Accordi prematrimoniali in Italia: la giurisprudenza recente

Ad oggi, in Italia gli accordi prematrimoniali non rappresentano una tangibile figura negoziale, da tempo invece presente soprattutto nei paesi di tradizione anglosassone, dove si tende a riconoscere validità giuridica ai c.d. “prenuptial agreements”. Tali accordi, per definizione, sono dei patti attraverso i quali due soggetti, prossimi al matrimonio, concordano i loro rapporti patrimoniali nel caso in cui debbano affrontare una “crisi di coppia” di tipo irreversibile (separazione o divorzio). Essi infatti, si prefiggono di effettuare in modo lucido e preventivo, una ripartizione o riconoscimento di somme di denaro, beni mobili o immobili. Sono dunque, paradossalmente, uno strumento per gestire la fine di un rapporto coniugale, con il pregio di evitare o per lo meno ridurre, controversie in sede di giudizio, inerenti alla fine di un’unione.

Vi è da chiedersi il motivo per cui ancora in Italia essi in primis non abbiano un riconoscimento giuridico, e, in secundis, non siano annoverabili neanche tra le forme contrattuali “atipiche”.

Giurisprudenza e proposte parlamentari

L’excursus in tal senso percorribile, merita di porgere l’attenzione non solo alla giurisprudenza di legittimità, ma anche a ciò che qualche anno fa accadde nelle camere parlamentari. In tali sedi, difatti, si è discusso nel 2017 di una proposta di legge, la n. 2669 del 15.10.2014, formulata dai deputati Morani e D’Alessandro, volta ad accantonare, forse in maniera definitiva, il matrimonio quale concetto “indissolubile”. Tale tentativo risultò vano.

In realtà, l’inviolabilità del matrimonio nel corso del tempo è stata via via ridimensionata dalla legge sul divorzio (L. n. 898 del 1970) e dall’evoluzione giurisprudenziale relativa alle condizioni di corresponsione dell’assegno divorzile, alla sua natura giuridica e al suo quantum, conseguente alla prima. Il superamento dell’idea di matrimonio come “legame per la vita” si evince anche dalla giurisprudenza della Cassazione, per la quale si è passati dal carattere assistenziale dell’assegno divorzile, avente come presupposto l’inadeguatezza dei mezzi necessari oltre che la conservazione di un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio ( Cass. civ. n. 11490/1990; Cass. civ. n. 11870/2015), ad un’inversione di rotta (Cass. civ. n. 11504/2017), con cui si è stabilito, come criterio  per ottenere il beneficio dello stesso, la valutazione dell’indipendenza o dell’autosufficienza economica. In tal modo  la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come situazione definitiva è stata superata.

Tuttavia, con la recente sentenza a Sezione Unite (Cass. Sez. Un. N. 18287/2018) la Cassazione ha aggiunto alla natura assistenziale dell’assegno divorzile anche quella compensativa, che considera ai fini dell’an e del quantum il contributo fornito dal richiedente alla formazione del patrimonio patrimoniale e “personale” della vita matrimoniale, in ottemperanza del resto all’art. 5 della L. n. 898/1970.

Il processo evolutivo in questione si è dunque scardinato dalle concezioni radicate nel passato, e di certo legate alla fede cristiana, per arrivare a qualificare il matrimonio come atto di liberalità, sia nella sua costituzione che cessazione. Tali considerazioni e orientamenti operano altresì nei confronti delle unioni civili, come regolamentate da L. n. 76/2016.

La proposta di legge sopracitata, formulata dai deputati Morani e D’Alessandro nel 2014, non sottoposta ai voti per la fine della legislatura, proponeva diverse innovazioni in materia, quali il riconoscimento o rinuncia di un assegno di mantenimento, la corresponsione di un assegno periodico o somma in unica soluzione, diritti reali su beni immobili, clausole sulle successioni a favore dei figli, fatti salvi i diritti degli altri legittimari e in deroga al divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. Inoltre prevedeva l’introduzione dell’art. 162 bis c.c. volto a riconoscere espressamente gli accordi prematrimoniali di cui poter tener conto in sede di separazione e divorzio.

Nulla di improponibile, d’altronde: così come i coniugi possono convenire se avere un regime patrimoniale di comunione o separazione dei beni (ex. art. 162 e 215 c.c.) in costanza di matrimonio, non sarebbe legittimo ed anche coerente rendere effettiva la loro autonomia privata in maniera pacifica, anche nel caso in cui decidano di separarsi?

Accordi prematrimoniali e Cassazione: gli orientamenti recenti

Ricostruendo però l’orientamento giurisprudenziale affermatosi negli ultimi decenni in relazione alla validità o efficacia degli accordi prematrimoniali, o in genere delle scritture private pattuite, si può senz’altro ribadire come gli Ermellini abbiano tracciato un percorso, che, seppur non perfettamente pedissequo, presenta una linea pressoché uniforme. La Suprema Corte (Cass. civ. I sez. n. 3777 del 1981) ha sancito la nullità di tali patti per illiceità della causa, dovuta alla violazione del principio di indisponibilità dello status di coniuge, o in genere dei diritti in materia matrimoniale. Alla base dello stesso, tutti gli accordi stipulati in sede di separazione, non possono precludere diritti o rinunce (si pensi all’assegno di divorzio) rispetto a quello che sarà il successivo ed eventuale giudizio di divorzio. L’assegno di mantenimento è infatti da interpretare “secundum ius”, non potendo implicare alcuna rinuncia o diritto futuro. Si pone inoltre sul solco di detto orientamento anche una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ. sez. I n. 2224/2017), secondo la quale ex art. 160 c.c., i coniugi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti ex lege. Gli accordi, pertanto, sono definiti nulli, non solo in virtù del principio succitato, ma anche ai fini di tutelare, paradossalmente l’autonomia privata. La ratio difatti è quella di preservare gli interessi del coniuge economicamente più debole, quando ad esempio si sia convenuta la rinuncia all’assegno divorzile; ma anche nel caso in cui quest’ultimo soddisfi pienamente le esigenze economico-patrimoniali dei coniugi, potrebbe addirittura determinare il consenso alla dichiarazione  di cessazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. civ. n. 8109/2009). Gli Ermellini hanno inteso così perseguire l’obiettivo di tutelare l’istituto della famiglia, e in via estensiva l’ordine pubblico, sancendo la nullità di patti che abbiano ad oggetto la trattazione di diritti di per sé indisponibili. In senso conforme si pongono altrettante pronunce (Cass. civ. sez. I n. 8109/2000; Cass. civ. sez. I n. 5302/2006; Cass. civ. I sez. n. 17634/2007).

Invece, con Cass. civ. sez. I n. 23713/2012, si è data validità e dunque efficacia in sede di giudizio di divorzio, ad un contratto pattuito da due coniugi prima del matrimonio, con cui la futura moglie si impegnava a trasferire all’altro coniuge un immobile, a titolo di indennizzo, per le somme impiegate dallo stesso al fine di ristrutturare altro immobile di proprietà della donna, adibito poi a casa coniugale. In tale sede, gli Ermellini  riconoscono come la dottrina maggioritaria sia avversa all’orientamento della giurisprudenza, il quale, declarando la nullità dei patti per illiceità della causa, trascurerebbe l’evoluzione del sistema normativo, anche in relazione al panorama giuridico europeo ed extra-europeo, volto a riconoscere e a dare maggiore spazio all’autonomia privata.

E’ interessante notare come, a proposito del caso in esame, la Cassazione abbia accolto la qualificazione giuridica del contratto apportata dalla giurisprudenza di merito, vale a dire una datio in solutum (ex art. 1197 c.c.), in cui il “fallimento del matrimonio” non è la causa dell’accordo, ma il solo “evento condizionale” che legittimerebbe il trasferimento del diritto di proprietà dell’immobile dalla moglie al marito. La scrittura privata in oggetto sarebbe configurabile come un “contratto atipico” riconosciuto dall’art. 1322 c.c. II comma, connesso altresì all’art. 143 c.c. che prevede il dovere reciproco di contribuzione dei coniugi, anche se caratterizzato da prestazioni di natura diversa.

Si può constatare come la validità attribuita a tale accordo tra le parti, pur essendo estraneo propriamente alla categoria degli accordi patrimoniali, abbia inteso preservare gli interessi di due soggetti, pattuiti prima del matrimonio, e a cui è stata riconosciuta efficacia anche con la cessazione degli effetti civili.

È sicuramente auspicabile una regolamentazione in tal senso che approdi in legge anche in Italia, come il tentativo del 2014 di Morani e D’Alessandro, col proposito di garantire un quadro normativo resiliente e avanguardista rispetto alla società moderna, e a coronamento dell’autonomia privata.

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