I c.d. accordi a latere della separazione e del divorzio

Secondo l’impostazione originaria del codice civile del 1942, il matrimonio si presentava come indissolubile, salvo il caso eccezionale della separazione legale, tramite la quale tuttavia il vincolo non veniva meno ma, semplicemente, subiva un’attenuazione.

Ciò era ammesso, in particolare, qualora entrambe le parti avessero manifestato il proprio consenso ovvero nelle ipotesi tassativamente indicate dalla legge, in cui fosse riscontrabile la colpa di uno dei due coniugi.

L’idea di fondo era che la famiglia era considerata un bene di natura pubblicistica, che lo Stato doveva tutelare quale valore fondante il sistema giuridico, anche a scapito dei diritti individuali dei suoi singoli componenti.

Il principio dell’indissolubilità venne meno grazie alla l. 898/1970 che introdusse il divorzio quale strumento rimediale, operante qualora il rapporto matrimoniale sia entrato definitivamente in crisi e non possa più proseguire. La legge in realtà non lo definisce espressamente con tale termine, parlando di “scioglimento” del matrimonio civile e di “cessazione degli effetti civili” del matrimonio concordatario.

Inoltre, la riforma del 1975 eliminò il presupposto della necessità della colpa di uno dei coniugi nella separazione personale.

Da ciò emerge con ogni evidenza una visione privatistica del rapporto tra coniugi, la cui durata è determinata solo ed esclusivamente dal loro volere, con la conseguenza che l’ordinamento non interviene a tutela della famiglia se non per garantire l’interesse dei figli e del coniuge debole [1].

Le fattispecie di separazione

In tema di separazione è opportuno distinguere due ipotesi di separazione legale, ossia tra:

  • separazione giudiziale, che può essere richiesta al giudice qualora si verifichino fatti che rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza e che recano grave pregiudizio alla prole;
  • separazione consensuale, che si fonda sull’accordo dei coniugi i quali, oltre a manifestare la volontà di separarsi, decidono insieme anche l’assetto dei rapporti patrimoniali nonché l’affidamento e il mantenimento dei figli. Detto accordo, tuttavia, produce effetti solo a partire dal decreto di omologazione del giudice, che è chiamato a verificare che non sia contrario agli interessi dei figli o del coniuge più debole.

Dalla separazione legale si distingue la c.d. separazione di fatto, ipotesi in cui i coniugi decidono, concordemente o meno, di interrompere la propria convivenza senza però adire l’autorità giudiziaria.

Gli accordi a latere

In materia, un importante dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha accompagnato l’istituto dei c.d. accordi a latere della separazione, ossia quegli accordi con cui i coniugi, in caso di separazione consensuale, vanno a regolare i propri rapporti, ma che non vengono trasfusi all’interno del verbale di omologazione.

Tradizionalmente si distinguono in due categorie secondo un criterio temporale:

  • accordi successivi, cioè stipulati dopo l’omologazione dell’accordo di separazione;
  • accordi coevi o precedenti al momento dell’omologazione.

La distinzione in realtà è piuttosto recente, risalendo ad alcune pronunce della Cassazione degli anni ’90, mentre prima si parlava in generale di “accordi non omologati”.

In ogni caso, sebbene le due fattispecie presentino numerose analogie, devono tuttavia essere analizzate separatamente, essendo diversi i limiti cui sono sottoposte.

Gli accordi coevi o precedenti all’omologazione

Nel tempo la Cassazione è arrivata ad ammettere questa tipologia di accordi riconoscendo ampio rilievo alla libertà negoziale dei coniugi, la quale è però limitata dal c.d. principio di interferenza, nel senso siffatte pattuizioni sono ammissibili in tanto in quanto non contrastino con il contenuto dell’accordo omologato[2].

L’unica eccezione concerne l’ipotesi in cui risulti che l’interesse è qui tutelato in maniera migliore rispetto a quanto disposto nell’accordo omologato (caso tipico è quello in cui l’assegno di mantenimento concordato sia superiore rispetto alla somma omologata)[3].

Il presupposto della “conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato”, cui la giurisprudenza di legittimità aveva subordinato l’ammissibilità di un accordo coevo o antecedente seppur diverso dall’accordo omologato, è stato in realtà anche oggetto di critiche, in quanto privo di ogni referente normativo.

Gli accordi successivi all’omologazione

Nella prima metà del ‘900 la Cassazione era divisa in punto di necessità dell’omologazione degli accordi di modifica delle condizioni della separazione e, inoltre, alcuni di coloro che ne sostenevano l’applicazione ritenevano altresì di doversi seguire la procedura ex art. 711 c.p.c.

A partire dalla seconda metà dello scorso secolo, invece, l’opinione prevalente fu nel senso della validità delle pattuizioni patrimoniali anche a prescindere dall’omologazione, anche se si segnalarono, a tratti, voci discordanti per cui “successivamente alla omologazione della separazione consensuale, gli accordi con cui i coniugi modifichino, anche se migliorandole, le condizioni relative al mantenimento del nucleo familiare, includente i figli minori, sono inefficaci se non vengono omologati dal tribunale”[4].

Dagli anni ’90 in poi la Suprema Corte si assestò su una posizione più aperta, affermando la piena autonomia privata dei coniugi con riferimento ai patti successivi alla separazione[5].

Inoltre, si disse, detti accordi devono ritenersi validi ed efficaci a prescindere dall’intervento del giudice sempreché non superino il limite posto dall’art. 160 c.c. ed, in particolare, “quando non interferiscano con l’accordo omologato ma ne specifichino il contenuto con disposizioni maggiormente rispondenti con gli interessi ivi tutelati”[6].

La giurisprudenza, pertanto, critica l’opinione di chi sostiene che l’omologazione sarebbe richiesta dal rinvio che l’art. 711 c.p.c. fa all’art. 710 c.p.c. e all’art. 158 c.c.

A ben vedere, si osserva, il procedimento di modifica ex art. 710 c.p.c. non è quello di controllo e omologazione delle pattuizioni dei coniugi, bensì un intervento del giudice nella controversia tra i coniugi che chiedano la modificazione dei provvedimenti conseguenti alla separazione.

A ciò si aggiunga che il legislatore nulla dispone sul punto. Ma più in generale, si dice, come i coniugi possono sempre porre fine allo stato di separazione senza alcun controllo, così possono accordarsi e modificare alcuni effetti della separazione stessa.

Quanto alla natura dell’accordo di modifica delle condizioni della separazione, l’opinione prevalente ne afferma la natura negoziale, in particolare di contratto per quanto concerne i profili patrimoniali, con la conseguenza che la sua validità segue i principi vigenti in materia contrattuale.

In caso di invalidità tornerà a rivivere l’intesa omologata, salvo che l’accordo concernesse la prole minorenne, caso in cui il giudice dovrà accertare nuovamente se le condizioni omologate siano ancora adeguate alla situazione.

Come è stato correttamente osservato, questa posizione di apertura – che si spinge sino ad ammettere gli accordi concernenti la prole minorenne – dimostra la notevole espansione ed importanza che ha ricevuto nel tempo l’autonomia privata anche nei settori del diritto di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità [7].

Ciò è avvenuto soprattutto a partire dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, grazie alla quale ha iniziato ad affermarsi una diversa concezione di famiglia, basata sui principi di parità e solidarietà tra i coniugi, ed a realizzarsi una privatizzazione dei rapporti familiari. Su questa scia la giurisprudenza ha iniziato ad estendere, a favore dei privati, la possibilità di utilizzare strumenti contrattualistici per regolare i rapporti patrimoniali, tanto nella fase fisiologica quanto in quella patologica del rapporto.

Osservazioni conclusive

Si segnala che parte della dottrina tende oggi a svalutare la distinzione degli accordi in base al dato temporale, osservando che essa potrebbe semmai rilevare, nel caso concreto, per risolvere i possibili contrasti degli accordi in discorso con le intese omologate.

Ciò non pare tuttavia condivisibile, essendo piuttosto opportuno porre l’attenzione sulla ratio sottesa alla distinzione in discorso.

Con riferimento agli accordi antecedenti o contemporanei, invero, non si può non considerare l’eventualità che questi siano stati tenuti nascosti proprio al fine di evitare ostacoli al controllo giudiziale.

Ed è per questo motivo che la giurisprudenza ha posto una serie di condizioni per la loro ammissibilità.

In particolare, essi non devono interferire con l’accordo omologato, quindi devono riguardare un profilo non ancora disciplinato ovvero un profilo già considerato ma che viene risolto in maniera conforme, ovvero devono assicurare una maggiore tutela all’interesse protetto o, ancora, possono integrare o specificare l’accordo omologato ma non mutare sostanzialmente il quadro di riferimento.

Quanto agli accordi successivi, che rinvengono il proprio fondamento nell’art. 1322 c.c., essi sono validi purché le modificazioni pattuite dalle parti sulle condizioni già sottoposte al controllo giudiziale non siano lesive delle disposizioni contenute nell’art. 160 c.c [8].

Ciò posto, pare preferibile continuare a ricorrere alla bipartizione classica fondata sul dato temporale.

Infine, è opportuno precisare che quanto sopra esposto trova applicazione anche con riferimento al divorzio.

Ciò in quanto, circa gli accordi precedenti o coevi alla pronuncia di divorzio è necessario ma sufficiente richiamare la libertà contrattuale delle parti e circa quelli successivi si osserva che la legge nulla dispone a riguardo.

In generale, comunque, alla luce del sempre più pregnante ruolo che l’ordinamento riconosce all’autonomia privata, si ritiene che la stessa ben possa giustificare gli accordi con cui le parti regolamentino la crisi del matrimonio.


[1] M. Fratini, Manuale di diritto civile, Roma, 2017, 98.

[2] Cass. civ., 24 febbraio 1993, n. 2270.

[3] Cass. civ., 28 luglio 1997, n. 7029.

[4] Cass. civ., 13 febbraio 1985, n. 1208.

[5] Cass. civ., 24 febbraio 1993, n. 2270.

[6] Cass. civ., 11 giugno 1998, n. 5829.

[7] G. Oberto, Gli accordi a latere nella separazione e nel divorzio, nota a Cass. civ., 20 ottobre 2005, n. 20290, www.giacomooberto.com.

[8] V. Pani, Osservazioni a margine di talune problematiche applicative in tema di accordi sulla crisi coniugale, Nota a Cass. civ., sez. II, 23 settembre 2013, n. 21736, in Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 2, 2014, p. 590.

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