L’articolo odierno sarà dedicato all’analisi della sentenza n. 12962 depositata il 22 giugno 2016 della Corte di Cassazione, resa in tema di adozione del figlio del partner, c.d. adozione “coparentale” o “stepchild adoption” nei confronti di coppie eterosessuali e omosessuali. La presente trattazione vuole essere un approfondimento tecnico delle tematiche giuridiche sottese alla vicenda, avulso da riflessioni politicamente orientate di natura etica o morale. Inoltre, si precisa che ogni informazione relativa ai fatti e alla controversia articolatasi nelle varie fasi processuali cui si farà riferimento è stata ricavata esclusivamente dalla sentenza in commento.
Il caso in esame
Nel caso sottoposto all’esame della suprema Corte due donne legate da una relazione sentimentale e di convivenza dal 2003 hanno deciso di comune accordo di ricorrere alle procedure di procreazione medicalmente assistita per realizzare il proprio progetto genitoriale, compiutosi nel 2009 con la nascita di una bambina. Successivamente la compagna della madre biologica della bambina ha presentato innanzi al Tribunale di Roma domanda di adozione della minore ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d) della L. 4 maggio 1983, n. 184.
Le disposizioni normative applicabili in materia di adozione
Tale disposizione si inserisce nel Capo I del Titolo IV della citata legge dedicato all’“adozione in casi particolari” e prevede che “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7 […] d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. Per meglio comprendere la portata precettiva della norma deve premettersi che le adozioni ordinarie, c.d. “legittimanti”, sono subordinate al riconoscimento dello stato di adottabilità del minore, conseguente alla dichiarazione da parte del tribunale della situazione di permanente abbandono (morale e/o materiale) del minore e ad un tempo di affidamento preadottivo alla coppia maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore prescelta dal tribunale.
L’art. 44, comma 1, lett. d) consente, pertanto, l’adozione di un minore anche nel particolare caso in cui quest’ultimo non verta in “stato di adottabilità” e sia ravvisabile una “impossibilità di affidamento preadottivo”.
Tale requisito, secondo la giurisprudenza più recente, deve essere interpretato in senso “estensivo”, talché può esserci “impossibilità di affidamento” a prescindere dalla preesistenza di una situazione di abbandono; ciò in quanto la ratio delle “adozioni in casi particolari” è quella di salvaguardare i legami affettivi e relazionali preesistenti e consentire l’adozione del minore, anche se non ricorrono i requisiti legali per l’adozione ordinaria.
I precedenti gradi di giudizio e le doglianze del PM
Aderendo a tale orientamento e ritenendo che per le “adozioni in casi particolari” non sono ravvisabili limitazioni normative riconducibili all’orientamento sessuale della richiedente l’adozione, sia il Tribunale di primo grado che dalla Corte d’Appello hanno accolto la domanda di adozione della parte.
Nel ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado il Pubblico Ministero ha dedotto l’illegittimità della pronuncia impugnata per non aver il Giudice nominato un curatore speciale della minore, che rappresentasse in giudizio gli interessi della minore in sostituzione di sua madre, la legale rappresentante: secondo il PM sussisterebbe, infatti, una situazione di conflitto di interessi in re ipsa della madre, dal momento che essa “agisce nel proprio interesse” ossia quello di veder riconosciuta la propria relazione sentimentale con la compagna e, per l’effetto, il progetto genitoriale maturato e realizzato con essa; interesse che, tuttavia, non è necessariamente coincidente con l’interesse della minore. Per tale ragione, sarebbe stato necessario “scindere le due posizioni, quella di portatrice di un interesse morale all’adozione e quella di legale rappresentante dell’adottanda, con la nomina di un curatore speciale della minore”.
Con il secondo motivo il PM – prospettando l’opportunità di un’eventuale rimessione della questione alle Sezioni Unite perché involgente una “questione di massima di particolare importanza” ex art. 374, comma 2, secondo periodo c.p.c.– ha poi dedotto l’illegittimità dell’interpretazione avallata dai Giudici di merito della locuzione “impossibilità di affidamento preadottivo” di cui all’art. 44, comma 1, lett. d) cit., ritenendo che essa presupponga sempre e comunque la presenza di una situazione di abbandono e la ricerca di una coppia idonea all’affidamento preadottivo, al cui esito infruttuoso si apre la possibilità dell’adozione speciale.
L’interpretazione estensiva dell’art. 44 comma 1 lett. d) L. 184/83 della Cassazione
In relazione a tali motivi di doglianza, la Corte di Cassazione ha statuito quanto segue.
Anzitutto, è stata rigettata la richiesta di rimessione alle Sezioni Unite in quanto secondo la Corte di Cassazione ha ritenuto la questione non annoverabile tra quelle “di massima di particolare importanza”; la motivazione che sorregge tale decisione risulta, tuttavia, non del tutto appagante, dal momento che la Suprema Corte non ha esplicitato le ragioni per cui la questione non sia “di particolare importanza”, ma si è limitata a sostenere che “non tutte le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di più recente emersione ed attualità sono per ciò solo qualificabili come ‘di massima di particolare importanza’ nell’eccezione di cui all’art. 374, secondo comma, c.p.c.”.
Quanto al primo motivo di ricorso del PM, la Corte di Cassazione ha concluso per la sua infondatezza ritenendo non sussistente un conflitto “potenziale” tra l’interesse della madre ad ottenere riconoscimento giuridico dell’unione con la propria partner e quello, autonomo, della minore adottanda. Ciò in quanto il conflitto di interessi deve essere accertato in concreto con riferimento alle situazioni dedotte in giudizio e l’apprezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto d’interessi e della necessità di nomina del curatore speciale è rimesso alla valutazione del giudice del merito non sindacabile in sede di legittimità.
Sul secondo motivo, avente ad oggetto la delimitazione dell’ambito di applicazione dell’ipotesi di adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), cit., è stato osservato come l’interpretazione prospettata dal PM non fosse meritevole di accoglimento, in ragione del tenore testuale della norma.
Ed infatti, il primo periodo dell’art. 44, comma 1 cit. dispone che “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7” e il richiamato art. 7, stabilisce come condizione necessaria per l’adozione legittimante la dichiarazione di adottabilità, la quale presuppone a sua volta l’accertamento della situazione di abbandono. cosi come prescritto nel successivo art. 8, comma 1. Da ciò si può dunque trarre la conclusione che “l’adozione in casi particolari può essere dichiarata a prescindere dalla sussistenza di una situazione di abbandono del minore adottando”.
In tale ordine di idee, secondo la Suprema Corte, l’adozione in casi particolari si differenza da quella “legittimante”, proprio in quanto essa non è fondata sulla condizione di abbandono del minore, ma sui diversi requisiti descritti alle lett. a), b), c) e d) dell’art. 44 cit. In proposito, mentre nelle ipotesi di cui alle prime tre lettere vengono esattamente definite le situazioni del minore e dell’adottante per potersi procedere con l’adozione, la lett. d) presenta un grado di determinazione inferiore, non essendo indicato nessun requisito per definire i profili dell’adottante e dell’adottando.
Di più, sulla base dei principi affermati dal Giudice delle Leggi (Corte Cost., sent. 383/1999) la Corte di Cassazione ha osservato che ciò che rileva ai fini dell’art. 44 cit. è “l’aspetto della continuità affettiva ed educativa della relazione tra l’adottante e adottando, come elemento caratterizzante la realizzazione dell’interesse del minore”; aspetto che, peraltro, ha ispirato anche le riforme legislative di più recente attuazione.
Il principio di diritto in materia di “stepchild adoption”
Su tali basi, è stato pertanto affermato il seguente principio di diritto:
“l’interpretazione della «impossibilità di affidamento preadottivo» all’interno di conflitti quale quello sopra delineato non osta, in conclusione, alla più ampia opzione ermeneutica che ricomprenda nella formula anche l’impossibilità “di diritto”, e con essa tutte le ipotesi in cui, pur in difetto dello stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendano cura”.
Infine, nell’applicare tali principi al caso concreto sottoposto al suo esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che ad essi non potesse derogarsi in costanza di un rapporto non giuridicamente riconosciuto come quello di interesse concernente una coppia formata da persone dello stesso sesso, incorrendosi altrimenti in una violazione del principio di non discriminazione stabilito dall’art. 14 della Convenzione. Da ciò ha quindi concluso che, “poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma 1, lettera d), possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto, l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, […] non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner”.