L’ammissibilità dell’istituto del trust nel nostro ordinamento interno è questione che ha interessato lungamente il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, anche di recente, in subiecta materia.
Il trust viene, infatti, identificato come istituto di matrice anglosassone a mezzo del quale un soggetto, denominato settlor, nel ruolo di disponente, trasferisce uno o più beni ad un fiduciario, il trustee, che si obbliga a gestirli nell’interesse di un terzo, detto beneficiary, ovvero per il conseguimento di uno scopo determinato e ulteriore[1].
Peraltro, in aggiunta ai soggetti indicati, è possibile che venga nominato anche un protector in qualità di garante con funzione di controllo a che la gestione del trustee avvenga nell’effettivo interesse del beneficiary.
Il principale nodo problematico muove dalla considerazione per cui il trust non nasce nel nostro ordinamento giuridico, né trova in esso una compiuta disciplina a livello nazionale.
Del resto, la Convenzione dell’Aja datata 1.07.1985, poi recepita nel nostro Stato con L. 364 del 1989, non fa che dettare solo i requisiti minimi del trust comunque rifacendosi all’istituto sì come previsto e disciplinato dall’ordinamento di stampo anglosassone[2].
Da un lato, quindi, la normativa in esame, persegue lo scopo di risolvere i conflitti tra ordinamenti diversi chiarendo quale sia la legge effettivamente applicabile, facendosi, dunque, riferimento a fattispecie che presentano un elemento di transnazionalità, un collegamento, quindi, con ordinamenti stranieri.
Ancor più, le maggiori perplessità sono sorte in considerazione degli effetti che il trust è destinato a produrre, con particolare riferimento alla segregazione patrimoniale.
In sintesi, i beni costituenti oggetto del trust e trasferiti dal settlor al trustee entrano a far parte del patrimonio di quest’ultimo soggetto, senza, tuttavia, confondersi con la restante parte che lo compone.
Di conseguenza, i beni oggetto del trust saranno sottratti all’aggressione dei creditori personali tanto del trustee, quanto del settlor, di talché essi potranno essere pretesi e aggrediti esclusivamente da parte di coloro che provino essere creditori del trust[3].
In altri termini, i beni facenti parte del trust vengono sottratti alla garanzia patrimoniale generica offerta dalla previsione di cui all’art. 2740 c.c., e costituita da tutti i beni presenti e futuri del debitore.
Trust pure internal: critiche e tesi negazionista
Sul punto, come sottolineato da autorevole dottrina, emerge come il trust dia luogo ad un patrimonio segregato o, se si preferisce, separato, che presenta valore anche nei confronti dei terzi e non solo tra le parti, a differenza di quanto accade, nel nostro ordinamento, con riguardo al negozio fiduciario[4].
Peraltro, anche in caso di fallimento, i beni costituenti oggetto del trust non entrano a far parte della massa attiva, con ogni logica e giuridica conseguenza per quanto concerne la posizione dei creditori.
Non va trascurata, altresì, la tutela attribuita al beneficiario da ritenersi “reipersecutoria”, potendo il predetto vantare un vero e proprio diritto di seguito.
Se da un lato, quindi, nel nostro ordinamento giuridico, specie negli ultimi anni, si è assistito ad una progressiva valorizzazione del ruolo attribuito all’autonomia privata, d’altro canto, non può non essere considerato il fatto che una deroga ad un principio rilevantissimo al fine del soddisfacimento dell’interesse creditorio, quale quello costituito dalla garanzia patrimoniale generica scolpita nell’art. 2740 c.c., abbisogni di un’apposita previsione normativa che opportunamente la giustifichi.
Il trust, inoltre, può essere, altresì, costituito per testamento e, anche in questo caso, i beni che ne formano oggetto danno luogo ad una massa patrimoniale distinta.
D’altronde, benché a seguito di notevole sforzo ermeneutico, il trust sia stato variamente accostato a svariati istituti di destinazione patrimoniale presenti nel nostro sistema, quali la fondazione, il contratto a favore di terzo, il mandato senza rappresentanza, lo stesso negozio fiduciario, la dottrina ha sempre avuto modo di cogliere quelle sostanziali differenze che lo caratterizzano come assolutamente peculiare.
Nemmeno il negozio fiduciario risulta, del resto, pienamente accostabile, giacché non attua una segregazione patrimoniale.
Il bene, una volta trasferito, entra a far parte del patrimonio del soggetto fiduciario al punto da poter essere aggredito dai suoi creditori personali.
Inoltre, il rapporto presenta una struttura, di regola, bilaterale, intercorrendo tra fiduciante e fiduciario, mentre il trust vede l’interazione di almeno tre soggetti, ma, ancor più, il fiduciante nel negozio fiduciario, una volta perso il diritto reale, non potrà vantare alcuna tutela reipersecutoria, nei confronti del bene, ma solo far valere l’obbligo di ritrasferimento o chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento, fatto salvo il diritto al risarcimento del danno, ovvero esercitare l’azione costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c. [5]
Non sono, dunque, poche le problematiche sollevate dall’ammissibilità della figura del trust nel nostro ordinamento, trattandosi di istituto che parrebbe porsi in contrasto [6] con i principi generali in punto di proprietà, di successioni e di tutela dei terzi.
Si è osservato, peraltro, che il trust si caratterizza come istituto peculiare e differente anche rispetto all’atto di destinazione, tenuto conto del fatto che quest’ultimo non produce quale effetto una segregazione patrimoniale in senso stretto, rispettando, di contro, tanto il principio di legalità, quanto la disciplina in materia di trascrizione ai fini dell’opponibilità [7].
Dunque, non stupisce che la questione relativa all’ammissibilità di un trust puramente interno, costituito da cittadini italiani residenti nel territorio dello Stato, avente ad oggetto beni ivi situati in favore di beneficiari del pari italiani, con applicazione della legge straniera scelta dai contraenti[8], abbia alimentato così intensamente il dibattito sia a livello pretorio che di letteratura.
Si tratta, in definitiva, di un trust i cui elementi essenziali sono nazionali, al di fuori della legge applicabile al rapporto.
Difficoltà si sono riscontrate obiettivamente nell’adattare un istituto che nasce in un determinato ordinamento ad un contesto inevitabilmente diverso, valutandone la conciliabilità con i princìpi fondanti e chiarendo la portata della legge di ratifica della citata Convenzione dell’Aja.
La Cassazione sull’ammissibilità del trust
Se, quindi, manca nel nostro ordinamento giuridico una compiuta e certo auspicabile disciplina dell’istituto del trust, è vero che comunque lo stesso potrebbe risultare ammissibile sulla base di una valutazione di meritevolezza degli interessi perseguiti.
Non è agevole comprendere se, tuttavia, essa debba costituire oggetto di valutazione da parte del giudice nel singolo caso concreto o se, diversamente, possa il trust stesso in quanto tale astrattamente ritenersi meritevole di tutela nel nostro ordinamento giuridico.
Sul punto, si segnala la recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione[9] che ha evidenziato con un approdo decisamente significativo, come l’istituto del trust presenti la funzione di creare un patrimonio separato finalizzato ad uno scopo, così come avviene per ciò che concerne la costituzione del fondo patrimoniale.
Con tale intervento, la Corte ha escluso che il trust sia configurabile alla stregua di un istituto atipico che abbisogna, volta per volta, della valutazione del giudicante circa la meritevolezza degli interessi, secondo quanto prescritto dall’art. 1322, II comma c.c., giacché, al contrario esso, è connotato da tipicità, essendo normativamente disciplinato ad opera della L. 364/1989 di recepimento della Convenzione dell’Aja del 1985, di talché non può ritenersi che non faccia parte integrante della normativa interna.
Peraltro, con altra recente pronuncia, la Corte di Cassazione aveva ritenuto astrattamente legittimo il c.d. trust autodichiarato, in cui i soggetti del settlor e del trustee vengono a coincidere nella medesima persona[10].
A più riprese è stato, infatti, ribadito anche in dottrina, che il trust non costituisce soggetto o ente giuridico autonomo, trattandosi, di contro, di un patrimonio separato del trustee basato sulla fiducia, e finalizzato alla realizzazione di uno specifico programma in favore del beneficiario o per il raggiungimento di uno scopo determinato[11].
In quell’occasione la Suprema Corte aveva accostato il trust autodichiarato alla donazione indiretta, poiché, in carenza di trasferimento, ai beneficiari sarebbero attribuiti i beni non subitaneamente, ma in conformità del programma stabilito, realizzandosi immediatamente la separazione dei beni che costituiscono oggetto dell’istituto dal patrimonio del settlor.
Tali pronunce dimostrano una significativa apertura giurisprudenziale verso la figura del trust anche interno, registrandosi un’evolutiva linea di tendenza in tal senso.
Le principali argomentazioni fatte proprie dall’orientamento negazionista concernevano, invece, come anticipato, il contrasto con l’art. 2740 c.c., con il principio di tipicità dei diritti reali vigente nel nostro ordinamento, configurandosi tale istituto come una proprietà strumentale e temporanea che darebbe luogo, per l’effetto, ad un diritto reale nuovo e atipico, neppure riconducibile al modello di diritto dominicale che, in quanto tale, risulta perpetuo, trattandosi peraltro di un negozio astratto, quello di trasferimento dei beni da parte del settlor, benché nel nostro sistema non siano ammissibili contratti di trasferimento di diritti reali senza causa[12].
Peraltro, l’art. 13 della citata Convenzione dell’Aja prevede che nessuno Stato sia tenuto a riconoscere un trust i cui elementi essenziali, in disparte la legge applicabile, siano strettamente connessi con uno Stato che non prevede al suo interno l’Istituto del trust.
A tali considerazioni la dottrina e la giurisprudenza più recenti, nel segno di una maggiore apertura, hanno obiettato sostenendo che la deroga all’art. 2740 c.c. pur sussistente rinviene la propria giustificazione nella L. 364/1989 che ha prodotto l’effetto di riconoscere il trust nel nostro ordinamento.
Diversamente argomentando, si rischierebbe di effettuare un ragionamento che finirebbe per porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza.
Di conseguenza, il trust potrebbe anche configurarsi come diritto reale atipico, ma è vero che comunque, esso risulta, pur sempre, previsto dalla legge.
Inoltre, non emerge alcuna norma, nel nostro sistema, che espressamente neghi riconoscimento all’istituto del trust, possibilità, invece, consentita ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della citata Convenzione, per cui, in definitiva, non avendo ad oggi il legislatore introdotto una norma che escluda espressamente il trust interno, lo stesso non può che ritenersi ammissibile[13].
Questioni particolari e conclusioni
Questioni di non trascurabile importanza ha posto il trust anche con riferimento alla trascrizione ai fini dell’opponibilità ai terzi, trascrivibilità che, secondo parte della giurisprudenza di merito, già sarebbe possibile in base al dettato dell’art. 2643 c.c. interpretato in forma elastica, in considerazione del fatto che l’effetto prodotto risulterebbe identico a quello degli atti ricompresi nell’ambito di applicazione della norma, di trasferimento della proprietà con condizioni e vincoli, secondo altra parte della giurisprudenza di merito sulla base dell’art. 2645 c.c. che si riferisce agli altri atti soggetti a trascrizione, secondo altra opinione, occorrerebbe valorizzare la portata del recente articolo 2645 bis c.c. che permette la trascrizione degli atti di destinazione di beni immobili e mobili registrati[14].
L’aspetto relativo alla segregazione patrimoniale ha, dunque, dettato non poche perplessità, tenuto presente che di recente, la Suprema Corte ha sottolineato che l’atto di dotazione del trust non può considerarsi immediatamente produttivo di effetti traslativi in senso stretto, essendo così definibili solamente quelli finali che costituiscono il presupposto per l’applicabilità dell’imposta di registro, non essendo prima presente l’elemento fondamentale per attribuire precedentemente con definitività i beni al beneficiario.
Sotto il profilo fiscale, di conseguenza, non si applicherà all’atto di dotazione trust la tassazione prevista dalla legge per gli atti che producono un effetto patrimoniale.
Nonostante le aperture della più recente giurisprudenza e l’attenzione in ordine ai vari aspetti applicativi e alle questioni problematiche che li precedono, non può non sottolinearsi come il trust sia un istituto oggi probabilmente ammissibile, quantomeno in astratto, anche se pure internal, ma il dibattito in materia, onde sondare i vari aspetti operativi sembra essere tutt’altro che destinato ad esaurirsi.
[1] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, IX edizione, 2017-2018, Nel diritto editore, Molfetta, 2017, pp. 704 ss.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVII edizione aggiornata, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, p. 991.
[5] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., p. 707.
[6] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 990.
[7] Ibidem, p. 992.
[8] Ibidem, p. 991.
[9] Cfr. Corte di Cassazione, ord. n. 9637 del 19.04.2018.
[10] Cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 21614 del 26.10.2016.
[11] Cfr. F. Gazzoni, op. cit., p. 991.
[12] Cfr. G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, op. cit., pp. 707- 708.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem, p. 709.