Le Sezioni Unite della Cassazione civile con la sentenza del 6 maggio 2016 n. 9140 hanno risolto il contrasto relativo all’efficacia e alla validità delle clausole “claims made” inserite nel contratto di assicurazione della responsabilità civile.
Ricordiamo che tale questione, sulla quale si è formato nel tempo un importante contrasto giurisprudenziale, è stata proposta nella prima traccia (relativa alla redazione di un parere civile) dell’esame di avvocato 2015.
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Rimandandosi alle considerazioni già svolte sul tema, basti qui ricordare che secondo alcuni tale clausola sarebbe inefficace, in virtù del fatto che essendo l’alea elemento essenziale del contratto di assicurazione, la sua mancanza avrebbe determinato la nullità del contratto medesimo. Secondo altro orientamento della Cassazione, l’inserimento di tali clausole non fa invece venire meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, a condizione però che al momento della stipula le parti (e, in specie, l’assicurato) ignoravano l’esistenza di questi fatti.
Ebbene, le Sezioni Unite, per risolvere il contrasto in esame, hanno anzitutto evidenziato che è possibile individuare due macro categorie di clausole claims made e segnatamente:
- le clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando sia il fatto illecito che la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia alle condotte poste in essere anteriormente alla stipula del contratto;
- clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno anzitutto chiarito che, il fatto che la copertura assicurativa sia limitata alle richieste di risarcimento presentate all’assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell’assicurazione non deve indurre a ritenere le stesse clausole nulle ai sensi dell’art. 2965 c.c. Tale disposizione implica, infatti, la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito e si riferisce, pertanto, a situazioni soggettive attive già esistenti nonché a condotte ed imposte a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista. Diversamente, “la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso”.
Sotto altro profilo, le clausole claims made non possono ritenersi nulle per asserito contrasto con i principi di correttezza, buona fede ed equità, dal momento che la violazione di tali principi, quand’anche imperativi, costituisce solo fonte di responsabilità per danni potendo predicarsi la nullità solo nelle ipotesi in cui, ove non altrimenti stabilito dalla legge, siano violati precetti inderogabili concernenti la validità del contratto.
Quanto alla vexata quaestio circa la potenzialità di dette clausole di stravolgere la struttura propria del contratto di assicurazione quale delineato nell’art. 1917 c.c., è stato osservato che l’art. 1917 c.c., comma 1 che disciplina il contratto di assicurazione non è menzionato tra le norme inderogabili individuate dall’art. 1932 c.c.: il modello codicistico ivi delineato non è quindi intangibile e le parti possono liberamente modulare le relative obbligazioni.
Secondo le Sezioni Unite, poi, la clausola claims made mista o impura non può considerarsi vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c., in quanto la sua funzione è quella di delimitare l’oggetto del contratto circoscrivendo la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva e non quella di limitare la responsabilità dell’assicuratore.
La nullità delle clausole claims made può invece ravvisarsi ogni qual volta ricorrano i presupposti per l’applicabilità della disciplina delle nullità di protezione poste a presidio del consumatore ai sensi dell’art. 36 del d. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, vale a dire quando il giudice del merito accerti – con valutazione incensurabile in sede di legittimità – l’esistenza di un’asimmetria delle parti tale che il contraente non predisponente, ancorché qualificabile come “professionista”, è in realtà sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile.
È stato, inoltre, chiarito che in considerazione dei principi e degli spunti esegetici offerti dall’art. 1419 c.c., comma 2, dall’art. 2 Cost. e del canone della buona fede, il giudice può intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale e dichiarare la nullità della clausola claims made per difetto di meritevolezza qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto.
Sono stati, in conclusione, enunciati i seguenti principi di diritto:
“nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata”.
Leggi la sentenza integrale: Corte di Cassazione, SS. UU. civili, sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016