La contestazione dell’addebito è l’atto con il quale ha formalmente inizio un procedimento disciplinare (fatta eccezione per il “rimprovero verbale”, che non necessita di contestazione dell’addebito) e deve essere , a pena di nullità, redatta in forma scritta, secondo i principi dell’immediatezza, della specificità e dell’immodificabilità.
E’ un atto recettizio unilaterale con cui viene fissato il momento dal quale decorre il termine di centoventi giorni (dies a quo) per la conclusione dell’intero procedimento disciplinare e trova espressa disciplina nell’articolo 55 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche.
Modifiche apportate dalla riforma “Brunetta” e successivamente dalla riforma“Madia”
La competenza dei dirigenti delle amministrazioni pubbliche, di cui al d. lgs. 165/2001, ad irrogare sanzioni disciplinari ai propri dipendenti è stata interessata da diversi interventi legislativi che hanno considerato il ruolo dirigenziale con alterne valutazioni, a volte potenziandone e altre volte sminuendone la funzione, attraverso un diverso riconoscimento delle specifiche competenze in materia disciplinare.
Prima della riforma “Brunetta”, introdotta con il d. lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 e in vigore dal 15 novembre 2009, al dirigente delle amministrazioni pubbliche era riconosciuta la competenza ad irrogare le sanzioni del “rimprovero verbale” e del “rimprovero scritto (censura)”, mentre per tutte le altre sanzioni più gravi era competente l’Ufficio Procedimenti Disciplinari (U. P. D.).
Nel 2009, con la riforma voluta dal Ministro Brunetta, per ottimizzare la produttività del lavoro pubblico, era stato valorizzato il ruolo dei dirigenti, in quanto responsabili della gestione delle risorse umane, nonché della qualità e quantità del prodotto delle pubbliche amministrazioni e, pertanto, riconosciuta piena ed esclusiva competenza per avviare e concludere l’intero procedimento relativo alle seguenti sanzioni disciplinari:
- rimprovero verbale;
- rimprovero scritto (censura);
- multa di importo variabile fino a massimo 4 ore di retribuzione;
- sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a 10 giorni.
Nuove modifiche alla suddetta ripartizione sono, però, intervenute con la riforma “Madia” (d. lgs. 25 maggio 2017, n. 75, in vigore dal 22 giugno 2017 ) e ai dirigenti delle Amministrazioni pubbliche (e non ai dirigenti scolastici che non sono stati interessati da modifiche) è stata lasciata la sola competenza sanzionatoria del “rimprovero verbale”, mentre all’Ufficio Procedimenti Disciplinari sono state riservate tutte le restanti sanzioni disciplinari.
Questa modifica – certamente riduttiva delle funzioni dirigenziali – è stata considerata dal legislatore come una salutare innovazione ai procedimenti punitivi della pubblica amministrazione, perché i dirigenti di “prossimità” si erano resi colpevoli di “buonismo” nei riguardi dei loro dipendenti, con conseguenti inerzie gestionali.
Anche il Consiglio di Stato, chiamato ad esprimere il proprio parere ( adunanza della Commissione Speciale dell’11 aprile 2017) sullo schema del D. Lgs. della riforma “Madia”, con il quale venivano apportate modifiche e integrazioni al Testo Unico del Pubblico Impiego (D. Lgs. 30 marzo 2001, n.165), ha espresso condivisione sulle innovazioni inerenti alla competenza del dirigente (o responsabile della struttura) presso cui presta servizio il dipendente all’irrogazione della sola sanzione di minore entità del “rimprovero verbale”, a differenza della precedente previsione dell’art. 55-bis, comma 1, del T.U., che, invece, riservava alla competenza del responsabile della struttura avente qualifica dirigenziale l’irrogazione del “rimprovero verbale” e delle altre tre sanzioni più gravi.
Ai dirigenti rimane solo “il rimprovero verbale”
Ai dirigenti, quindi, è stato conservato, in via residuale, solo il “rimprovero verbale”, che, prima della riforma del 2017, era di competenza anche del responsabile di struttura non dirigente, laddove l’ufficio non avesse dirigente, perchè non prevista tale figura o perchè assente per ferie , malattia, ecc.
La novella “Madia” è intervenuta con forte volontà innovativa sulla potestà datoriale sanzionatoria e ha determinato una significativa differenziazione funzionale tra i vari dirigenti.
In effetti, solo ai dirigenti scolastici è stata mantenuta la competenza piena (vale a dire dalla contestazione dell’addebito all’irrogazione della sanzione) a trattare tutti i procedimenti disciplinari nei confronti dei loro dipendenti, cui consegue una sanzione massima della “sospensione fino a dieci giorni”.
Le modifiche di cui innanzi hanno di fatto determinato che la contestazione dell’addebito sia di competenza esclusiva dell’U.P.D., in quanto l’unico provvedimento rimasto nella sfera sanzionatoria del dirigente, cioè “il rimprovero verbale”, non richiede la contestazione dell’addebito, sicchè la funzione dirigenziale risulta privata di idonei strumenti per far comprendere ai dipendenti che il cosiddetto “Capo di prossimità” ha poteri e facoltà da esercitare con immediatezza, per reprimere illecite condotte e violazioni comportamentali.
L’unico caso in cui il dirigente ha competenza ad adottare la contestazione dell’addebito si ha allorquando il dipendente si sia reso colpevole di false attestazioni della presenza in servizio accertate in flagranza, ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze (“furbetti del cartellino”).
Per tali fattispecie, secondo quanto previsto dall’art.55-quater del d. lgs. 165/2001, integrato dal d. lgs. 116/2016, si dovrà procedere con un iter accelerato, sicchè il dirigente deve disporre, con provvedimento motivato, entro 48 ore, da quando ne sia venuto a conoscenza, la sospensione cautelare del dipendente.
Con siffatto provvedimento, che, come detto, deve essere emesso dal dirigente (o U.P.D. a seconda di chi ne sia venuto prima a conoscenza), si procede anche alla contemporanea contestazione per iscritto dell’addebito e alla convocazione del dipendente dinanzi all’Ufficio Procedimenti Disciplinari.
Per ragioni di celerità spetta al responsabile della struttura sospendere il dipendente e contestare l’addebito
La competenza a sospendere cautelarmente il dipendente e a contestare l’addebito (salvo che non ne sia venuto a conoscenza per primo l’U.P.D.) è riconosciuta, per evidenti ragioni di celerità, al responsabile della struttura , che si dovrà occupare delle “prime cure”, ma la competenza all’istruttoria e all’adozione del provvedimento finale è, in ogni caso, dell’U.P.D.
Al di là di questa peculiare tipologia sanzionatoria, espressione di accadimenti o particolari eventi che hanno una forte rilevanza mediatica e indignano i cittadini onesti colpiti da immagini di impiegati “imbroglioni”, il normale percorso sanzionatorio relativo a tutti gli altri comportamenti ritenuti di rilevanza disciplinare prevede che il dirigente del soggetto incolpato debba, immediatamente e comunque entro dieci giorni, segnalare all’ U.P. D. , con specifica relazione, i fatti di cui sia venuto a conoscenza.
Questo momento è senza dubbio molto pregnante perchè il responsabile della struttura deve valutare le prime informazioni di cui dispone e stabilire se esse – tra l’altro anche in assenza di contraddittorio – possano aver determinato una violazione comportamentale di modesta rilevanza e, quindi, sanzionabile con un semplice “rimprovero verbale” di competenza dello stesso responsabile della struttura, ovvero si tratti di comportamenti di maggiore gravità da sottoporre all’autorità disciplinare denominata U.P.D.
Queste attività hanno una specifica scansione temporale fissata dall’art. 55-bis del d. lgs. 165/2001 – così come modificato dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 – che al comma 4 stabilisce : “ per le infrazioni per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale , il responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente segnala immediatamente, e comunque entro dieci giorni , all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza.”
Il termine di dieci giorni assegnato al responsabile della struttura non è perentorio, in quanto, come opportunamente specificato dal legislatore al comma 9-ter dell’art. 55-bis, del d. lgs. 165/2001, sono da considerare perentori, salvo quanto previsto dall’art. 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, soltanto il termine per la contestazione dell’addebito (30 giorni) e il termine per la conclusione del procedimento (120 giorni).
Va anche rilevato che lo stesso comma 9-ter dell’art. 55-bis precisa che : “ la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purchè non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”.
E’ evidente, quindi, che i dieci giorni assegnati per inviare gli atti all’U.P.D. sono ordinatori, ma, pur trattandosi di un termine la cui violazione non inficia il procedimento disciplinare, occorre procedere con sollecitudine alla cura dei necessari adempimenti, in quanto eventuali ritardi potrebbero determinare omissioni, in capo al responsabile della struttura, per mancata “immediata segnalazione”, con conseguenti comportamenti censurabili in altra sede.
L’art. 55-bis del d. lgs. 165/2001, nel disciplinare la fase successiva, stabilisce che l’U.P.D. entro trenta giorni decorrenti dal ricevimento della segnalazione, ovvero dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare, procede alla formale contestazione degli addebiti al dipendente.
Secondo la Corte Suprema di Cassazione l’immediatezza della contestazione deve essere valutata non in riferimento al materiale accadimento del fatto addebitato, ma in relazione alla conoscenza che il datore di lavoro abbia avuto di tale fatto (cfr. sent. Cass. Sez. Lav. 21 febbraio 2017, n. 4447; sent. Cass. Sez. Lav. 27 giugno 2017, n. 15966).
Per la Cassazione una notizia generica non è sufficiente a formulare l’incolpazione
Non può essere avviato il procedimento disciplinare in presenza di una notizia generica di comportamento o di fatti, che non consentono la formulazione dell’incolpazione e richiedono accertamenti di carattere preliminare indispensabili ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (cfr. sent. Cass. Sez. Lav. n. 23771, del 1° ottobre 2018).
Va anche detto che il datore di lavoro deve portare a conoscenza del dipendente i fatti emersi a suo carico non appena gli appaiono ragionevolmente sussistenti, facendo attenzione a non procrastinare la contestazione fino al momento in cui ritenga di averne assoluta certezza (cfr. sent. Cass. Civ. Sez. Lav. 27-6-2017, n. 15966).
La contestazione potrà, però, essere considerata tardiva solo nel caso in cui la parte datoriale rimanga inoperosa, senza avere alcuna giustificazione, pur disponendo degli elementi necessari per dare avvio al procedimento disciplinare (cfr. sent. Cass. Sez. Lav. n. 23771, del 1° ottobre 2018).
Il termine dei trenta giorni per la contestazione dell’addebito rappresenta il momento dal quale far decorrere l’avvio del procedimento disciplinare, che dovrà concludersi, a pena di decadenza, entro centoventi giorni dal suo inizio.
Per assicurare il diritto di difesa del lavoratore la contestazione dell’addebito deve contenere la convocazione del dipendente stesso innanzi all’organo di disciplina procedente, con un preavviso di almeno venti giorni per l’audizione in contraddittorio.
Al fine di garantire il diritto di difesa del lavoratore il legislatore della novella riforma “Madia” ha opportunamente raddoppiato questo termine portandolo da dieci a venti giorni.
La contestazione di addebito deve riportare in modo puntuale i fatti e i comportamenti che sono stati rilevati e non deve essere generica, ma precisare in modo specifico e chiaro quanto ritenuto sanzionabile, al fine di consentire al lavoratore di esercitare validamente il diritto di difesa.
La necessaria specificità della contestazione, secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 23771 dell’1-10-2018, va considerata tenendo conto “che in sede disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale né si ispira ad uno schema precostituito, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano il rapporto esistente fra le parti, sicchè ciò che rileva è l’idoneità dell’atto a soddisfare l’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa”.
La contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore di conoscere gli atti istruttori sui quali si fonda l’accusa disciplinare, sicchè in essa devono essere riportati in modo puntuale i fatti considerati di rilevanza disciplinare e gli atti a essi correlati.
Gli atti di un procedimento penale possono essere richiamati nella contestazione
Riguardo agli atti è possibile, per relationem , richiamare nella contestazione atti di un procedimento penale instaurato nei confronti del dipendente per fatti e comportamenti che abbiano rilevanza anche ai fini disciplinari, semprechè le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato.
Quanto detto è stato anche oggetto di pronuncia da parte della Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza n. 448 del 10 gennaio 2019 – Sez. Lav. , ha stabilito che “la Pubblica Amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente”.
Tutto quanto considerato di rilevanza disciplinare deve essere indicato nella contestazione, anche se per relationem, ma non sarà possibile considerare legittimo tale provvedimento se il lavoratore venga a conoscenza di atti solo successivamente alla comunicazione della contestazione, allorquando, ad esempio, ha esercitato il diritto di accesso e ha preso visione di documenti e fatti non riportati nel provvedimento di incolpazione.
Al riguardo la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n.23771 del 1° ottobre 2018 – Sez. Lav., ha stabilito che “l’eventuale genericità dell’incolpazione non può essere superata facendo leva sul fatto che l’accesso agli atti avrebbe consentito al dipendente di conoscere tutti i dati necessari a circostanziare l’addebito disciplinare”.
Per altri fatti emersi in corso di istruttoria è necessaria una nuova contestazione
Oltre ad essere specifica, la contestazione deve essere immodificabile, cioè non è possibile, durante l’istruttoria, prendere in considerazione altri fatti che siano eventualmente emersi e che non erano stati oggetto di contestazione .
In tal caso, trattandosi di fatti e/o comportamenti di cui si è avuta una successiva cognizione, è necessario dar corso ad una nuova contestazione di addebito, che avvia, però, un distinto procedimento disciplinare.
Le modalità di comunicazione della contestazione sono fissate dal legislatore
Al fine anche di eliminare contenziosi le modalità di comunicazione della contestazione di addebito al lavoratore sono state opportunamente stabilite dal legislatore, che con la riforma “Madia” ha modificato l’art. 55-bis del d.lgs. 165/2001 con la seguente formulazione : “ La comunicazione di contestazione dell’addebito al dipendente, nell’ambito del procedimento disciplinare, è effettuata tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente disponga di idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. In alternativa all’uso della posta elettronica certificata o della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale con ricevuta di ritorno”.
Le comunicazioni successive alla contestazione dell’addebito, che si rendessero necessarie tra amministrazione e dipendente, possono essere effettuate tramite posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione, ai sensi dell’art. 47, comma 3, secondo periodo del d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82, oppure anche al numero di fax o altro indirizzo di posta elettronica, previamente comunicati dal dipendente o dal suo procuratore.
La contestazione può essere consegnata anche in ufficio (brevi manu) ed esiste l’obbligo del lavoratore di ricevere la comunicazione sul posto di lavoro e durante l’orario lavorativo, in considerazione dello stretto vincolo contrattuale che lega il dipendente alla parte datoriale.
E’ evidente che tutte le comunicazioni destinate al lavoratore devono assicurare la privacy di chi le riceve, ai sensi del d. lgs. 196/2003 e delle relative linee guida in materia di trattamento dei dati personali dei lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico.
Riguardo al personale che eventualmente si trovi in posizione di comando o distacco, la competenza a formulare la contestazione di addebito è della struttura ove il dipendente presta effettivamente la propria attività lavorativa.
Gli atti di avvio e conclusione dei procedimenti disciplinari e gli eventuali provvedimenti di sospensione del dipendente devono essere comunicati dall’Ufficio competente di ogni Amministrazione, per via telematica (mediante il sistema integrato “PERLAPA”), all’Ispettorato per la funzione pubblica, entro venti giorni dalla loro adozione. Al fine di tutelare la riservatezza del dipendente, il suo nominativo deve essere sostituito da un codice identificativo.
Devono essere comunicati tutti i procedimenti disciplinari, compreso il “rimprovero verbale”.
E’ evidente, per quanto detto innanzi, che anche la contestazione di addebito, essendo l’atto con il quale ha formalmente inizio un procedimento disciplinare, deve essere comunicata entro venti giorni dall’adozione all’Ispettorato per la funzione pubblica.