L’evoluzione delle partecipazioni Statali nelle Società per Azioni nell’Europa sub-continentale sino al passaggio dallo Stato Imprenditore allo stato Regolatore.
Introduzione
Com’è noto, così come al momento dell’unità d’Italia, nel 1861, il primo pensiero fu quello di creare e stabilire un mercato unico; stesso fine fu perseguito dal 1957 ai giorni attuali dalla Comunità Europea. La Comunità Economica Europea, nata negli anni ‘50 analogamente alla CECA e all’Euratom, dal 1992 è divenuta semplicemente Comunità Europea, iniziandosi ad occupare di altri settori ulteriori a quello economico, anche se quest’ultimo resta di fondo il principale.
A tale obiettivo si è pervenuti utilizzando diversi strumenti, tra cui la libertà di circolazione di merci, servizi, lavoratori e capitale, nonché la disciplina della concorrenza e il divieto di aiuti di Stato alle imprese[1].
Uno dei maggiori problemi che si trovarono davanti i governi nazionali fondatori della CEE, fu quello di trovare una situazione post-bellica in cui si era ricorso in larga scala all’utilizzo di grandi monopoli sia pubblici che privati in quasi tutti i settori economici rilevanti, comportando così la necessità di intervenire per regolare i rischi derivanti da differenti legislazioni e regolazioni interne. La priorità fu quindi quella di garantire un confronto competitivo in parità con una piena e completa concorrenza tra operatori del mercato in differenti Paesi, e ancor di più difendere il mercato dai vari strumenti protezionistici di ciascuno Stato.
La regolamentazione concorrenziale del Trattato rivolta a tutte le imprese, però, non presentava a sufficienza quei caratteri di particolarità derivati dalla qualifica dell’impresa pubblica. Quest’ultima, infatti, rappresenta un incontro tra l’autonomia gestionale di un ente privato e le caratteristiche interne dell’ente pubblico. Gli autori del Trattato, quindi, decisero di introdurre una norma che non lasciasse spazio ad incertezze e che potesse disciplinare in modo deciso la materia sia per gli Stati che per le imprese. Tuttavia, come si vedrà in seguito, l’intenzione di liberalizzare il mercato e di eliminare possibili patologie nella concorrenza non fu immediatamente seguita nella realtà storica, dovendo aspettare gli anni ‘80, in cui avvenne il vero e proprio lavoro di abbattimento dei monopoli[2].
In particolare, come vedremo più avanti nel corso della trattazione, gli investimenti e i mezzi di afflusso economico sono stati dichiarati ammissibili e non vietati solo nei casi in cui rispettino il criterio dell’investitore razionale, pertanto qualora seguano – in una sintesi semplificativa – una logica comunque non estranea al profitto[3].
Ad ogni modo, nella ricerca di un motivo e di una ragione su cui si fondò lo smantellamento delle partecipazioni statali, sarebbe riduttivo ritenere unicamente causa scatenante la legislazione europea e l’introduzione di regole di mercato. Bisogna tener conto anche di come effettivamente nei maggiori Stati membri dell’Unione, tra cui anche l’Italia, il ricorso a limitazioni alla partecipazione dello Stato sia figlio di una modernizzazione necessaria, a causa dell’arrivo al termine del ciclo vitale delle imprese pubbliche negli anni ‘90. Tra le varie critiche al sistema, si arrivò ad additare una cosiddetta “appropriazione politica” attraverso cui le imprese rinunciavano interamente ai rischi invocando i vantaggi della guida pubblica e richiamando però, allo stesso tempo, una configurazione privatistica, garantendosi così un’autonomia nell’esercizio[4].
Oltre ai motivi ideologici e la spinta normativa di fonte comunitaria, non si può escludere dai fattori scatenanti anche la presenza di un’esigenza prettamente economica, causata da un debito in crescita costante e senza controllo, che ha portato quindi ad individuare una soluzione attraverso l’offerta ai privati di rilevanti partecipazioni di cui era in possesso lo Stato.
Profili di diritto comparato, i casi UK e Francia
Per poter entrare nel vivo della discussione e dell’evoluzione legislativa introdotta nei confronti delle imprese di proprietà pubblica, appare fondamentale considerare anche quanto avvenuto al riguardo nelle principali economie degli altri paesi europei.
La Gran Bretagna, a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale, cavalcò l’onda, presente in gran parte d’Europa, di forte nazionalizzazione sorretta dal governo laburista, introducendo un cosiddetto modello di “relazione a distanza”[5]. Il fondamento su cui si basava questa nuova concezione era l’idea di inadeguatezza dell’amministrazione centrale nel gestire le varie imprese statali, ritenendo più consono un sistema in cui ai ministri spettava il compito di individuare l’indirizzo politico generale da seguire, mentre la gestione amministrativa delle società spettava a loro stesse in via autonoma. Questo sistema di controllo politico fu valutato fallimentare poi dalla gran parte degli studiosi, e si arrivò dunque alla fine degli anni ‘70 con un malcontento generale, ragion per cui l’elettorato era pronto ad accettare un cambiamento radicale di policy, essendovi ormai una percezione generale di un sistema disastroso.
Nel 1979, con l’arrivo al governo del partito conservatore di Margaret Thatcher, iniziò quella che poi venne definita l’epoca delle privatizzazioni. Come osservato da più studiosi e politici, i conservatori presero in considerazione il programma delle privatizzazioni non esclusivamente a causa della necessaria modernizzazione del sistema di controllo politico obsoleto, ma anche a causa della necessità economica a seguito di difficoltà finanziare[6]. Lo strumento fu in parte una sorta di salvagente economico attraverso cui risanare i vari debiti e i costi delle politiche governative da attuare. D’altra parte, invece, alcuni sostenitori delle politiche di privatizzazione dipinsero un sistema lineare e logico di interventi legislativi[7]. Non si può tuttavia escludere totalmente anche il carattere puramente ideologico, elemento considerato di primaria importanza da diversi autori. Ideologia che si rivela differente in ciascun Stato a causa delle proprie diversità e radici, a causa della quale si può rilevare una differenza notevole da nazione a nazione del processo di privatizzazione. Ciononostante, per tutte le diverse realtà geografiche la privatizzazione è configurabile come una riduzione dell’attività pubblica, la quale è trasferita in mano privata mediante un procedimento che passa attraverso diversi fattori.
Generalmente, si possono riconoscere due diversi approcci: il primo, portato avanti soprattutto dalle ideologie della destra in Gran Bretagna e in Francia, vede la privatizzazione consistente in un allontanamento dal diritto pubblico, sostenuto da un profondo e radicato sentimento di contrarietà allo Stato, frutto di quaranta anni di storia post-bellica in cui il popolo si era sempre più allontanato da una concezione di Stato idoneo alla risoluzione delle problematiche finanziarie dei cittadini, considerato da molti ormai obsoleto nella gestione di organizzazioni societarie. Il secondo tipo di approccio invece non vede la privatizzazione come una crociata antistatalista, ma più come un semplice strumento da utilizzare per affrontare problemi specifici di alcune imprese, operando quindi senza una spinta fortemente ideologica dietro. Sotto tale veste, la privatizzazione opera più come tentativo di soluzione ad alcuni determinati problemi, come la necessità di ottenere introiti per lo Stato, o l’esigenza di stabilire nuove e differenti strategie d’investimento[8].
Il governo conservatore britannico rispetto ad analoghi negli altri paesi d’Europa ha goduto di una relativa continuità e durata, essenziali per l’attuazione di politiche particolarmente radicali. Oltre ciò la Gran Bretagna presenta anche il vantaggio di un’inesistenza di vincoli costituzionali o giuridici, situazione non presente in altri contesti. Uno degli altri fattori che hanno reso lineare il processo di privatizzazione è stata la quasi totale assenza della sinistra e dei sindacati sul piano politico. In tale contesto, il Governo arrivò in una situazione di così grande potere da poter ignorare le richieste dei soggetti apicali dei sindacati, totalmente svalutati del loro classico potere di contrattazione. Il partito laburista era riuscito ad indebolire considerevolmente i possibili oppositori, potendo contare sul sostegno dei lavoratori grazie ad una sorta di acquisto del loro consenso, attraverso una vendita delle varie azioni delle società privatizzate a prezzi favorevoli per i dipendenti.
Tutte queste condizioni hanno portato il Regno Unito ad effettuare il programma di privatizzazione più vasto tra i diversi paesi in Europa. La Gran Bretagna divenne così il paese portavoce delle politiche di privatizzazione.
A distanza di quattordici anni dal primo insediamento al governo del partito conservatore di Margaret Thatcher, alle elezioni del 1993 il governo affermava di aver trasferito e privatizzato quarantasei grandi imprese, divenute quarantotto al gennaio del 1995. Le industrie di proprietà pubblica erano passate dal 9% del PIL ad 1/3 dello stesso e 950.000 dipendenti erano passati dalla forma di impiego pubblico a quello privato.
L’analisi del caso britannico mostra come per poter effettuare una riforma radicale della proprietà delle società pubbliche, la presenza di uno Stato forte alleggerisca e semplifichi il processo. Oltre che per l’assenza di vincoli e di obblighi costituzionali, anche per il fatto che lo Stato, prima di attuare la procedura di vendita di enti pubblici, in teoria dovrebbe creare i requisiti finanziari necessari e partecipare attivamente al processo di privatizzazione. L’individuazione di acquirenti validi, nel caso delle vendite dirette, è uno dei punti critici in cui i diversi Paesi si sono imbattuti, così come la necessaria rinegoziazione dei rapporti di lavoro e la politica di riequilibrio dei prezzi. In realtà, non mancarono diverse critiche al risultato a cui si stava pervenendo, additando al governo un’assenza di visione a lungo termine, senza aver preso in considerazione l’effettiva valorizzazione dei servizi offerti dopo il cambio societario e favorendo l’ingresso anche di grandi capitali esteri sul mercato che avrebbero poi potuto detenere un forte potere in settori di grande rilevanza. Riprendendo quanto citato da Heidrun Abromeit in uno dei suoi scritti, l’autrice notò come l’intero processo fosse piuttosto un “programma a breve termine, messo in piedi in seguito a considerazioni di ordine pratico e fiscale”, ritenendo che sia stato nella realtà dei fatti una politica di vendite a basso costo[9]. Anche oltremanica venne affrontata la cosiddetta questione della Golden Share, un elemento prettamente politico che tratteremo nello specifico più avanti, attraverso cui il governo si riservò in certi casi la possibilità di proteggere da acquisizioni non desiderate o di mantenere un potere in determinati settori. Misura più politica che pratica, venne istituita anche come risposta alle critiche mosse dall’opposizione, la quale riteneva rischioso un allontanamento totale da alcuni ambiti merceologici dello Stato, denunciandone i rischi derivanti dalla completa soggezione ad esigenze privatistiche di mercato. Per quanto forme di tutela per il governo siano logiche e accettabili a determinate condizioni, una simile influenza pubblica si è più volte scontrata con le richieste del libero mercato, sia in ambito legislativo, sia in un ambito di carattere più pratico, attraverso un effettivo disincentivo all’investimento nelle società sottoposte a possibili vincoli dal potere politico.
Per poter meglio conoscere a fondo e capire l’evoluzione della privatizzazione nel nostro Paese dobbiamo analizzare a grandi linee anche gli spunti derivati dalla disciplina d’oltralpe.
In Francia, la situazione con cui si arrivò agli anni ‘80 era profondamente diversa da quella italiana o britannica. A partire dal termine della Seconda Guerra Mondiale prese piede in tutto il paese una forte ondata di nazionalizzazioni in vari settori e nonostante diverse situazioni di crisi affrontate nei trent’anni post-guerra si consolidò l’idea che il sistema pubblico fosse il più consono alle esigenze della popolazione. Nel 1981 però salì al potere il Governo socialista, segnando il punto più alto del modello prima della sua crisi. Attraverso un cospicuo programma di nazionalizzazioni, banche, gruppi industriali e assicurazioni vennero sottoposte alla mano pubblica. Contemporaneamente l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento del salario minimo e la riduzione dell’orario di lavoro crearono le fondamenta per l’inizio della crisi del modello. La situazione si aggravò anche a causa del ricorso a fondi statali per risanare problemi finanziari delle imprese pubbliche in dissesto[10]. Attraverso una legge del 1983[11] vi fu una prima autorizzazione alla possibilità di attingere al risparmio privato per finanziarie le imprese pubbliche, legge che in un certo senso anticipò e preparò la nazione per i programmi che attuo il governo Chirac a distanza di qualche anno. Nonostante la crisi finanziaria, rispetto ad altri paesi la politica industriale francese non è stata considerata un fallimento sotto tutti gli aspetti: da molti è stata ritenuta più un bilancio equilibrato, quasi positivo[12]. Tuttavia, come sarà detto più avanti, nonostante lo Stato si sia rilevato utile per le imprese pubbliche, salvandole e fornendo loro fondi per il risanamento della situazione critica in cui versavano, la presenza poi come azionista in esse ha comportato limiti al loro sviluppo, allontanando investitori e rallentandone la crescita. Ruolo determinante, come nel resto del continente, è attribuito anche al processo di derivazione europea di costruzione del mercato unico, eliminando le restrizioni e le possibili interferenze alla concorrenza. La politica europea di controllo comportò la sottoposizione ad inchiesta da parte della Commissione sempre più spesso di imprese statali che beneficiano di un finanziamento dello stato loro azionista. Compito della quale è verificare se queste ipotesi di immissione di capitale fossero sovvenzioni e aiuti di Stato mascherati da aumenti di capitale, o se realmente configurassero ipotesi corrispondenti a quelle effettuate da investitori privati, quindi scongiurare il pericolo che potessero determinare dei rischi per le esigenze concorrenziali su cui si fonda tuttora l’intera idea del mercato unico europeo.
Il fattore però sicuramente preponderante nella valutazione della validità e dell’utilità delle privatizzazioni è stato la possibilità attraverso queste di ridurre l’indebitamento pubblico e quindi finanziariamente difendere la forza del Franco nello SME, fornendo alle imprese la possibilità di internazionalizzarsi e di sviluppare programmi attirando risparmiatori. Il Governo socialista così orientò le imprese nazionalizzate al profitto seguendo il clima presente in altre Nazioni.
Così, nel 1986, quando la destra conquistò il governo e venne eletto primo ministro Jacques Chirac, si avviò in tempi celeri l’auspicato programma liberalista di privatizzazione. Eduard Balladur, al tempo a capo del Ministère de l’Economie et des Finances preparò un piano in pochi mesi giungendo ad un programma comune firmato dall’opposizione prima dell’arrivo al Governo, il quale prevedeva la trasformazione di sessantasei imprese principali per un valore di 300 miliardi di franchi, e che avrebbe modificato la posizione di 750.000 lavoratori. La modalità con cui si attuò il programma venne considerata un’operazione quantomeno rischiosa, poiché consisteva nella vendita diretta su larga scala in borsa, scommettendo sull’esistenza di una forte classe di risparmiatori, rispetto alle vendite dirette a concorrenti avvenute in altri paesi[13].
Il Governo creò così una commissione per le privatizzazioni istituita con la legge del 6 agosto del 1986[14], la quale aveva come compito quello di valutare consono il prezzo di vendita richiesto, e proporre un valore minimo per l’offerta pubblica. Nonostante il tentativo di rendere trasparente e indipendente il programma di valutazione del prezzo di vendita delle azioni non mancarono critiche, essendo in prima analisi pressoché impossibile determinare in modo oggettivo il prezzo di un’impresa, le accuse mosse si fondarono sull’ipotesi che il governo avesse sottostimato le azioni per esser certo della riuscita del programma, senza preoccuparsi del danno che ne sarebbe potuto derivare per le istituzioni. Il risultato più lampante raggiunto dal programma fu la privatizzazione di Paribas nel 1987, alla quale parteciparono 3,8 milioni di francesi, che investirono i loro risparmi nella banca parigina.
Lo sviluppo del programma di privatizzazioni ebbe un’interruzione di cinque anni dal 1988 a seguito delle elezioni presidenziali in cui venne eletto Francois Mitterand fino al ritorno della destra nel 1993, di cui a capo vi era proprio l’ex ministro dell’economia Balladur, autore e padre del primo programma degli anni 1986-88. Nell’arco di questo quinquennio, il presidente preferì operare con una regola di inattività, non intervenendo né sul fronte delle nazionalizzazioni, né all’opposto riconoscendo la validità di quanto effettuato dalla destra nel biennio del secondo governo Chirac e quindi continuando il programma politico di quest’ultima in tema di proprietà pubblica. Tale manovra, inerte politicamente, riscosse consenso, ma economicamente pregiudicò la necessaria evoluzione e il naturale sviluppo delle imprese pubbliche, inoltre comportò anche delle difficoltà operative per i governi socialisti susseguitisi negli anni prima dell’arrivo di Balladur.
Questa seconda ondata di privatizzazioni nonostante potesse sembrare un continuo del primo processo, presentava differenze, anzitutto nei motivi fiscali ed economici su cui si poggiò la necessità, essendo il primo biennio caratterizzato da una necessità di ridurre il debito pubblico. Il programma delle privatizzazioni presentato nel 93’ da Edmond Alphandéry all’epoca al vertice del Ministère de l’Economie et des Finance, e da Nicolas Sarkhozy, ministro del bilancio, mostrò subito come obiettivo, non unicamente la riduzione del debito pubblico francese, ma anche la possibile utilizzazione degli introiti per finanziare il piano occupazionale del governo, assegnandone parte al bilancio nazionale[15]. Nonostante i vari buoni propositi il sistema venne visto come rallentato rispetto a quello del primo biennio, malgrado le numerose sottoscrizioni di capitali delle maggiori imprese, l’impressione generale del popolo fu quella di una minore linearità rispetto al primo periodo di privatizzazione, le varie imprese al momento delle vendite furono sponsorizzate come ottimi affari, disilludendo poi le aspettative degli investitori.
Fine di questa breve trattazione non è di certo individuare in dettaglio il fondamento giuridico ed economico su cui i processi di privatizzazione nei paesi principali europei si sono poggiati, né tantomeno ripercorrere minuziosamente l’intera realtà storica delle dismissioni in ciascuno stato; più semplicemente, l’obiettivo è quello di preparare la trattazione successiva, ponendola all’interno di un quadro concettuale di riferimento più ampio, cercando altresì di individuare soprattutto le condizioni in cui poi la legislazione comunitaria andò ad operare e i contesti che vennero disciplinati dal diritto dell’Unione.
La situazione in Italia
Prima dell’arrivo della legislazione comunitaria, il settore dell’economia pubblica copriva una fetta quasi di 1/3 dell’economia del nostro Paese, per la maggioranza attraverso società con partecipazione pubblica. Questo modello di impresa era sicuramente il più consono alle esigenze, poiché comportava maggiore semplicità per lo smobilizzo di partecipazioni. Essendo ordinate come società per azioni, per ricorrere alla dismissione risultava sufficiente vendere le azioni detenute, trasferendo così il controllo.
A partire dagli anni ‘90 si affiancò ai vari motivi sopra trattati anche la necessità rendere più efficienti le imprese pubbliche attraverso una riduzione di dimensione strutturale, essendo diventate ormai dei giganti in diversi settori di mercato, auspicando dei miglioramenti nell’attività qualora fossero state riportate a misura d’uomo.
L’Italia, durante gli anni ’80, venne considerata appartenente al gruppo dei cosiddetti privatizzatori di medio livello in Europa, avendo comunque operato con una maggiore cautela rispetto ad altri paesi. La vera svolta arrivò con i Governi Amato e Ciampi che, nonostante lo scetticismo generale per la scarsa cultura degli investimenti e la generale breve durata dei Governi, riuscirono ad avviare i processi di trasformazione di diverse società in modo lineare.
Il primo grande traguardo fu raggiunto con la vendita tramite offerta pubblica del 67% del Credito Italiano nel 1993 (CREDIT), seguito poi dalle vendite nel 1994 dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), della Banca Commerciale Italiana (BCI) e dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA)[16]. La cosiddetta “epoca delle privatizzazioni” oltre a comportare la dismissione di un ingente quantità di partecipazioni pubbliche, ha provocato l’affermazione di un diverso ruolo dello Stato nell’economia: defilandosi dall’attività di impresa vera e propria, esso passa ad essere titolare di un’attività di regolazione. Dallo Stato imprenditore si passa allo Stato regolatore[17], anche attraverso la costituzione di autorità di regolazione specifiche per la disciplina delle imprese privatizzate. Il fine dello Stato non è più l’interesse personale al profitto, come quello di una qualsiasi impresa privata, ma il rispetto delle regole concorrenziali, assicurando il corretto andamento dell’intero mercato[18].
La trasformazione degli enti pubblici economici
Tutta la situazione storica e sociale presente al termine degli anni ‘80 rappresentava un terreno fertile per l’attuazione delle politiche di privatizzazione. Anche all’interno della popolazione si iniziò infatti ad insediare il pensiero, di derivazione anglosassone, di obsolescenza dello Stato e dei suoi apparati alla gestione divenuta ormai dinamica in alcuni settori che sempre erano stati considerati esclusivamente a disposizione della mano pubblica.
Il primo strumento legislativo utilizzato al fine di privatizzare gli enti pubblici economici fu il decreto-legge 5 dicembre 1991 n. 386 con il quale, nonostante presenti eccessiva cautela, si iniziò a costruire una disciplina in materia di privatizzazione. Successivamente, a distanza di neanche un anno, il decreto-legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito poi in legge 8 agosto 1992 n.359, eliminò le cautele e la prudenza del primo andando concretamente a perseguire lo scopo di privatizzare.
L’art. 15.1 del D.L. 333 sancisce che “L’Istituto nazionale per la ricostruzione industriale – IRI, l’Ente nazionale idrocarburi ENI, l’Istituto nazionale assicurazioni – INA e l’Ente nazionale energia elettrica – ENEL sono trasformati in società per azioni con effetto dalla data di entrata in vigore del presente decreto.”
La prima questione da risolvere durante la stesura della normativa fu quella di individuare colore che sarebbero diventati azionisti successivamente ad una trasformazione di un ente pubblico in società per azioni ed il capitale sociale di quest’ultima. L’art. 15.2 risolve il primo dei due problemi introducendo una disciplina apposita per l’individuazione del capitale sociale. Esso dispone infatti che “Il capitale iniziale di ciascuna delle società per azioni derivanti dalle trasformazioni è determinato con decreto del Ministro del tesoro in base al netto patrimoniale risultante dai rispettivi ultimi bilanci…”. Riguardo invece l’individuazione dei i soggetti azionisti, l’art. 15.3 prevede “Le azioni delle società di cui al comma 1, unitamente a quelle della BNL S.p.a., sono attribuite al Ministero del tesoro. Il Ministro del tesoro esercita i diritti dell’azionista secondo le direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri d’intesa con il Ministro da lui delegato, con il Ministro del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato”. Con queste disposizioni venne quindi riconosciuto al ministero del tesoro la possibilità di esercitare i diritti dell’azionista.
La seconda questione che si dovette affrontare fu decidere cosa fare di tutte quelle attività svolte attraverso una concessione dai vari enti, in tale ambito si preferì eliminare i vantaggi derivanti dalla qualifica speciale del rapporto, ritenendo necessario regolarlo come una normale concessione. Nonostante però i buoni propositi, l’articolo 14 del decreto-legge n. 333 del 1992 optò per una permanenza di quelle attività riservate per legge agli enti pubblici, attraverso una concessione alla società per azioni in cui questi ultimi si sono trasformati, ponendo un limite minimo di durata di venti anni. Attraverso questa attribuzione diretta si è chiaramente andati contro i principi di concorrenza, rendendo impossibile l’accesso al mercato ad altri operatori in quei settori che per loro natura sono caratterizzati dalla presenza di un monopolio naturale.
Gli articoli appena analizzati possono comunque essere considerati provvedimenti strumentali a quella che poi è la disciplina vera e propria della privatizzazione delineata dall’articolo 16 dello stesso Decreto, il quale individua esplicitamente la finalità di “riduzione del debito pubblico”. Ponendo altresì un limite massimo di tre mesi dall’ entrata in vigore della legge di conversione entro cui “il Ministro del tesoro predispone un programma di riordino delle partecipazioni e lo trasmette al presidente del Consiglio dei Ministri”.
La trasformazione formale dell’ente pubblico economico, attraverso cui si è obbligato lo Stato a sottostare alle regole del Codice Civile come un comune azionista è solo il primo passaggio del procedimento di privatizzazione.
La trasformazione puramente formale è stata disposta anche dalla successiva legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale ha imposto al Governo, tramite decreti, di disporre un riordino attraverso “la trasformazione in associazioni o in persone giuridiche di diritto privato degli enti che non svolgono funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico, nonché di altri enti per cui funzionamento non è necessaria la personalità di diritto pubblico”. Il passo successivo alla trasformazione fu stabilire delle regole per la vendita delle azioni detenute dallo Stato imprenditore o da altri enti.
Con l’emanazione del D. L. 31 maggio 1994 n. 332 convertito poi in legge il 30 luglio vennero introdotte “norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione e di partecipazione dello Stato degli enti pubblici in società per azioni”, individuando direttamente le modalità per le vendite[19]. Il passaggio dallo stato imprenditore allo stato regolatore passa anche attraverso le disposizioni della legge numero 474 relative alle società operanti in particolari settori, prevedendo come prima necessità l’istituzione di organismi indipendenti finalizzati ad un controllo dei servizi offerti e delle tariffe proposte e successivamente disponendo dei limiti all’ autonomia privata di tali imprese attraverso l’istituzione delle cosiddette Golden Shares, quei poteri speciali riconosciuti al Ministro del tesoro, oltre a introdurre dei limiti nel possesso di azioni per soggetti privati e per l’elezione degli amministratori. Grazie a tali previsioni la mano pubblica si tutelò, riconoscendosi un controllo non proporzionale all’effettiva quota azionaria[20].
[1] Sul punto in modo più approfondito: I. Borrello, E. Cassese, E. Chiti, Il mercato unico e le politiche comunitarie, in La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2011.
[2] L’articolo 86 del Trattato CE e L’articolo 87 del Trattato Istitutivo della Comunità (oggi articolo 107 TFUE)
[3] A. Zoppini, La società̀ (a partecipazione) pubblica: verso una public corporate governance in Rivista del diritto commerciale, fascicolo 1, 2018, pag. 19.
[4] C. Pinelli, Iniziativa economica pubblica nella costituzione italiana, in Iniziativa economica e pubblica e società partecipate, Milano, 2019, pag. 11.
[5] J. Richardson, G. Dudley and C. Venzo, Le privatizzazioni in Europa, in Stato e mercato, agosto 1996, pag. 235 ss.
[6] Tra le voci contrarie al programma di privatizzazione del governo conservatore si può ricordare
Harold Macmillan, ex primo ministro inglese, che accuso la Tacher di “Selling off the family silver”, tradotto “vendersi l’argenteria di famiglia”, per coprire i costi del suo programma.
[7] Con parole di G. Grimstone: “Aveva acquisito una coerenza intellettuale che prima gli mancava, ed era sempre più evidente che un piano ben organizzato poteva avere il successo politico ed economico” in J. Richardson, Privatisation & deregulation in Canada & Britain, Londra, 1990, pag. 3-6.
Anche l’Adam Smith Institute affermò che: “in nessun altro paese come in Gran Bretagna le privatizzazioni sono state adottate come parte di un programma sistematico” in Privatisation, Londra, 1986.
[8] G. Majone e A. La Spina «Deregulation» e privatizzazione: differenze e convergenze, in Stato e mercato, n.35, agosto 1992, pag. 249 ss.
[9] H. Abromeit, British privatisation policy, in Parliamentary affairs, volume 4, 1988, pag. 68 ss.
[10] Ci si riferisce ad es. alla dotazione di capitale alla Renault nel 1985. Sul punto si veda anche la decisione della Commissione del 29 marzo 1988 relativa agli aiuti concessi dal governo francese al gruppo Renault, la cui attività è imperniata principalmente sulla produzione di autoveicoli (88/454/CEE), in cui si può leggere: “il Governo francese ha informato la stessa, con lettera del 2 maggio 1985, che intendeva concedere nel 1985 una dotazione in conto capitale di 3 miliardi di FF a Renault, precisando che la trasmissione di tale informazione non si configurava come una notifica ma come un’informazione fornita in conformità delle disposizioni della direttiva n. 80/723/CEE della Commissione relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche.”
[11] Legge n. 83-634 del 13 luglio 1983, c.d. Legge “rianimazione” del settore pubblico.
[12] E. Cohen e M. Bauer, Les grandes manoeuvres industrielles, Parigi, 1985.
[13]Situazioni di vendita diretta avvenuta in altri paesi è ad esempio in Spagna. Nel giugno del 1986, Volkswagen rilevò il 51% del capitale SEAT e portò la sua quota azionaria al 75% entro la fine dello stesso anno.
[14] Nello specifico Art 3, legge 6 Agosto 1986.
[15] H. Dumez, A. Jeunemaître and S. Santagata, Le privatizzazioni in Francia, in Stato e mercato n.47, 1996, pag. 295-321.
[16] S. Cassese, Le privatizzazioni in Italia, in Stato e mercato n. 47 (2), 1996, pag. 323 ss.
[17] A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, 2020.
[18] Sempre sul punto S. Cassese in La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2011.
[19] E. Freni, Le privatizzazioni, in La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2011, pag.217 ss.
[20] S. Cassese opp. Citato nota 29.