L’elaborato si pone l’obiettivo d’analizzare la disciplina dell’accertamento bancario, dalla normativa costitutiva fino ai recenti correttivi che ne hanno segnato la caducazione; strumento, quello in oggetto, che rappresenta uno degli istituti di deterrenza dei quali si serve l’Amministrazione finanziaria per osteggiare le condotte dei contribuenti fiscalmente pericolosi.
Dalle prime deroghe al segreto bancario, molto spesso accusato d’essere il mezzo attraverso cui trovavano esecuzione i progetti d’alta ingegneria evasiva dei contribuenti, si procede lungo l’analisi degli interventi normativi susseguitisi nel tempo, poi culminati nella disciplina vigente in materia di accertamenti bancari contenuta nel D.P.R. n.600/1973 (relativo alle imposte sui redditi) e nel D.P.R. 633/1972 (riferito all’Imposta sul valore aggiunto).
Il presente contributo, inoltre, concentra la sua attenzione su una parte della procedura accertativa esaminandone, precipuamente, il contraddittorio preventivo per giungere, in un secondo momento, alla trattazione del caso “Lista Falciani”, che svetta quale “Manifesto” di illegittimità della modalità acquisitiva dei dati poi, di fatto, utilizzati.
Da ultimo, data l’asimmetria riscontrata tra l’incedere incalzante della dimensione economica delle criptovalute e gli affanni del nostro legislatore, ci si interroga su quali siano, nel merito, le risultanze applicative dell’attività d’indagine compiuta dall’Amministrazione finanziaria, data la specificità dell’oggetto su cui ricade. Il tutto, in proiezione di una (quanto prossima) armonizzazione della materia ancora disomogenea e, per certi aspetti, pericolosamente evanescente.
Evoluzione storica del segreto bancario
La disamina dello strumento dell’accertamento bancario impone d’anteporre la questione relativa al rapporto tra due principi apparentemente in antitesi, la riservatezza e la trasparenza.
Da una parte il segreto, quale istituto ancillare delle più tradizionali burocrazie, custodi di un interesse pubblico di consistenza se non evanescente, certamente criptica; dall’altra parte, la trasparenza e la partecipazione, come nuovi modelli operativi che informano l’itera attività dell’Amministrazione e che la riscrittura del procedimento amministrativo ha elevato a principi generali, attraverso i quali rendere visibile ed effettiva la realizzazione dell’interesse pubblico.
La soluzione di un nodo che pare “gordiano”, a ben guardare, risulta accessibile solo valicando i confini del semplice dato dispositivo, provando a strutturare un ragionamento che ricollochi in pozione corretta principi e corollari, in conformità con l’aspirazione ordinata del nostro sistema normativo.
Invero, per ragionare in maniera compiuta in termini di accertamento bancario, è necessario porsi oltre i confini della disciplina tributaria per approdare nell’ambito della disciplina amministrativa che, oggi più di ieri, è in grado di fornire una risoluzione chiara della questione.
Nello specifico, se è vero che la nostra Carta fondamentale non menziona in maniera espressa la tutela della riservatezza, sarà altrettanto vero dover ammettere che si deve allo sforzo interpretativo della giurisprudenza aver dato ingresso al diritto in esame già dal “leading case: Soraya” del 1975[1], per poi giungere ad affermare l’esistenza di un “vero e proprio diritto alla riservatezza anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria”[2]. A ciò, si addiziona il contributo operato dal GDPR/2016[3] che, assieme al richiamo espresso contenuto negli artt. 16 TFUE[4] e 8 CDFUE[5] ed al richiamo desunto dall’interpretazione sistematica degli artt. 2, 13 e 15 Cost., ha reso compartecipata e pubblica la protezione del più intimo dei diritti.
Quanto detto, allora, consente di poter affermare l’esistenza di un diritto assoluto alla riservatezza?
La risposta non può che essere negativa e si argomenta sulla scorta di una visione necessariamente “collettiva” dei diritti, anche i più individuali.
Invero, l’entrata in vigore della Legge n. 241/1990 ha elevato la trasparenza a “punto di confluenza” dei principi generali[6] di derivazione europea, idonea a favorire forme diffuse di vigilanza del rispetto dei paradigmi a cui l’agire amministrativo è obbligato a conformarsi. Nel dettaglio, il principio in esame, attraverso il restyling costituito dalla riscrittura del procedimento amministrativo, che si serve di istituti di coinvolgimento concreto dei consociati, ha perso i suoi connotati astratti per diventare il tramite che conduce alla realizzazione di un’amministrazione “partecipativa”, capace di oggettivizzare le istanze più auliche della democrazia “partecipata”[7].
Se così è, allora, ne discende che la trasparenza è la regola e la riservatezza, se non costituisce l’eccezione, certamente retrocede a limite modale di applicazione della prima.
Ancora, è possibile sostenere che se “non esiste un interesse pubblico generale alla riservatezza dell’attività delle pubbliche amministrazioni, se non nei casi specificatamente previsti”[8], men che meno è possibile rinvenire nel nostro ordinamento una tutela assoluta del segreto (qualunque siano le declinazioni dello stesso).
Ne deriva che nel bilanciamento tra l’accesso agli atti (quale esplicazione dell’attività di accertamento costituita dall’Amministrazione finanziaria) ed il segreto (ai fini del presente contributo di tipo “bancario”), la tenuità del principio di riservatezza trova giustificazione nella protezione di diritti (e attuazione di doveri) costituzionalmente garantiti, secondo quanto dispone il richiamo all’articolo 53 della Costituzione[9].
Ma v’è di più.
Quanti intravedono nell’accrescimento dei mezzi di cui si serve l’Amministrazione, per potenziare il contrasto a fenomeni elusivi/evasivi, una possibile frizione con le delicate questioni che governano la protezione dei dati, tralasciano di soffermarsi (con dovizia) sul dato letterale della disposizione costituzionale richiamata. Nel dettaglio, infatti, l’art. 53 non si riferisce a meri “soggetti”, bensì a “contribuenti” con ciò evidenziando quella qualifica aggiuntiva che contraddistingue l’appartenenza ad un consesso civile che, per mantenersi tale, necessita del contributo di tutti e non del sacrificio di pochi. In questa dimensione, dunque, il segreto (quale precipitato del diritto alla riservatezza) non rappresenta un divieto per l’attività di accertamento dell’Amministrazione, ma un limite che perimetra l’oggetto di indagine, circoscrivendolo ai dati economico-fiscali e sanzionando sconfinamenti nella sfera privata dei contribuenti.
Sulla scorta di quanto premesso, si procede ad esaminare l’evoluzione che ha caratterizzato il segreto bancario.
Il primo riferimento normativo che prova a definire il segreto bancario risale alla Legge n.1/1956 la quale, attraverso l’art. 13[10], interveniva per scongiurare che possibili evasioni potessero derivare da false dichiarazioni di passività, delimitando l’ingerenza dell’Ufficio nei rapporti tra l’istituto di credito ed il contribuente; solo quest’ultimo, infatti, interagiva con l’ente creditore facendosi consegnare un certificato attestante non solo la copia dei conti trattenuti ma anche l’ammontare degli elementi passivi da consegnare successivamente all’Ufficio.
Negli anni Settanta si ritorna sulla materia grazie alla Legge del 9 ottobre, n. 825 (cosiddetta Legge Preti)[11] che conferì al Governo la delega legislativa per operare un riassetto della disciplina tributaria. Nello specifico, l’art. 10 della Legge delega n. 825/1971[12] poi trasposto nell’art. 35 del D.P.R. n. 600/1973[13] (rubricato “Deroghe al segreto bancario”) nella sua formulazione originaria elencava una serie di deroghe tassative al segreto bancario al fine di bilanciare, per un verso l’interesse alla tutela del risparmio[14] e, per altro verso, l’interesse alla riscossione del tributo. L’intenzione del legislatore, dunque, era quella di evitare che il segreto bancario potesse piegarsi all’asservimento di logiche evasive del sistema impositivo e di riscossione, senza per questo giungere però alla totale invadenza della sfera privata del contribuente[15].
Il quadro di riferimento, tuttavia, presentava una considerevole dissonanza, posto che in materia di Imposta sul valore aggiunto mancava un richiamo espresso pari a quello contenuto nell’art. 35 del sopra citato decreto[16].
A correzione della disarmonia normativa intervenne il D.P.R. 463/1982[17] il quale, oltre a prevedere delle modifiche alle ipotesi di deroga al segreto bancario nell’ambito delle imposte dirette, introduceva delle deroghe al segreto riferite espressamente all’ Imposta sul valore aggiunto.
Si devono aspettare gli anni Novanta, e nello specifico la Legge n. 413/1991[18], invece, per assistere ad una rivoluzione copernicana nel segno del depotenziamento del segreto bancario e l’affermazione del principio di collaborazione tra Amministrazione e contribuente[19]. In sostanza, l’accesso alle informazioni bancarie diventa un connotato ordinario dell’Amministrazione e, conseguentemente, il segreto bancario comincia ad essere superato aldilà della sussistenza, o meno, di previsioni normative che ne tipizzano le condizioni di ammissibilità.
Successivamente il contenuto degli articoli 35 del D.P.R. n. 600/1973 e 51-bis del D.P.R. 633/1972, entrambi soppressi dall’entrata in vigore della Legge n. 413/1991, fu trasfuso rispettivamente negli artt. 32, 33 del D.P.R. 600/1973, per le imposte indirette, e negli artt. 51,52 del D.P.R. 633/1972, in materia di Iva.
In tempi relativamente recenti, per effetto della Legge 31 dicembre 2004, n. 311[20], il legislatore è tornato a modificare la disciplina rinnovandone la ratio sottesa. Nel dettaglio, partendo dal presupposto che l’accertamento dei redditi del contribuente non possa prescindere dalla verifica dei flussi finanziari che lo riguarda, si riconosce all’Ufficio, previa autorizzazione del Comandante regionale della Guardia di finanza o del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, l’accesso a tutti i rapporti finanziari e bancari, ivi comprese le operazioni fuori conto e le operazioni intercorrenti fra intermediari finanziari e contribuente[21].
In questa dimensione di rinvigorimento dei poteri istruttori dell’Amministrazione ha giocato un ruolo primario il rinnovamento delle funzioni rimesse all’Anagrafe tributaria[22] che all’art. 7 D.P.R. 605/1973, come modificato dal Decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, poi convertito nella Legge 4 agosto 2006, n. 248, impone alle banche e agli intermediari finanziari così come alle società di gestione del risparmio e alle imprese di investimento, di tenere in evidenza i dati che identificano ogni soggetto che intrattiene rapporti con gli organismi predetti, in osservanza della privacy del contribuente medesimo.
Nello scorrere della ricostruzione storico-normativa, è opportuno richiamare anche il Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138[23] che, all’art. 2, comma 36-undevicies, affermava (in deroga all’art. 7 D.P.R. 605/1973) come l’Agenzia delle Entrate potesse elaborare delle liste che selezionavano dei contribuenti da sottoporre a successivo controllo sulla scorta delle informazioni reperite dall’Anagrafe tributaria.
Nato con lo scopo di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell’ambito di una crisi internazionale, in questo contesto, è doveroso menzionare anche il Decreto legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (noto come Decreto “Salva Italia”), convertito con modificazioni nella Legge 22 dicembre 2011, n. 214, come rappresentazione concreta della necessità e urgenza di emanare disposizioni per il consolidamento dei conti pubblici. Dalla lettura della manovra si evince chiaramente il potere rimesso all’Ufficio di procedere ad accertamenti, anche in assenza di autorizzazioni ad hoc, aventi ad oggetto tutte le informazioni inerenti ai rapporti ex art. 7 D.P.R. 605/1973; a cui si addiziona l’obbligo, sempre in capo all’Agenzia delle Entrate, di inviare una relazione alle Camere sullo stato dell’arte della lotta ai fenomeni elusivi/evasivi e sull’efficacia/efficienza degli strumenti adottati.
Alla luce della sintetica panoramica normativa presentata, oggi, è possibile sostenere che il segreto bancario (nella sua accezione più rigida ed austera) sia un retaggio del passato, in ragione del fatto che l’Amministrazione è in grado di conoscere in tempo reale ogni movimentazione dei flussi finanziari posti in essere dai contribuenti. Essa, infatti, beneficia di ampi poteri discrezionali, giustificati dalla necessità di ridurre le conseguenze nefaste dei fenomeni economici che attentano agli obblighi contributivi, che si riflettono sia sul soggetto da sottoporre a controllo che sullo strumento di indagine da adottare.
Disamina dei condizionamenti euro-unitari
La combinazione di cause tra loro eterogenee (dalla caducazione del modello-fordiano, alla rigidità delle politiche lavorative, passando anche per l’accelerazione che ha contraddistinto il settore tecnologico), hanno contribuito alla costituzione in essere della “globalizzazione”, quale fenomeno che ha ridisegnato perimetro e portata dell’economia mondiale.
Nel dettaglio, in un contesto in cui spazio e tempo si relativizzano così tanto da scomparire, le transazioni diventano flessibili e l’immediatezza condiziona ogni singolo flusso finanziario, la globalizzazione, ha consentito ai singoli operatori di ridisegnarsi migliorando l’efficienza/efficacia delle proprie prestazioni economiche.
Tuttavia, se questo rappresenta il lato oggettivamente positivo del fenomeno economico in esame, l’internazionalizzazione dell’economia ha indirettamente prestato il fianco al consolidamento dei fenomeni elusivi ed evasivi dell’economia, rendendo mondiale un problema fino a ieri (relativamente) geolocalizzato.
Così, dato il mutato scenario economico (per ciò che qui interessa “comunitario”), e appurata l’inefficacia delle singole politiche interne degli Stati membri, pensare ad una forma di coordinamento tra amministrazione degli Stati membri appariva la soluzione vincente[24].
Più in particolare, l’attività di collaborazione è svolta dall’Ufficio Cooperazione Internazionale[25] che, tra le molteplici funzioni, assolve precipuamente: il servizio per lo scambio di informazioni con gli Stati membri dell’Unione europea, l’assistenza alla notifica degli atti e il recupero coattivo dei crediti erariali (C.L.O.); il servizio per lo scambio di informazioni con ogni altro Stato, ivi incluso l’invio e la ricezione dei rapporti Paese per Paese (Country by Country reporting); l’analisi dei dati oggetto di informazione per il loro utilizzo da parte delle competenti strutture centrali e territoriali.
Nel contesto delineato, aldilà delle convenzioni costituite per contrastare l’annosa questione riferita alla doppia imposizione fiscale, fungono da primordiale punto di riferimento normativo (nello scambio di informazioni tra Stati membri in materia di Iva, accise ed imposte indirette) la Direttiva n.92/12/CEE[26] e la Direttiva 77/977/CEE[27].
Le direttive di cui sopra, sono state superate per mezzo della Direttiva 2011/16/UE[28] (DAC-1), la quale ha ampliato e potenziato l’ambito operativo dello scambio di informazioni, ai fini fiscali, tra gli Stati membri.
Nel tempo, però, la Direttiva del 2011 di cui sopra ha subito numerose modifiche per effetto di ulteriori interventi normativi realizzatisi fino ai tempi recenti. Il riferimento involge, rispettivamente: la Direttiva 2014/107UE[29] (DAC-2), la Direttiva 2015/2376/UE[30] (DAC-3), Direttiva 2016/881/UE[31] (DAC-4), la Direttiva 2016/2258/UE[32] (DAC-5), la Direttiva 2018/822/UE[33] (DAC-6) e, da ultimo, la Direttiva 2021/514/UE[34] (DAC-7).
Nel dettaglio, la DAC-7, con l’obiettivo di realizzare un sistema di tassazione più sostenibile e nella consapevolezza delle nuove sfide che derivano dall’economia digitale, interviene per stabilire che i gestori di piattaforme digitali diventino collaboratori (attivi) del Fisco. Ancora, attraverso la DAC-7 si è deciso di inserire un ulteriore tassello nel complesso mosaico della cooperazione amministrativa tra Stati nell’ambito delle azioni di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva internazionale, introducendo nel contesto europeo paradigmi precedentemente elaborati dall’OCSE[35] nel “Progetto BEPS”, che raccomandava proprio l’adozione di standard obbligatori di comunicazione tra Stati cooperanti.
In conclusione, l’obiettivo della DAC-7 consiste nel rendere più trasparente il contesto dell’economia digitale servendosi, nel concreto, proprio della collaborazione delle piattaforme digitali, perché la dimensione transfrontaliera dei servizi offerti in rete non consente alle Amministrazioni fiscali di controllare correttamente i redditi realizzati sul web, soprattutto quando le basi imponibili vengono (dolosamente) veicolate alla soggezione di altre giurisdizioni.
Il contraddittorio ai fini dell’accertamento e sorte dei dati acquisiti illegittimamente
In tema di accertamento bancario, l’art. 32 del D.P.R. n.633/1973, recante norme sui “Poteri degli uffici”, stabilisce al secondo comma che ai fini dell’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti.
Ora, se la nuova disciplina riferita al procedimento amministrativo, contenuta nella Legge n. 241/1990, espressamente riconosce il diritto al contraddittorio, in fase istruttoria, in capo ai destinatari dei provvedimenti amministrativi, lo stesso non può dirsi in ambito tributario, dove il predicato contenuto nella norma ha dato origine a non poche diatribe interpretative.
In particolare, nell’ambito delle garanzie che si riconoscono al contribuente, consacrate dall’art. 24 della Costituzione[36], risulta delicata la questione del riconoscere, o meno, il contraddittorio preventivo come obbligatorio, ovvero facoltativo.
E’ importante precisare che i confini della questione appaiono solo nazionali, considerato che a livello comunitario l’esplicazione del contraddittorio preventivo, nel corso di un procedimento di indagine tributaria, si eleva a principio indiscusso[37].
Tornando al panorama nazionale, è necessario distinguere due orientamenti giurisprudenziali che hanno caratterizzato (chiaramente con segno distintivo differente) l’analisi interpretativa avente ad oggetto il contraddittorio preventivo.
Invero, sulla scorta di un primo orientamento[38], il Supremo Collegio ha avuto modo di sostenere l’assenza di un obbligo in capo all’Ufficio di convocazione del contribuente al contraddittorio preventivo precisando che, il mancato esercizio di quella che rimane una facoltà per l’Amministrazione, non avrebbe comportato l’illegittimità della attività di verifica operata.
Tuttavia, il consolidamento dei principi contenuti nello Statuto del contribuente, oltreché la necessità di livellare per quanto possibile l’asimmetria informativa tra Amministrazione e soggetto debole, hanno sostenuto un revirement giurisprudenziale che ha indotto la Cassazione a ritenere “il contraddittorio elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa”[39].
Posizione che si potrebbe definire intermedia, invece, è stata assunta dall’Agenzia delle Entrate[40] che, pur sostenendo la non automatica esperibilità del contraddittorio, ne riconosce la sua attuazione tutte le volte in cui risulta complesso determinare un risultato chiaro al termine delle indagini finanziarie e risulta necessario reperire valutazioni aggiuntive da comporre assieme al contribuente.
La virata interpretativa trova conferma anche nella Legge delega fiscale n. 23 del marzo 2014[41], la quale tenendo conto del diritto comunitario, dello Statuto del contribuente e degli articoli 3 e 53 della Costituzione, ha inserito tra i criteri direttivi generali “l’espressa volontà di rafforzare il contraddittorio nella fase di indagine, come tutela dei diritti del contribuente”.
Infine, si precisa che sulla stessa linea illustrata si colloca il Decreto legge 30 aprile 2019, n. 34 (conosciuto come Decreto-Crescita)[42], convertito con modificazioni dalla Legge 28 giugno 2019, n.58, il quale ha introdotto l’obbligo di audizione preventiva nel procedimento di accertamento con adesione, ai fini Iva e delle imposte dirette.
Ciò chiarito, occorre domandarsi quali conseguenze sorgano a fronte di dati reperiti dall’Amministrazione finanziaria in maniera illegittima.
Invero, in sede d’indagine l’Amministrazione finanziaria potrebbe entrare in contatto, e di conseguenza utilizzare (ai fini d’accertamento prima e impositivi dopo), documenti ed informazioni reperiti in maniera illegittima, rispetto ai quali sorge il problema del loro utilizzo.
La questione trae origine dalla vicenda che vede come protagonista l’ingegnere Hervé Daniel Marcel Falciani, soggetto verosimilmente sconosciuto ai più, ma la cui figura ha contribuito in modo considerevole a modificare le regole di un gioco che durava da sempre, ossia quello di soggetti facoltosi che, sfruttando il segreto bancario svizzero, occultavano ingenti somme di denaro provenienti dalla consumazione di illeciti tributari, o peggio, attività illegali[43].
Ora, il gioco di cui sopra termina quando il tecnico informatico Falciani, in qualità di dipendente della nota banca HSBC di Ginevra, riesce ad impossessarsi di un elenco di dati relativi al periodo novembre 2006- marzo 2007 contenente i nomi di quasi 100.000 correntisti esteri clienti della banca e 20mila società off-shore. Successivamente, a seguito di un sequestro avvenuto presso la sua abitazione, le Autorità francesi entrano in possesso della cosiddetta “lista Falciani”, provvedendo a distribuire ai governi dei Paesi europei, tra cui l’Italia[44], le risultanze di quanto contenuto, al fine di contrastare l’evasione fiscale internazionale.
A seguito di quanto brevemente presso, si giunge al punto centrale della questione: l’Amministrazione finanziaria italiana ha potuto, o meno, utilizzare il contenuto della lista (di provenienza illecita stante la condotta dell’ingegnere) per rilevare le irregolarità fiscali poste in essere dai contribuenti italiani?
La questione, lontana dall’essere stata affrontata senza complicazioni interpretative, sollevò un acceso dibattito tra quanti si interrogavano sulle criticità (in termini di tutela per il contribuente) dell’uso da parte dell’Amministrazione di dati trafugati illecitamente, e quanti, sulla scorta della repressione dei fenomeni evasivi/elusivi internazionali, ne difendevano l’ammissibilità[45].
Interviene per risolvere la dibattuta questione il Supremo Collegio che, con l’ordinanza 28 aprile 2015, n. 8605, apre ad una iniziale ammissibilità di utilizzo dei dati, motivando che l’Amministrazione finanziaria “nella sua attività di accertamento della evasione fiscale può -in linea di principio- avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una disposizione di legge o dal fatto di essere stati acquisiti dalla Amministrazione in violazione di un diritto del contribuente”[46]. Questo orientamento trova conferma anche in una seconda ordinanza della Cassazione, del I settembre 2016 n. 17503, con la quale, sempre in merito all’utilizzo di elementi indiziari acquisiti in modo irrituale, esclude la costituzione di una previa verifica degli elementi acquisiti da parte dell’Amministrazione per ammettere, ancora una volta, l’utilizzo di qualsiasi dato indiziario, purché non utilizzabile secondo disposizioni di legge.
Da ultimo, attraverso la recente sentenza del 28 novembre 2019, n. 31085, la Corte di Cassazione ribadisce il principio di diritto già statuito, per cui “l’Amministrazione finanziaria nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale”[47].
Tale prospettiva si concilia al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”.
Accertamento e criptovalute, quid iuris?
La criptovaluta di tipo Bitcoin solleva numerosi problemi di inquadramento giuridico, sicché prima di affrontare la questione relativa all’accertamento avente ad oggetto le monete virtuali, è necessario anteporre doverose precisazioni.
Nell’accezione comune, infatti, le criptovalute vengono spesso equiparate alla moneta elettronica e, nelle ipotesi più erronee, associate alla seconda quasi fossero sinonimi.
Nella realtà tra le due rappresentazioni economiche non solo esiste una notevole distanza, ma sussistono molteplici differenze.
Procediamo con ordine.
La moneta elettronica trova espressa regolamentazione sia nella dimensione estera, sia nel contesto normativo nazionale.
Nel dettaglio, in ambito internazionale il contributo normativo di riferimento è dato dalla Raccomandazione della Commissione del 1997[48], avente ad oggetto proprio la regolamentazione delle operazioni realizzate mediante strumenti di pagamento elettronici. Dalla interpretazione sistematica delle lettere a) e c) dell’articolo 2 della Raccomandazione in oggetto si ricava la nozione di moneta elettronica, quale strumento di pagamento ricaricabile, all’interno del quale viene immagazzinato, da parte dell’emittente, un valore tale da consentire al titolare della medesima di effettuare le operazioni dallo stesso richieste. Si deve, invece, alla Direttiva 2000/46/CE[49] del Parlamento e del Consiglio, poi abrogata dalla riscrittura della Direttiva 2009/110/CE[50] la definizione di una disciplina più organica della moneta elettronica. Nel dettaglio, secondo la normativa comunitaria si definisce moneta elettronica un valore monetario rappresentato da un credito nei confronti del soggetto emittente, che può essere inserito all’interno di un dispositivo elettronico, rilasciato dietro versamento dei fondi aventi un valore non minore del valore monetario emesso, accettato come strumento di pagamento da imprese differenti rispetto al soggetto emittente.
Nel contesto nazionale, invece, la definizione di moneta elettronica è contenuta all’art. 1, comma 2 del D. lgs. n. 385/1993[51] (noto come Testo Unico Bancario), in parte modificato dal D.lgs. 45/2012[52]per dare attuazione alla Direttiva 2009/110/CE, secondo cui si definisce moneta elettronica il valore monetario, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente ed emesso per porre in essere operazioni di pagamento, il cui credito verrà poi memorizzato elettronicamente ed accettato da persone fisiche/giuridiche differenti dal soggetto emittente. Più nel dettaglio parafrasando quanto disposto dall’art. 1, comma 2, lett. h-ter del D.lgs. 385/1993 emergono i requisiti che la moneta elettronica deve possedere per essere definita tale, ossia: costituire valore monetario memorizzato elettronicamente; rappresentare un credito vantato nei confronti dell’emittente; essere emessa per effettuare operazioni di pagamento; essere accettata da soggetti diversi rispetto al soggetto che l’abbia emessa. Per completezza espositiva si puntualizza che l’emissione della moneta elettronica, per lungo tempo, ha rappresentato una prerogativa delle banche, mentre oggi, data l’evoluzione delle dinamiche commerciali, la prestazione di servizi di pagamento è riservata anche agli Istituti di pagamento (IP) e agli Istituti di moneta elettronica (IMEL)[53].
Sulla scorta di quanto premesso si procede lungo la disamina delle questioni che impediscono, nel concreto, lo svolgimento di un’analitica attività di accertamento da parte dell’Amministrazione quando la verifica ha ad oggetto la criptovaluta.
Ora, proiettandosi aldilà della spiegazione della genesi della criptovaluta e del funzionamento della tecnologia Blockchain di cui si serve[54], si entra nel vivo della trattazione analizzando le peculiarità che caratterizzano questa rappresentazione digitale di valore[55], ossia la smodata volatilità, l’anonimato e l’a-territorialità; elementi, che condizionano fortemente sia lo svolgimento che l’esito dell’attività accertativa.
In forza di una tassonomia proposta dalla European Banking Authority (EBA)[56]e dal Global Digital Finance (GDF)[57] è possibile distinguere 3 macro-categorie di crypto-assets, ossia:
- mezzi di pagamento funzionali all’acquisto di beni/servizi ovvero al trasferimento di denaro (cd. payment token);
- utility token, i quali funzionano come un voucher che dà diritto al possessore di ricevere in futuro un bene/servizio;
- token di investimento (cd. security – or asset and financial – token), che garantiscono il diritto alla percezione futura di interessi, dividendi o flussi finanziari.
Nell’ambito della prima categoria, è possibile distinguere le criptovalute altamente volatili da quelle relativamente stabili, quest’ultime spesso associate alla moneta elettronica. Nel dettaglio, l’alta volatilità dei prezzi (indicatore palesemente negativo che determina brusche oscillazioni del/nel sistema) si spiega in ragione del fatto che la criptovaluta viene creata e scambiata all’interno di un circuito virtuale deregolamentato, svincolato da qualsiasi intervento di un’Autorità centrale capace di stabilizzare i prezzi e di far incrociare domanda ed offerta. Detto in altri termini, la variazione selvaggia dei prezzi è tale perché condizionata solo dalla domanda, o meglio, dalla scommessa che chi crea criptovaluta genera sulle aspettative dei possibili acquirenti.
L’altro aspetto in grado di incidere sull’enforcement della pretesa tributaria è costituito dall’anonimato, intendendo per tale l’assenza di qualunque identificazione riferita al soggetto utilizzatore/detentore di criptovaluta. Nella realtà si dovrebbe parlare di pseudo-anonimato nei confronti degli utilizzatori di criptovaluta, in quanto, se è vero che ogni transazione viene registrata all’interno di un pubblico registro, vi è una piena tracciabilità dei soggetti che sono indicati con la stringa di 33 caratteri che, oltretutto, costituisce l’hash della chiave pubblica. Ancora, se gli utenti si rivolgono ad una società specializzata (e regolata) che gestisce per conto del cliente i wallets verosimilmente risulta possibile identificare i proprietari degli stessi grazie alla normativa antiriciclaggio[58]. Viceversa, determinano seri problemi di tracciabilità, rispettivamente: l’ipotesi in cui è l’utente a gestire in autonomia il wallet; la circostanza in cui l’utente acquista la criptovaluta direttamente da un miner, ovvero sia egli stesso un miner; in questi casi, infatti, procedere allo svolgimento dell’attività accertativa avrebbe la stessa efficacia di “tagliare la testa dell’Idra”.
Infine, considerato che la criptovaluta esiste soltanto sotto forma di registrazione nel ledger e il suo spostamento da un portafoglio all’altro non è che la risultante della sua validazione e della conseguente creazione di un nuovo blocco, sorge il problema della a-territorialità (con tutto ciò che ne deriva in termini di eterogenia delle fattispecie tassabili). In altri termini, poiché il bitcoin resta “salvato” sul ledger non esiste in alcuna giurisdizione, ma questa condizione, seppur negativa, rappresenta la percentuale minore del problema che potrebbe ingigantirsi se si definissero forme di “regolamentazione-sregolata”, come tali, incapaci di disciplinare la materia, tuttavia in grado di acuire la harmful tax competition[59] già esistente.
Concludendo, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, data l’influenza della criptovaluta nella dimensione economica mondiale, è necessario realizzare politiche fiscali di largo consenso internazionale per realizzare l’eliminazione dei paradisi fiscali, la lotta ai fenomeni evasivi/elusivi e, da ultimo, il contrasto alle politiche di riciclaggio/autoriciclaggio di ricchezza non sempre lecita.
[1] Corte di Cass. 27 maggio 1975, n. 2129.
[2] Corte di Cass. 9 giugno 1998, n. 5658.
[3] Regolamento UE 2016/679 del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati”, noto appunto con l’acronimo inglese di GDPR – General Data Protection Regulation.
[4] Art. 16 TFUE – (ex Articolo 286 TEC): “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le norme relative alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e degli Stati membri nello svolgimento di attività che rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e delle norme relative alla libera circolazione di tali dati. Il rispetto di tali norme è soggetto al controllo di autorità indipendenti. Le norme dettate sulla base del presente articolo lasciano impregiudicate le norme specifiche di cui all’art. 39 del trattato sull’Unione europea”.
[5] Art. 8 CDFUE – (Protezione dei dati di carattere personale): “Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.
[6] M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto amministrativo, Roma, 2021: “La Corte di giustizia ha sviluppato, nel corso del tempo, un corpo organico di principi del diritto dell’Unione europea, molti dei quali si riferiscono alla pubblica amministrazione, intesa sia come organizzazione che come attività”.
[7] M. FRATINI, op.cit.: “La trasparenza si pone, allora, non solo come forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi, ma come strumento ordinario e primario di riavvicinamento del cittadino alla pubblica amministrazione, destinata sempre più ad assumere i contorni di una “casa di vetro”, nell’ambito di una visione più ampia dei diritti fondamentali sanciti dall’articolo 2 della Costituzione, che non può prescindere dalla partecipazione ai pubblici poteri”.
[8] A. BEVERE, P. BEVERE, A. CERRI, Il diritto di informazione e i diritti della persona, Milano, 2022.
[9] Art. 53 Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
[10] Art. 13, Legge 5 gennaio 1956, n. 1 : “Quando dalla dichiarazione dei redditi risultano passività, interessi passivi od altri oneri verso aziende od istituti di credito, o verso società finanziarie o fiduciarie, o quando ad un accertamento o rettifica, di ufficio il contribuente oppone simili passività, interessi passivi od altri oneri, l’Ufficio delle imposte può richiedere al contribuente che sia presentato, entro un termine non inferiore ai trenta giorni, oltre alla copia dei conti intrattenuti con l’istituto, un certificato dell’ente creditore. Tale certificato deve attestare l’ammontare degli elementi passivi indicati nella dichiarazione od opposti dal contribuente, con la specificazione di tutti gli altri rapporti, debitori o creditori, nonché dei riporti e delle garanzie prestate anche da terzi, esistenti con lo stesso contribuente alla data in cui termina il periodo di commisurazione del reddito al quale la dichiarazione si riferisce e ad altre date, anteriori o successive, indicate dall’Ufficio. Il certificato dell’ente creditore controfirmato dal capo servizio o dal contabile addettovi, deve menzionare esplicitamente che viene rilasciato su richiesta del contribuente ai fini del presente articolo. Su richiesta del Ministro per le finanze, il servizio di vigilanza sulle aziende di credito controlla la esattezza delle attestazioni rilasciate dall’azienda od istituto di credito, società finanziaria o fiduciaria. In caso di omessa presentazione dell’attestazione, le passività, gli interessi passivi od altri oneri non sono ammessi in deduzione, restando impregiudicata l’azione di accertamento o di rettifica dell’Ufficio distrettuale a norma delle vigenti disposizioni, nonché l’applicazione delle sanzioni previste dalle disposizioni medesime”.
[11] La riforma, conclusasi nel 1973, portò all’istituzione di 5 nuove imposte (3 dirette e 2 indirette), rispettivamente: l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (Irpeg, ora Ires), l’imposta locale sui redditi (oggi abrogata), l’imposta sul valore aggiunto (Iva) e l’imposta comunale sull’incremento del valore degli immobili (Invim oggi abrogata).
[12]Legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria).
[13] Decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n.600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi).
[14] Art. 47 Costituzione: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.
[15]Sul punto, si veda M. CEDRO, Le indagini fiscali sulle operazioni finanziarie e assicurative, Torino, 2011.
[16] Nello specifico l’art. 51 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di (Attribuzioni e poteri degli Uffici dell’imposta sul valore aggiunto) prevedeva al punto 5) che gli Uffici nell’adempimento dei loro compiti potessero soltanto: “richiedere la comunicazione di dati e notizie alla Guardia di finanza, agli uffici doganali e ad ogni altra pubblica amministrazione o ente pubblico, fatta eccezione per gli istituti e le aziende di credito per quanto attiene ai loro rapporti con i clienti, per l’amministrazione postale per quanto attiene ai dati relativi ai depositi, conti correnti e buoni postali, per l’Istituto centrale di statistica e per gli ispettorati del lavoro per quanto riguarda le rivelazioni loro commesse dalla legge”.
[17] D.P.R. 15 luglio 1982, n. 463 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, concernenti istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto e disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi).
[18] Legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale).
[19] Principio oggi consacrato all’art. 10 Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente): “I rapporti tra contribuente e amministrazione sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede. […]”.
[20] Legge 31 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato).
[21] Sul punto di confronti M.V. SERRANO’, Indagini finanziarie e accertamento bancario, Torino, 2010.
[22] Istituita con D.P.R. 29 settembre 1973, n.605, costituisce la banca dati utilizzata per la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi alla fiscalità dei contribuenti italiani.
[23] Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo).
[24] Il coordinamento dell’azione tra le Amministrazione fiscali degli Stati membri ha lo scopo non soltanto di garantire l’assoggettamento a tassazione delle ricchezze movimentate e, pertanto, evitare fenomeni di elusione ed evasione fiscale, ma di consentire un coordinamento delle normative e delle Amministrazioni fiscali tra Stati, offrendo ai contribuenti e agli operatori economici un quadro normativo omogeneo.
[25] Istituito presso l’Agenzia delle Entrate – Settore Internazionale.
[26] Relativa al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa. Nel dettaglio, essa detta una specifica disciplina per consentire, a determinate condizioni, al funzionario dell’amministrazione dello Stato membro, di svolgere le verifiche del caso nel territorio del singolo Stato nazionale.
[27] Relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette.
[28] Cooperazione amministrativa nel settore fiscale, scambio automatico di informazioni dai periodi d’imposta a decorrere dal 1° gennaio 2014.
[29] Amplia le categorie di reddito oggetto di scambio automatico, obbligo di trasmettere informazioni, per i periodi d’imposta a decorrere dal 1° gennaio 2016, per quanto concerne i conti bancari.
[30] Estende lo scambio automatico obbligatorio di informazioni ai ruling preventivi transfrontalieri e agli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento.
[31] Scambio automatico obbligatorio di informazioni in materia di rendicontazione Paese per Paese.
[32] Accesso da parte delle autorità fiscali alle informazioni in materia di antiriciclaggio.
[33] Scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale relativamente ai meccanismi transfrontalieri soggetti all’obbligo di notifica.
[34] Scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale esteso alle piattaforme digitali.
[35] Il progetto BPES (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE/G20 mira a creare un unico insieme di norme fiscali internazionali basate sul consenso, al fine di proteggere le basi imponibili, altresì offrendo maggiore certezza e prevedibilità ai contribuenti.
[36] Art. 24 Costituzione: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.
[37] Sul punto, si confronti la sentenza della Corte di Giustizia europea (causa- C-349/07), in materia doganale, con la quale viene riconosciuto agli importatori ed ai soggetti controinteressati il diritto di essere previamente sentiti e di poter presentare le proprie osservazioni, prima che gli uffici doganali emettano qualsivoglia atto lesivo nei loro confronti.
[38] In merito, Corte di Cass. 16 settembre 2005, n. 18421; Corte di Cass. 7 febbraio 2008, n. 2821.
[39] Sul punto, Corte di Cass. 18 dicembre 2009, n. 26635: “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento […]”.
[40] Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 19 ottobre 2006.
[41] La Legge 11 marzo 2014, n.23 ha conferito una delega al Governo per la realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. Nella Gazzetta Ufficiale n.233 del 7 ottobre 2015 sono stati pubblicati gli ultimi decreti legislativi attuativi della delega.
[42] Decreto legge 30 aprile 2019, n. 34 (Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi).
[43] Sul punto si veda, C. SACCHETTO, Le prove nel processo tributario: prove illegittimamente acquisite. Casi interni e internazionali, in giustiziatributaria.it, 2015; D. ZARDINI, Le violazioni relativa all’acquisizione dei dati bancari, il principio di legalità dimenticato e le prove illecite (anche in riferimento al caso in cui l’illecito sia stato commesso da un privato all’estero), in rivistatrimestraledirittotributario.it, 2017.
[44] La lista conteneva anche i nomi di circa 7.000 italiani, i quali avevano depositato presso l’istituto elvetico circa 6,5 miliardi di euro.
[45] Sul punto si veda, C. CONTI, Il volto attuale dell’inutilizzabilità: derive sostanzialistiche e bussola della legalità, in Dir. Pen. e Processo, 2010; F. D’AYALA VALVA, Acquisizione di prove illecite. Un caso pratico: la lista Falciani, in Riv. Dir. Trib., 2011; G. SAPORITO, Lista Falciani: atti di indagine non accessibili, in Il Sole 24Ore del 27 dicembre 2011; C. POLITO, Scambio di informazioni: abuso nell’acquisizione di dati contenuti nelle “liste”, in Fiscalità e commercio internazionale, 2011.
[46] Corte di Cass., 28 aprile 2015, n. 8605.
[47] Corte di Cass., 28 novembre 2019, n. 31085: “…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso sono esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali”.
[48] 97/489/CE: Raccomandazione della Commissione del 30 luglio 1997 relativa alle operazioni mediante strumenti di pagamento elettronici, con particolare riferimento alle relazioni tra gli emittenti ed i titolari di tali strumenti.
[49] Direttiva 2000/46/CE riguardante l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica.
[50] Direttiva 2009/110/CE concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica che modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e che abroga la direttiva 2000/46/CE.
[51] Decreto legislativo 1settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).
[52] Decreto legislativo 16 aprile 2012, n.45 (Attuazione della direttiva 2009/110/CE, concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, che modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e che abroga la direttiva 2000/46/CE.
[53] Nello specifico nel nostro ordinamento sono autorizzati ad emettere moneta elettronica, oltre a Poste S.p.a. e alle principali banche operanti nel territorio, solo tre IMEL che hanno ricevuto l’avallo della Banca d’Italia, ossia: Cartalis IMEL S.p.a.- Mobilmat IMEL S.p.a.- Imel. EU S.p.a.
[54] In merito, si veda S. COMELLINI, Ecco perché i Bitcoin non sono moneta elettronica,2018¸ S. COMELLINI – M. VASAPOLLO, Blockchain, criptovalute, I.C.O. e Smart Contract, 2019; G. BOLETTO, Le criptovalute nel sistema tributario: le prime riflessioni sull’esperienza italiana, in Diritto e pratica tributaria, 2021.
[55] La valuta virtuale viene così definita dal D.lgs. n.125/2019, in attuazione della V Direttiva antiriciclaggio (2018/843/UE) che ha introdotto nel D.lgs. n. 231/2007 specifiche misure per prevenire e contrastare il riciclaggio connesso all’impiego di valute virtuali.
[56] Contenente i risultati delle valutazioni compiute dall’EBA nel 2019 dell’applicabilità e dell’adeguatezza del diritto dell’UE alle cripto-attività.
[57] Avente ad oggetto la tassazione delle valute virtuali, nonché una panoramica dei trattamenti fiscali e delle questioni emergenti di politica fiscale.
[58] In merito, G. BOLETTO, op.cit.: “I wallet providers sono società che vendono applicazioni per conservare, trasferire e gestire le cripto-attività possedute. Questi soggetti specializzati offrono, dietro commissione, una serie di servizi sia a utenti al dettaglio, sia a professionisti”.
[59] Sul punto si confronti, Interrogazione parlamentare E-1656/2001 – Parlamento europeo.