga una quota maggioritaria di partecipazione agli utili del soggetto estero senza che vi sia una corrispondente detenzione di diritti di voto in assemblea. In assenza di tale disposizione potrebbero infatti non esserci le condizioni per l’applicazione del regime CFC, se non venisse dimostrato il controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c. Anche per questa seconda fattispecie (di partecipazione agli utili) è possibile un controllo indiretto: la relazione illustrativa al D. Lgs. n. 142/2018 spiega che esso si verifica attraverso un accertamento aritmetico, il c.d. metodo demoltiplicatore39.

Il momento in cui dev’essere valutata la situazione di controllo, infine, coincide con quello di chiusura dell’esercizio della partecipata estera40.

Il comma 4 prosegue nella formulazione dei requisiti per l’applicazione della disciplina CFC: “La disciplina del presente articolo si applica se i soggetti controllati non residenti integrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia […]; b) oltre un terzo dei proventi da essi realizzati rientra in una delle seguenti categorie: […]”. In quest’ultima lettera sono elencate una serie di categorie reddituali classificabili tra i c.d. passive income41. Per quanto riguarda la prima lettera, il contribuente deve effettuare un esame per verificare sia il livello impositivo effettivo a cui è sottoposto il soggetto controllato estero, sia il livello impositivo “virtuale” a cui lo stesso soggetto sarebbe sottoposto se fosse tassato in Italia e quest’ultimo dev’essere calcolato attraverso una rideterminazione del reddito in base alle disposizioni fiscali interne; una volta trovati entrambi i livelli bisogna operare un confronto per valutare se la prima condizione è verificata42. La seconda lettera richiede una presenza minima di passive income tra i proventi della controllata perché considerati un elemento rilevatore della possibile artificiosità della struttura estera. Queste due condizioni, presenti congiuntamente, legittimano l’applicazione automatica della disciplina antielusiva CFC, a meno che il contribuente non dimostri la presenza della circostanza esimente di cui al comma 5 dell’articolo 167.

L’articolo 167 prevede al comma 5 un’unica esimente: “le disposizioni del presente articolo non si applicano se il soggetto di cui al comma 1 dimostra che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali […]”. Ciò che questa disposizione chiede è in sostanza una dimostrazione che il reddito imputato alla controllata estera sia stato effettivamente prodotto dalla controllata e tale dimostrazione può avvenire solo attraverso la prova che questo soggetto disponga di tutti i mezzi necessari per ottenere quel reddito. L’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 51/E del 2010 ha indicato, con riferimento alla previgente normativa ma tuttora attuale, i documenti riguardanti la società estera che potrebbero assumere rilevanza nella dimostrazione dello svolgimento di un’attività effettiva, tra cui: il bilancio della società; un prospetto descrittivo della struttura organizzativa della società; i contratti di locazione degli uffici, i contratti di lavoro dei dipendenti, conti correnti bancari aperti presso istituti locali; un prospetto con la composizione dell’organo amministrativo (numero, identità e residenza degli amministratori); documentazione rappresentativa del consumo di utenze (elettriche, telefoniche, etc.)43. Nel leggere la documentazione proposta, che è indicata dall’Agenzia solo a titolo esemplificativo, ci si rende conto che l’intento dell’Amministrazione è quello di ottenere una prova circa l’effettiva sussistenza della società estera e la sua attività, il collegamento effettivo col territorio in cui si trova e, esaminando la sua struttura e la sua composizione, poter valutare se la società realmente possiede i mezzi per produrre quel determinato ammontare di reddito.

Sulla base di queste considerazioni non sembrano sorgere problemi interpretativi nei casi di CFC che svolgono attività materiali che necessitano di una presenza fisica strutturata nel territorio in cui operano; l’esimente infatti quando parla di “attività economica effettiva” comprende di certo la dimostrazione di tale struttura. Più problematici sono i casi di società estere che non svolgono attività di questo tipo, ad esempio una holding che detenga le partecipazioni di un gruppo o una società che si limiti a gestire profitti senza svolgere quelle attività sopra evidenziate che richiedono una presenza importante sul territorio; in tali ipotesi infatti risulta più difficile dimostrare la sussistenza della circostanza esimente, non disponendo di una presenza fisica adeguata. Il concetto di “attività economica effettiva” è però facilmente interpretabile anche con riferimento a questi casi, se ci si lascia alle spalle quei caratteri di fisicità e materialità che sembrano di primo acchito contraddistinguerlo44. Lo svolgimento di un’attività economica effettiva, infatti, può facilmente compiersi anche senza la presenza di una massiccia struttura nel territorio dello Stato estero, ciò che risulta importante riscontrare è piuttosto la coerenza dell’attività che la società dichiara di svolgere con quella realmente svolta. Se si esamina infatti la Direttiva ATAD all’art. 7 paragrafo 2 lett. b) vengono inclusi tra i redditi da tassare per trasparenza in capo al controllante quelli derivanti da “costruzioni non genuine”, ossia una costruzione che “non possiederebbe gli attivi o non avrebbe assunto i rischi che generano la totalità o una parte dei suoi redditi se non fosse controllata da una società in cui le funzioni significative del personale che sono pertinenti per tali attivi e rischi sono svolte e sono funzionali al fine di generare i redditi della società controllata”. Considerando che tale Direttiva è stata attuata dal Decreto Legislativo che ha riformato l’articolo 167 del TUIR, la sopra esposta interpretazione sarebbe applicabile anche alla nostra “attività economica effettiva”. Le parole chiave sembrerebbero dunque essere “coerenza” e “autonomia”: coerenza sia tra quanto dichiarato dalla società e quanto effettivamente esercitato, sia coerenza tra i mezzi a disposizione della società e l’attività svolta; infine il contribuente dovrà dimostrare l’autonomia operativa della società estera45.

Nella parte finale del comma 5 viene poi fatto un richiamo alla possibilità di presentare istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’articolo 11 comma 1 lettera b) della Legge n. 27/2000 (“Statuto del contribuente”) 46. La presentazione di tale istanza, prima delle modifiche introdotte dal Decreto internazionalizzazione (D. Lgs. n. 147/2015), costituiva un obbligo per il contribuente che voleva vedersi disapplicata la normativa CFC; dal dettato precedente si era giunti all’interpretazione che in assenza della richiesta di interpello, anche di fronte alla dimostrazione della ricorrenza di una circostanza esimente, il soggetto non sarebbe comunque stato più nella possibilità di chiedere la disapplicazione delle CFC rules. La modifica normativa del 2015 ha sostituto la formula “il contribuente deve […]” con “il contribuente può interpellare l’Agenzia delle Entrate”; l’istanza è oggi facoltativa, quindi anche se il soggetto decide di non presentarla non viene pregiudicata la sua facoltà di ottenere la disapplicazione della disciplina una volta dimostrata la non artificiosità della società estera.

Il comma 11 dell’art. 167 recita: “L’Agenzia delle Entrate, prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento d’imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove per la disapplicazione delle disposizioni del presente articolo in base al comma 5”. Dalla lettura del comma 5 in combinato disposto col comma 11 si evince che nonostante il soggetto possa decidere di non presentare istanza di interpello, l’Amministrazione è comunque tenuta ad avviare un contraddittorio preventivo col contribuente, prima di poter emettere un avviso di accertamento. Sembra dunque che il legislatore abbia voluto distribuire l’onere della prova che prima della riforma gravava solo sul soggetto residente, coinvolgendo oggi anche l’Amministrazione.

Infine, se il Decreto internazionalizzazione del 2015 ha alleggerito gli oneri del contribuente in merito all’interpello, ha anche introdotto, probabilmente per bilanciare questa novità, un nuovo obbligo al comma 11 dell’art. 167. In tale comma infatti si legge: “Fatti salvi i casi in cui la disciplina del presente articolo sia stata applicata oppure non lo sia stata per effetto dell’ottenimento di una risposta favorevole all’interpello di cui al comma 5, il soggetto di cui al comma 1 deve segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni in soggetti controllati non residenti di cui ai commi 2 e 3, al ricorrere delle condizioni di cui al comma 4, lettere a) e b)”. Questa segnalazione chiaramente non sarà necessaria nei casi in cui le società estere in questione abbiano già ricevuto un accertamento definitivo, che può essersi tradotto sia nell’applicazione della normativa CFC, sia in una risposta favorevole all’istanza di interpello. È importante evidenziare che la mancata segnalazione, anche nei casi in cui essa fosse obbligatoria, non pregiudica la possibilità per il contribuente di ottenere la disapplicazione della normativa CFC47. Per concludere la disciplina dell’interpello, il comma 12 dell’art. 167 afferma che qualora il contribuente abbia presentato istanza di interpello e ricevuto un parere positivo da parte dell’Amministrazione, l’esimente di cui al comma 5 non dovrà più essere dimostrata in sede di controllo, “fermo restando il potere dell’Agenzia delle entrate di controllare la veridicità e completezza delle informazioni e degli elementi di prova forniti in tale sede”48.

Dopo aver esposto i presupposti per la sua l’applicazione, il comma 6 si dedica all’enunciazione del regime CFC. Il legislatore italiano ha optato per il jurisdictional approach, che consiste nella tassazione del reddito prodotto dal soggetto estero indipendentemente dalla natura di tale reddito. Al comma 6 si può leggere la seguente previsione: “Ricorrendo le condizioni di applicabilità della disciplina del presente articolo, il reddito realizzato dal soggetto controllato non residente è imputato ai soggetti di cui al comma 1 […] in proporzione alla quota di partecipazione agli utili del soggetto controllato non residente da essi detenuta […]”. Il regime scelto dal legislatore è quello della tassazione per trasparenza: i redditi prodotti dalla società controllata estera quindi si trasferiscono automaticamente in capo al soggetto controllante e concorrono a costituire la sua base imponibile. Viene precisato che l’imputazione dei redditi avviene in capo al controllante in proporzione alla quota di partecipazione di questo agli utili della controllata estera49. Nel caso in cui la partecipazione sia indiretta, però, vanno fatte ulteriori precisazioni: la quota di partecipazione dev’essere quantificata attraverso il metodo demoltiplicatore; inoltre, se nella catena di controllo sono presenti più soggetti residenti, l’imputazione si arresta, risalendo la catena partecipativa, al primo soggetto sottoposto a potestà fiscale in Italia50.

Prima di essere imputato il reddito estero dev’essere rideterminato, come esprime il comma 7, “in base alle disposizioni valevoli ai fini dell’imposta sul reddito delle società per i soggetti di cui all’articolo 73”51, fatte salve alcune eccezioni52.

Una volta determinato e imputato il reddito CFC al soggetto residente, questo viene tassato nel periodo d’imposta in corso alla data di chiusura dell’esercizio o del periodo di gestione del soggetto controllato. Il comma 8 prevede che il reddito sia assoggettato a tassazione separata “con l’aliquota media applicata sul reddito del soggetto cui sono imputati e, comunque, non inferiore all’aliquota ordinaria dell’imposta sul reddito delle società”. Per evitare che il regime di tassazione per trasparenza determini fenomeni di doppia tassazione sullo stesso reddito, sono previste due misure apposite: il comma 9 riconosce al contribuente italiano il diritto di detrarre dall’imposta dovuta in Italia l’importo dei tributi versati all’estero a titolo definitivo da parte della società controllata, per i quali quindi viene riconosciuto un credito d’imposta; il comma 10 stabilisce invece che gli utili della CFC già distribuiti non concorrano alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino a concorrenza dei redditi già tassati per trasparenza, così evitando che gli utili siano tassati nuovamente53.

Le perdite fiscali della CFC possono essere compensate solo con redditi della stessa CFC generati negli esercizi successivi, mai con redditi generati dal soggetto residente54; questa previsione risulta in linea con la decisione del legislatore di lasciare i due redditi separati.

Terminata l’analisi della normativa interna, è possibile constatare che l’ordinamento italiano si è pienamente conformato alle raccomandazioni OCSE, allineando la propria disciplina CFC con quella suggerita nell’Action 3. È giusto ricordare che se l’articolo 167 TUIR può ritenersi oggi conforme alle raccomandazioni OCSE, il merito è attribuibile, prima ancora che al nostro legislatore, alla Commissione europea. La Direttiva ATAD, infatti, nasce dalla volontà sentita in ambito comunitario di uniformarsi alle raccomandazioni del progetto BEPS e, come anticipato, tale azione è di primaria importanza poiché trascrivendo in una Direttiva i pareri dell’OCSE, queste previsioni diventano vincolanti per tutti gli Stati membri, garantendo anche un’adozione coordinata.

5. Conclusioni

Il problema principale nell’analisi e nella regolamentazione delle strategie fiscali aggressive consiste nella velocità con cui queste cambiano e si adattano ai nuovi scenari economici e giuridici. La rincorsa dei legislatori a modificare le normative esistenti, in modo tale da renderle più efficienti nei confronti delle nuove pratiche fiscali, si rivela continuamente troppo lenta rispetto all’evoluzione dell’economia. Una soluzione dunque potrebbe essere quella di introdurre discipline ex novo in grado di anticipare, se costruite in termini chiaramente ampi, i probabili futuri assetti economici. Queste nuove previsioni sarebbe auspicabile che fossero adottate in ambito internazionale, appurato che l’adozione di regole diverse ad opera dei singoli ordinamenti non fa che aumentare quelle disparità su cui le imprese costruiscono le proprie strategie fiscali. Ciò nonostante non si riscontra nell’attuale momento storico un clima di cooperazione internazionale come quello che ispirò la nascita del progetto BEPS; gli Stati Uniti hanno maturato un atteggiamento sempre più scettico nei confronti di questi interventi, tanto che sono stati apportati pochi cambiamenti nella normativa statunitense in attuazione delle raccomandazioni OCSE, e il motivo principale è il timore che dall’implementazione di queste azioni possa derivare un pregiudizio alla capacità competitiva delle proprie società55.

Se le multinazionali sfruttano le incongruenze presenti tra gli Stati, la soluzione è evidentemente quella di eliminare tali incongruenze, se traggono beneficio dalle lacune, queste ultime vanno colmate. La ricchezza offerta da strumenti internazionali consiste proprio in questo: nel beneficiare di una prospettiva super partes dalla quale analizzare le problematiche e trovarne delle soluzioni che non siano condizionate da interessi statali. Tuttavia, finché il panorama internazionale continuerà ad essere caratterizzato da un profondo conflitto di interessi tra i Paesi che da queste pratiche fiscali aggressive traggono benefici economici e quelli che al contrario ne subiscono perdite e vengono danneggiati56, risulta chiaramente complessa la definizione di una soluzione comune.


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1 M. MOREGI, La concorrenza fiscale tra Stati, in Diritto.it, 2016, <https://www.diritto.it/la-concorrenza-fiscale-tra-stati/>

2 P. BORIA, La concorrenza fiscale tra Stati: verso un nuovo ordine della fiscalità internazionale, in La concorrenza fiscale tra Stati, a cura di P. BORIA, Cedam, 2018, p. 5 e ss.

3 P. BORIA, La concorrenza fiscale tra Stati: verso un nuovo ordine della fiscalità internazionale, p. 6

4 P. BORIA, La concorrenza fiscale tra Stati: verso un nuovo ordine della fiscalità internazionale, p. 7. In particolare: “Le scelte di fiscalità agevolata sono state così rivolte a favorire stanziamenti minimi di società multinazionali, sovente solo mediante sedi legali con strutture leggere, per beneficiare di vantaggiosi trattamenti tributari di alcuni flussi reddituali (ad es. interessi, dividendi, royalties).”

5 S. CIPOLLINA, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1/2014, p. 22 e ss.

6 A. DELLA ROVERE, I. VIOLA, Prospettive della digital economy in ambito internazionale, europeo e nazionale, in Il Fisco, 10/2019, p. 947 e ss.

7 P. PISTONE, La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, in L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, a cura di F. AMATUCCI, R.C. GUERRA, Aracne editrice, 2016, p. 275. In particolare: “si ritiene che tre siano gli elementi essenziali della pianificazione fiscale aggressiva nell’ottica del diritto tributario globale, ossia i) lo sfruttamento delle disparità tra sistemi diversi con la finalità di trarre un vantaggio fiscale, ii) il disallineamento tra la produzione della ricchezza e il potere statuale d’imposizione e iii) la sussistenza di una doppia non imposizione che gli Stati non hanno inteso concedere”.

Cfr. Definizione di pianificazione fiscale aggressiva proposta dalla Commissione europea nella Raccomandazione del 6 dicembre 2012: “La pianificazione fiscale aggressiva consiste nello sfruttare a proprio vantaggio gli aspetti tecnici di un sistema fiscale o le disparità esistenti fra due o più sistemi fiscali al fine di ridurre l’ammontare dell’imposta dovuta. La pianificazione fiscale aggressiva può assumere svariate forme. Fra le conseguenze di questa pratica si possono citare le doppie detrazioni (ad esempio la stessa perdita è detratta sia nello Stato della fonte che nello Stato di residenza) e la doppia non imposizione (ad esempio i redditi che non sono tassati nello Stato della fonte sono esenti nello Stato di residenza)”, 2012/772/UE, punto 2.

8 P. VALENTE, Sviluppi in ambito internazionale per contrastare l’erosione di base imponibile: quali prospettive?, in Corr. trib., 38/2013, p. 3038 e ss.

9 F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. 2 – parte speciale, UTET, 2016, p. 399

10 L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), istituita a Parigi nel 1961, ha la funzione di coadiuvare i governi degli Stati membri nell’affrontare questioni politiche, economiche e sociali, offrendo loro un contesto in cui confrontare le proprie esperienze e cercare risposte a problemi comuni, il tutto in un’ottica di coordinamento internazionale.

11 Cfr. Servizio del Bilancio, Il Progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), Nota breve n. 13, 2015, p. 1, <https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00941275.pdf>

12 P. PISTONE, La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, p. 289

13 Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), in Fiscotoday.it, 2016, <https://fiscotoday.it/base-erosion-and-profit-shifting-beps/>

14 P. VALENTE, La pianificazione fiscale internazionale nell’era BEPS, IPSOA, 2016, <https://static1.squarespace.com/static/55a50b8ee4b00f4e23b93618/t/5819d4b2be6594f54cb94d25/1478087859627/2016_02-11_PV_la-pianificazione-fiscale-internazionale-nell-era-beps.pdf>

15 G. MARINO, Relazioni di controllo e attività d’impresa, in Riv. dir. trib., 10/2009, p. 851, 855

16 G. MARINO, Relazioni di controllo e attività d’impresa, p. 855

17 Servizio del Bilancio, Il Progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), p. 3

18 OECD.org, Action 3 Controlled Foreign Company, <https://www.oecd.org/tax/beps/beps-actions/action3/>

19 G. BIZIOLI, M. GRANDINETTI, I modelli legislativi in materia di controlled foreign companies, in L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, p. 572, 573

20 L’OCSE riporta l’esempio degli Stati Uniti, in cui la soglia minima di interesse nella CFC da parte di ciascun azionista dev’essere almeno del 10%.

21 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 2 “Rules for defining a CFC”, 2015, paragrafi 23-49

<https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/9789264241152-en.pdf?expires=1575278558&id=id&accname=guest&checksum=9A9FD0F682D3D3F09BF384FFF0977A54>

22 Modello adottato, tra gli altri, da Stati Uniti e Germania.

23 La dimostrazione ad opera delle amministrazioni della finalità elusiva di una frammentazione non risulta di certo facile, e anzi potrebbe annullare i benefici stessi in termini di oneri amministrativi della pratica della soglia minima. Per tale motivo alcuni Stati hanno adottato delle presunzioni relative che considerano automaticamente come redditi aggregati quelli prodotti, ad esempio, da CFC che svolgono attività precedentemente svolte da un’unica CFC, poi scissa.

24 Questa seconda modalità ha anche il beneficio di offrire una maggiore garanzia ai contribuenti in termini di certezza del diritto, rendendo già note le giurisdizioni per le quali si applicherà il regime CFC.

25 Del primo orientamento è la Germania, che ha predisposto una percentuale (25%) sotto la quale l’aliquota è da considerarsi bassa e quindi legittima l’applicazione della normativa CFC. Del secondo orientamento è invece, ad esempio, il Regno Unito, che richiede un livello di tassazione almeno pari al 75% della propria imposta affinché non venga applicata la normativa CFC.

26 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 3 “CFC exemptions and threshold requirements”, paragrafi 50-71

27 L’analisi sostanziale chiaramente genera un risultato più accurato, ma al prezzo di una maggiore complessità delle analisi e quindi anche di un costo più elevato. È dunque lasciata alla libertà dei singoli Stati e ai loro obiettivi politici la valutazione circa la convenienza o meno di una scelta di questo tipo.

28 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 4 “Definition of CFC income”, paragrafi 72-97

29 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 5 “Rules for computing income”, paragrafi 98-108

30 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 6 “Rules for attributing income”, paragrafi 109-120

31 OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Action 3: Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Chapter 7 “Rules to prevent or eliminate double taxation”, paragrafi 121-137

32 La Germania aveva adottato la normativa CFC nel 1972, la Francia nel 1980, il Regno Unito nel 1984.

33 OECD, Harmful tax competition: an emerging global issue, Paris, 1998, <https://read.oecd-ilibrary.org/taxation/harmful-tax-competition_9789264162945-en#page41>. In particolare a pagina 40: “that countries that do not have such rules consider adopting them and that countries that have such rules ensure that they apply in a fashion consistent with the desirability of curbing harmful tax practices”.

34 E.M. BAGAROTTO, La disciplina in materia di Controlled Foreign Companies alla luce delle modifiche apportate dalla legge di stabilità 2016 e nell’attesa dell’attuazione della “Direttiva anti-BEPS”, in Dir. prat. trib., 3/2017, p. 954 e ss.

35 Cfr. A. DI STEFANO, A. PORCARELLI, G. FALDUTO, CFC: un restyling in formato ATAD, in Amministrazione & finanza, 6/2019, p. 13 e ss.

36 Istituto che permette ad una società madre italiana, avente stabili organizzazioni estere, di optare per l’esenzione degli utili e delle perdite prodotti da tutte le proprie stabili organizzazioni estere. Tale ipotesi è stata inserita dal legislatore nel presente comma poiché questa disciplina potrebbe essere utilizzata dai soggetti residenti per evitare l’applicazione del regime CFC, utilizzando organizzazioni estere che non rientrano né nella definizione di impresa, né di società, né di ente.

37 Questa ulteriore previsione si giustifica sulla base dell’art. 2468 c. 2 del codice civile, il quale prevede, come eccezione alla regola, la possibilità per i soci di detenere partecipazioni agli utili non corrispondenti alle quote di partecipazione nel capitale sociale, purché espressamente indicato nell’atto costitutivo. Tale novità vuole dunque evitare che i soggetti controllanti tentino di aggirare le CFC rules attraverso una scissione tra diritto agli utili e controllo di diritto.

38 A. STESURI, La riforma fiscale e la disciplina delle società estere controllate e collegate – I parte, in Azienda & fisco, 19/2004, p. 3 e ss.

39 Relazione illustrativa al decreto di recepimento della Direttiva 2016/1164/UE del Consiglio del 12 luglio 2016 (c.d. ATAD I), 2018, <http://www.governo.it/sites/governo.it/files/La_Relazione_Illustrativa_.pdf>. In particolare: “In caso di partecipazione indiretta, la percentuale di partecipazione agli utili è determinata tenendo conto della eventuale demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria partecipativa”.

40 Relazione di accompagnamento del Decreto Ministeriale del 21 novembre 2001, p. 10, 11, <https://toscana.agenziaentrate.it/sites/toscana/files/public/pdfold/relaz_conv_5_12_02.pdf>

41 Tra queste vi sono: interessi o qualsiasi altro reddito generato da attivi finanziari; canoni o qualsiasi altro reddito generato da proprietà intellettuale; dividendi e redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni; redditi da leasing finanziario; redditi da attività assicurativa, bancaria e altre attività finanziarie; etc.

42 A. DI STEFANO, A. PORCARELLI, G. FALDUTO, CFC: un restyling in formato ATAD, p. 13 e ss.

43 Agenzia delle Entrate, Circolare 51/E del 6 ottobre 2010; “Oggetto: Disciplina relativa alle Controlled Foreign Companies (CFC) – Dividendi provenienti e costi sostenuti con Stati o territori a fiscalità privilegiata – Chiarimenti”, <https://def.finanze.it/DocTribFrontend/getContent.do?id=%7B3BC35019-99EC-4642-8D5F-7C1A96160267%7D>

44 A. DI STEFANO, A. PORCARELLI, G. FALDUTO, CFC: un restyling in formato ATAD, p. 13 e ss.

45 Cfr. Audizione informale del Condirettore generale di Assonime riguardo l’Atto del Governo n. 42 (riferito allo schema di decreto legislativo recante norme contro le pratiche di elusione fiscale), 4 ottobre 2018, <http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/36973.htm>. In particolare a pagina 14: “La nuova esimente appare meno rigorosa. Infatti, il regime di CFC non si applica se il contribuente dimostra che “il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attività o locali”. A quanto sembra, dunque, anche una controllata estera che si limita a conseguire prevalentemente interessi, canoni, ecc., potrebbe soddisfare questa prova se dimostra che la sua attività, le sue competenze, i suoi fattori produttivi sono coerenti con tale attività economica”.

46 “Il contribuente può interpellare l’amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente a: […] b) la sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti”.

47 A. ANGELINI, A. ERARIO, CFC: profili interpretativi e applicativi alla luce delle recenti modifiche normative, compatibilità rispetto al diritto comunitario ed internazionale, in Fiscalità & commercio internazionale, 6/2018, p. 5 e ss.

48 A. DI STEFANO, A. PORCARELLI, G. FALDUTO, CFC: un restyling in formato ATAD, p. 13 e ss.

49 Cfr. G. ROLLE, Adattamento alla disciplina ATAD delle norme interne su CFC, dividendi esteri e plusvalenze su partecipazioni, in Il fisco, 38/2018, p. 3637 e ss.

50 A.M. GAFFURI, La disciplina delle CFC, in Manuale di fiscalità internazionale, a cura di A. DRAGONETTI, V. PIACENTINI, A. SFONDRINI, IPSOA, 2016, p. 1820, 1821

51 L’articolo 73 del TUIR contiene un elenco dei soggetti a cui si applica l’imposta sul reddito delle società (IRES).

52 Articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, riguardante le società non operative; articolo 2, comma 36-decies, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, inerente alle società in perdita sistematica; articolo 62-sexies del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, sugli studi di settore; articolo 1 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 sull’aiuto alla crescita economica (ACE); e articolo 86, comma 4, del TUIR inerente alla rateizzazione delle plusvalenze.

53 Cfr. A.M. GAFFURI, La disciplina delle CFC, in Manuale di fiscalità internazionale, p. 1822

54 Decreto Ministeriale del 21 novembre 2001 n. 429, articolo 2

55 F. MONFREDA, USA: le Action BEPS dell’OCSE tra novità e politica condivisa, in Fisco Oggi (rivista online dell’Agenzia delle entrate), 2017, <https://www.fiscooggi.it/rubrica/dal-mondo/articolo/usa-action-beps-dellocse-novita-e-politica-condivisa-1>

56 Assonime, Tassazione d’impresa ed economia digitale, Note e Studi 6/2019, p. 30 <http://www.assonime.it/attivita-editoriale/studi/Pagine/note-e-studi-6-2019.aspx>

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