Atti dell’amministrazione di sostegno: gli eredi del beneficiario defunto hanno diritto ad accedervi?

La Prima Sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 18563 dell’8 luglio 2025, affronta una questione di grande rilevanza pratica e giuridica: il diretto di accesso, da parte dei figli del beneficiario, agli atti dell’amministrazione di sostegno dopo la morte del beneficiario stesso. La vicenda offre spunti di riflessione interessanti in materia di privacy post mortem, diritti dei chiamati all’eredità, controllo ex post sull’attività dell’amministratore di sostegno e dimensione sociale e familiare dell’identità personale. Per un approfondimento su questi temi, ti consigliamo il “Manuale pratico per invalidità civile, inabilità, disabilità e persone non autosufficienti”, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon

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Rocchina Staiano
Avvocato, docente in Diritto della previdenza e delle assicurazioni sociali presso l’Università di Teramo e in diritto del lavoro presso l’Università La Sapienza (sede Latina). Componente della Commissione di Certificazione dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Consigliera di parità effettiva della Provincia di Benevento e valutatore del Fondoprofessioni. Autrice di numerose pubblicazioni e di contributi in riviste anche telematiche.

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La vicenda sottoposta al vaglio della Corte

Due figlie minorenni al tempo dell’apertura dell’amministrazione di sostegno chiedevano, dopo la morte del padre, l’accesso all’intero fascicolo del procedimento. L’istanza mirava a valutare l’accettazione dell’eredità, verificare l’operato dell’amministratore, chiarire le cause della morte e ricostruire le cure ricevute dal genitore negli ultimi anni. Il Giudice tutelare prima, e il Tribunale in sede di reclamo poi, negavano l’accesso integrale, ritenendo sufficiente la sola visione dei rendiconti.

Il Tribunale, in particolare, osservava che il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali 2016/679 (GD.P.R.) non si applica in caso di decesso, ma che l’art. 2 – terdecies del Codice della privacy nazionale (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e succ. mod.) prevede che i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento Europeo riferiti a dati personali relativi a soggetti defunti “possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione”.

Ebbene, nel caso di specie, i giudici di merito, sul presupposto che gli eredi non hanno diritti, ma solo aspettative sul patrimonio del de cuius, escludevano la sussistenza di un interesse giuridicamente tutelato a supporto della richiesta, valorizzando l’estinzione del procedimento di protezione e negando la sindacabilità dell’operato dell’amministratore da parte dei chiamati all’eredità.

Avverso tale decisione, le figlie dell’amministrato presentavano ricorso in Cassazione lamentando la violazione degli artt. 411 e 382 c.c. e della disciplina europea e nazionale che tutela il diritto alla privacy.

La legittimazione a ricorrere e la natura decisoria del provvedimento

Un primo profilo affrontato dalla Corte attiene all’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso un provvedimento assunto in sede di volontaria giurisdizione e redatto in forma camerale. La Corte afferma la ricorribilità del decreto, valorizzandone il contenuto decisorio e la sua idoneità a incidere stabilmente sulla posizione giuridica soggettiva delle ricorrenti, sebbene si tratti di un provvedimento adottato “in confronto di una sola parte” ai sensi dell’art. 739 c.p.c. La decisione si inscrive nel solco di un orientamento consolidato, che riconosce la natura decisoria e, dunque, l’impugnabilità per cassazione degli atti camerali che incidono su diritti soggettivi.

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Il diritto alla riservatezza post mortem tra tutela costituzionale e bilanciamento di interessi

La Corte di Cassazione, nell’analizzare il ricorso, si sofferma, in primo luogo, sul tema della sopravvivenza del diritto alla privacy dopo la morte del titolare. Muovendo dai principi costituzionali sanciti agli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 CEDU, la sentenza riafferma la natura personale e intrasmissibile del diritto alla riservatezza, sottolineandone la cessazione con la morte del soggetto cui si riferisce. Tuttavia, la Corte non si arresta a una ricostruzione meramente formale del diritto, bensì ne valorizza la dimensione sociale e familiare, già riconosciuta dalla Consulta con la sentenza n. 13 del 1994, quale espressione dell’identità sociale dell’individuo. Ne deriva il riconoscimento di una forma di tutela residuale e riflessa della privacy del defunto, nei limiti in cui altri soggetti, in primis i familiari, possano vantare un interesse giuridicamente protetto alla salvaguardia o alla conoscenza di dati sensibili riferibili al congiunto scomparso.

GDPR, diritto interno e persistente rilevanza dei dati personali del defunto

Sebbene il GDPR escluda espressamente dal proprio ambito di applicazione i dati delle persone decedute (considerando 27), l’ordinamento italiano ne ha disciplinato il trattamento, mediante l’art. 2-terdecies del Codice della privacy. La norma consente l’esercizio dei diritti in materia di dati personali da parte degli eredi o di chi agisca per motivi familiari meritevoli di tutela, salvo espresso divieto del defunto. In questo quadro si inserisce il riconoscimento, da parte della giurisprudenza, di un persistente interesse protetto ad accedere a tali dati, quando funzionale a preservare l’onore, la memoria o la ricostruzione dell’identità del defunto. Si tratta di un contemperamento tra la funzione sociale della protezione dei dati personali e le esigenze, anch’esse di rango costituzionale, collegate al diritto alla verità e alla difesa dell’identità familiare.

Identità familiare e diritti relazionali: un’autonoma posizione giuridica

Nel caso di specie, le figlie del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, all’epoca minorenni, non hanno agito unicamente in qualità di chiamate all’eredità, ma rivendicano un diritto proprio alla conoscenza dei fatti che hanno coinvolto il genitore. Il diritto all’identità familiare si configura come una posizione soggettiva autonoma, fondata sul legame parentale e sul patrimonio affettivo leso o compromesso dalle condotte gestionali eventualmente pregiudizievoli. La Corte riconosce che il diritto a ricevere assistenza morale e materiale da parte del genitore, diritto costituzionalmente tutelato, non può ritenersi esaurito dalla morte del genitore, né sacrificato sull’altare di un automatismo formale. L’accesso alle informazioni è quindi funzionale anche a una ricostruzione del vissuto relazionale e all’accertamento di eventuali pregiudizi derivanti da omissioni o errori gestionali.

L’interesse degli eredi e i poteri di controllo ex post sull’amministrazione

In parallelo alla posizione familiare, la Corte riconosce la piena legittimazione delle ricorrenti in quanto chiamate all’eredità. In tale qualità, esse possono esercitare poteri di controllo, conservazione e impugnazione in relazione agli atti compiuti dall’amministratore di sostegno. Richiamando la giurisprudenza consolidata (Cass. n. 9470/2000; Cass. n. 4029/2022; Cass. n. 35680/2023), la pronuncia ribadisce che la chiusura dell’amministrazione di sostegno non preclude il controllo ex post sull’operato dell’amministratore, né da parte dell’amministrato, se ancora in vita, né, a maggior ragione, da parte degli eredi o chiamati. L’amministratore può essere ritenuto responsabile per gli atti di gestione, ai sensi degli artt. 382, 387 e 411 c.c., e le relative azioni si trasmettono mortis causa.

La Corte stigmatizza l’impostazione del Tribunale, secondo cui gli eredi avrebbero solo aspettative e non diritti sul patrimonio del defunto, e sottolinea che, una volta cessata la misura protettiva, inizia la fase del sindacato sulle attività compiute, fase alla quale gli eredi sono pienamente legittimati a partecipare.

La decisione della Corte: l’errore dei giudici di merito

La Suprema Corte censura con nettezza la decisione del giudice di merito che aveva negato l’accesso, rilevando come non sia chiaro quale interesse si intendesse in tal modo proteggere. Né l’interesse del defunto, non più titolare del diritto alla riservatezza, né quello delle figlie, risultano salvaguardati. L’impostazione accolta in sede di merito si fonda su una visione erronea dell’intangibilità dell’attività gestoria una volta cessata la misura, che contrasta con il dettato normativo e con le esigenze di tutela dell’eredità e della dignità personale e familiare del beneficiario.

La Cassazione accoglie, quindi, il ricorso delle due figlie, decidendo nel merito ex art. 384, comma secondo, c.p.c. e dichiarando il loro diritto ad accedere a tutti gli atti del fascicolo dell’amministrazione di sostegno del padre, attinenti sia alla fase decisoria che a quella gestoria.

Conclusioni

La sentenza riconosce il diritto degli eredi ad accedere agli atti dell’amministrazione di sostegno del proprio parente defunto. Tale diritto si fonda sia su un interesse personale, legato all’identità familiare, sia su un interesse patrimoniale, connesso alla posizione di chiamati all’eredità. La pronuncia supera definitivamente l’idea che la privacy post mortem rappresenti un ostacolo assoluto all’accesso, affermando invece la prevalenza dei diritti conoscitivi degli eredi in presenza di ragioni meritevoli di tutela e in linea con i principi europei e costituzionali.

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