Diritto dell’Unione Europea e norme interne contrastanti in modo sistemico: limiti ed inefficacia dello strumento della disapplicazione giurisdizionale

in Giuricivile, 2022, 1 (ISSN 2532-201X)

Il sistema di integrazione e di omogeneizzazione degli Stati nel contesto dell’Unione Europea pone l’esigenza di certezza delle regole del diritto tra due sistemi giuridici (autonomi seppur coordinati secondo la visione dualista, oppure integrati in un unico sistema secondo la visione monista lussemburghese). Al di là delle posizioni, è necessario esaminare il rapporto di gerarchia delle fonti interne ed europee, e la relazione tra queste con le sentenze della Corte di Giustizia.

Si dà per acquisito che le direttive trasposte, e quelle c.d. autoesecutive (di creazione pretoria), compiutamente definite e prive di condizione alcuna, sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno.

Occorre altresì considerare la natura e l’efficacia delle sentenze della Corte di Giustizia nell’ambito della scala di gerarchia delle fonti del diritto.

Introduzione generale della materia

La Corte Costituzionale, già con le sentenze nn. 113/85 e 39/89 ha riconosciuto il principio della immediata efficacia e vincolatività delle “statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia”, al pari di quanto statuito con riferimento alle direttive autoesecutive (C. Cost. 2 febbraio 1990 n. 64 e C. Cost. 18 aprile 1991 n. 168).

Attualmente, la Corte di Giustizia – che non può intervenire ed incidere direttamente sul diritto interno – non conosce un procedimento giurisdizionale e una tipologia di pronunce assimilabili alle sentenze della Corte Costituzionale nazionale e non può pertanto dichiarare l’abrogazione di norme nazionali in conflitto con la normativa eurounionale.

Le sentenze della Corte di Giustizia non sono quindi sussumibili tecnicamente tra le fonti del diritto e il riconosciuto effetto vincolante risulta circoscritto alle sole sentenze interpretative del diritto unionale, dovendosi pertanto ritenere, se non fonti del diritto in senso tecnico, tuttavia vincolanti quanto all’interpretazione e, pertanto fonti di integrazione del diritto unionale, del quale esprimono interpretazione autentica[1].

Quanto sopra premesso consente di definire gli esatti termini per affrontare la problematica delle questioni afferenti all’attribuzione del potere disapplicativo nel nostro ordinamento, che ha inevitabili riflessi sulla quaestio iuris delle norme in materia di pubblico impiego più avanti richiamate.

Per il caso di conflitto della norma nazionale con norma unionale immediatamente efficace ed esecutiva deve quindi ritenersi sussistere l’obbligo di disapplicazione della norma interna in favore di quella U.E., interpretata nel senso vincolativamente indicato da eventuale sentenza della C.G.U.E.

Secondo una tesi giurisprudenziale del GA (Tar Lecce 27/11/2020 n. 01321), non può invece riconoscersi natura interpretativa vincolante ad una pronuncia della Corte di Giustizia (tra l’altro isolata) nella quale risulta affermato il principio secondo cui la prevalenza della norma unionale su quella nazionale comporterebbe l’obbligo di disapplicazione di quella interna da parte dello stato membro “in tutte le sue articolazioni” ovvero, sia da parte del giudice che da parte dell’amministrazione[2]

Il GA, con perizia di ragionamento ancorata a criteri logico sistematici sulla coesistenza di due effettive fonti del diritto contrastanti, e in relazione alla funzione di interpretazione autentica del diritto unionale da parte della CGUE, afferma che “appare infatti evidente che tale statuizione della C.G.U.E. non possa ritenersi di natura interpretativa di una specifica direttiva o regolamento U.E. e che comunque, a prescindere da ogni altra considerazione, tale statuizione risulti ultronea e non vincolante.

Ed invero per sentenza interpretativa del diritto dell’Unione non può che intendersi una pronuncia volta a chiarire la portata e la ratio legis di una statuizione specifica e non già una qualsiasi affermazione di carattere generale volta a condizionare in senso vincolante e limitativo l’attività decisionale del giudice interno o della pubblica amministrazione, funzioni che invece soggiacciono a norme e a regole processuali inderogabili previste dall’ordinamento nazionale.

Tale orientamento sul punto specifico sembrerebbe recepito anche nella sentenza C.d.S. Sezione quinta n. 1219/2018 del 28 febbraio 2018, nella quale anzitutto si ribadisce che la disapplicazione doverosa della norma interna rientri nell’attività di interpretazione, finalizzata “all’individuazione della norma applicabile, riservata al giudice, in applicazione del principio iura novit curia e nel doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario, di certezza del diritto e di leale collaborazione”.

Alla stregua della chiara statuizione di cui sopra appare non significativo il successivo riferimento al doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario e di certezza del diritto “che impongono sia alla pubblica amministrazione, sia al giudice di garantire la piena e diretta efficacia nell’ordinamento nazionale e la puntuale osservanza ed attuazione del diritto comunitario. Ne consegue che la disapplicazione della disposizione interna contrastante con l’ordinamento comunitario costituisce un potere dovere, anzi, un dovere istituzionale per il giudice…”.

“È nota la tesi prevalente e consolidata della giurisprudenza quanto alla configurazione del provvedimento amministrativo conforme alla legge nazionale in contrasto (mediato) con la norma eurounionale come provvedimento illegittimo e non già come nullo, che può essere rimosso in via giurisdizionale, essendo tale attività riservata solo ed esclusivamente al giudice.

Come già sopra evidenziato, deve anzitutto rilevarsi che la statuizione della C.G.U.E., con cui si afferma che il principio di dare attuazione alla norma comunitaria disapplicando la norma interna costituirebbe un obbligo dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni” ovvero giudice e pubblica amministrazione, non può ritenersi norma dichiarativa di interpretazione autentica della norma comunitaria, perché essa non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria, ma attiene invece alle generali regole e modalità di applicazione della normativa unionale in generale considerata, dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum.

Al fine di individuare quale sia il soggetto cui è attribuito il potere –dovere di disapplicazione della norma nazionale, è opportuno svolgere alcune considerazioni generali sulla disapplicazione di una legge dello stato.

Appare quasi superfluo ricordare che l’attività della pubblica amministrazione deve doverosamente conformarsi alla legge e ai regolamenti e che lo stesso giudice è soggetto alla legge.

Trattando della disapplicazione della legge non può prescindersi dal collegamento logico con l’attività di esegesi e di interpretazione della norma, perché la disapplicazione della legge costituisce null’altro che il risultato del previo esercizio della funzione interpretativa.

Orbene, l’interpretazione della norma giuridica deve essere effettuata secondo precisi e consolidati canoni ermeneutici e deve tendere alla individuazione della ratio legis, ovvero della volontà perseguita dal legislatore.

L’interprete è tenuto anzitutto ad esaminare il testo nel suo tenore e significato letterale (interpretazione letterale); in secondo luogo deve verificarne la compatibilità logica attraverso la ricerca della voluntas legis o ratio legis; deve verificare infine la compatibilità della disposizione con altre norme dell’ordinamento, tenendo conto del criterio temporale, della gerarchia delle fonti e del rapporto generalità-specialità.

La disapplicazione di una norma di legge costituisce il risultato di un’attività di interpretazione (di fatto) abrogativa.

Tra le varie tecniche interpretative: letterale, logico-sistematica, analogica, storico-sistematica, autentica (riservata al Legislatore), quella abrogativa rappresenta aspetti più problematici, perché può condurre ad una violazione delle regole, dei ruoli e delle competenze attribuiti dall’ordinamento rispettivamente al Giudice e al Legislatore.

Occorre pertanto che dell’interpretazione abrogante venga fatto un uso molto prudente, perché in nessun caso è consentito al Giudice e, ancor meno, all’amministrazione di sottrarsi all’obbligo di osservanza della legge.

L’interpretazione abrogante pertanto è consentita solo ed esclusivamente in presenza della contemporanea vigenza di due norme in conflitto insanabile tra loro; perché si abbia un conflitto insanabile è necessario che non risulti possibile dirimere il conflitto – in una prospettiva di coerenza e completezza dell’ordinamento – ovvero facendo applicazione di regole precise e consolidate, quali quelle che fanno prevalere, ad esempio, la norma speciale successiva su quella generale precedente.

Al di fuori di siffatta particolare ipotesi, il ricorso all’ interpretazione abrogante non è dunque consentito al Giudice così come – a maggior ragione – alla Pubblica Amministrazione.

Proprio in ragione della delicatezza e complessità della interpretazione abrogativa, in ipotesi finalizzata alla disapplicazione della norma, l’ordinamento nazionale attribuisce al Giudice la facoltà, ricorrendo determinati presupposti, di sospensione del giudizio e rimessione degli atti alla Corte Costituzionale laddove il contrasto ricorra con riferimento ad una norma della Costituzione.

La disapplicazione attiene viceversa alla decisione del caso concreto e non è pertanto idonea a determinare un effetto erga omnes.

La facoltà di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e quella di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sono funzioni strumentali e ancillari rispetto al potere di disapplicazione della norma nazionale, riconosciuto al Giudice.

Al fine di stabilire chi possa o debba disapplicare la norma nazionale in conflitto con la normativa unionale appare dirimente considerare che le predette facoltà di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, in quanto prodromiche e funzionali rispetto alla eventuale successiva determinazione di disapplicare la norma interna, non sono invece attribuite alla pubblica amministrazione e, per essa, al dirigente o funzionario preposto.

Proprio tale considerazione induce a ritenere che la norma nazionale, ancorché in conflitto con quella eurounionale, risulti pertanto vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente, che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale, così come è avvenuto nella fattispecie.

Occorre inoltre considerare che la disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice si inserisce in un contesto coerente e tendenzialmente unitario, quale quello proprio del sistema di tutela giurisdizionale offerto dall’ordinamento, che – attraverso il ricorso ai mezzi di impugnazione ordinaria e straordinaria – garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale, laddove la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento fra tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni da collocare in quiescenza.

In conclusione, risulterebbe del tutto illogico ritenere che il potere di disapplicazione della legge nazionale, attribuito prudentemente al giudice dall’ordinamento interno e dall’ordinamento eurounionale, e supportato all’uopo dalla specifica attribuzione di poteri ad esso funzionali e prodromici (porre q.l.c. o rinvio pregiudiziale alla CGUE), si ritenesse viceversa sic et simpliciter attribuito in via automatica e addirittura vincolata al dirigente pubblico, che non dispone (e non a caso) della possibilità di ricorrere all’ausilio di tali strumenti”[3].

Norma interna contrastante con una direttiva esprimente un principio unionale (non discriminazione).

Ebbene, la Corte di Giustizia, Grande Sezione, con la sentenza del 5-11-2019 n. 192, chiamata a pronunciarsi circa la conformità o meno della normativa di un altro Stato membro in materia di pensionamento di una categoria di pubblici dipendenti ai principi di parità di trattamento tra uomo e donna fissati dalla Direttiva 2006/54/CE, ha stabilito che è pacifico che le disposizioni in materia pensionistica che consentono un eventuale pensionamento anticipato ad un’età diversa per uomini e donne che si trovino nella medesima condizione lavorativa, certamente introducono nei regimi pensionistici interessati condizioni discriminatorie fondate sul sesso e violano, perciò, sia l’art. 157 TFUE sia la Direttiva 2006/54[4].

Pertanto, come richiesto dal Tar Lecce sopra, vi è stata una pronuncia specifica della CGUE sull’interpretazione del principio di non discriminazione che ha cristallizzato il significato della disposizione unionale rispetto alle norme, altrettanto specifiche, sul collocamento a riposo dei lavoratori che con essa si pongono in contrasto. Se ne ricava il presupposto di permanenza e vigenza nell’ordinamento unionale di tale principio e quindi della sua applicazione diretta, in un’ottica di integrazione dei due ordinamenti (come pare convergere la stessa Consulta su posizioni moniste), anche nell’ordinamento interno.

Finalità del meccanismo di disapplicazione

È noto che il meccanismo di disapplicazione elaborato in sede unionale, e poi pacificamente permeato nell’ordinamento interno, assolve ad assicurare il principio di primazia e la diretta applicabilità delle norme europee rispetto alle norme interne contrastanti. Ma questo opera solo per il caso concreto, perché la norma interna non viene invalidata da tale contrasto e quindi si pone in uno stato di quiescenza rispetto al campo di applicazione della norma eurounitaria antagonista, potendo essere applicata in altri ambiti, non presidiati da quest’ultima.

Ciò può valere quando le due norme hanno ambiti applicativi non sovrapponibili, e pertanto non c’è bisogno di invalidare la norma interna con effetto erga omnes (sollevando q.l.c. o abrogazione espressa), ma è sufficiente ricorrere alla disapplicazione del caso concreto.

Al di fuori di tale ambito, viceversa, si pone l’esigenza inversa, in quanto le due norme – quella della Direttiva 2006/54/CE e quella interna che fissa criteri diversi di pensionamento tra uomini e donne (v. avanti) – sono operative in ambiti applicativi perfettamente sovrapponibili e non residuano spazi autonomi per l’operatività della norma interna. E ciò a causa del fatto che non viene in considerazione una situazione giuridica soggettiva sottostante che può o meno replicarsi a seconda dei casi concreti, ma trattasi dell’operatività del principio di non discriminazione di genere tra lavoratori da porre in quiescenza, con effetti sistemici. Quindi le norme interne contrastanti che attuano tale discriminazione sono destinate ad applicarsi in via generale e astratta ad altrettante situazioni soggettive ripetibili in modo indefinito che riguardano tutti i destinatari della normativa in materia di pensionamento nel pubblico impiego, non esaurendosi ai singoli casi sottoposti al giudice di volta in volta adito. Questo fa sì che la norma interna è destinata definitivamente a non essere più applicata, pena la violazione del principio de quo.

Requisiti pensionistici diversi in base al genere (discriminazione in re ipsa)

La vicenda concreta riguarda la maturazione dei requisiti di pensionamento tra uomini e donne, che le norme interne pongono in termini temporali diversi tra i generi. Infatti, le disposizioni di cui all’’articolo 24, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, e la norma di interpretazione autentica, di cui all’art. 2, comma 5) del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, nella parte in cui prevedono per la cessazione di ufficio del rapporto, oltre il verificarsi del limite anagrafico ordinamentale, anche la maturazione del diritto ad un trattamento pensionistico, stabiliscono i requisiti per la pensione anticipata, rispettivamente, 40 anni e 10 mesi per le donne, 41 anni e 10 mesi per gli uomini, basandosi sull’unico dato del sesso. Ne consegue – secondo il Tribunale di Napoli cit. – una discriminazione vietata che si basa su limiti differenti per il collocamento a riposo.

Non c’è dubbio che la norma interna che stabilisce limiti d’età diversi per i requisiti di pensionamento tra uomini e donne è una norma di “sistema”, che si applica obbligatoriamente da parte della pubblica amministrazione datrice a tutti i lavoratori, generando un corto circuito permanente tra i due ordinamenti, senza possibilità di una via d’uscita se non quella dell’espunzione della norma dall’ordinamento interno, in quanto la disapplicazione giudiziaria si rivela uno strumento assolutamente inefficiente per salvaguardare la coerenza e l’integrazione tra i due ordinamenti, come il caso descritto testimonia.

Pertanto, se si considerano le argomentazioni sopra esposte che non permettono al pubblico dirigente di poter ricorrere al meccanismo disapplicativo riservato solo alla funzione giurisdizionale, pena la violazione delle norme interne che è obbligato ad attuare, nonché considerato che il contrasto tra la norma interna e quella unionale è generale e immanente per l’intero e identico campo di applicazione delle due norme, occorre che la norma interna sia espunta dall’ordinamento affinché non si renda più obbligatoria la sua applicazione antiunionale da parte dei pubblici funzionari “disarmati” dello strumento disapplicativo.

Quali rimedi?

La sentenza in commento (Tribunale Napoli n. 2868/2021) offre lo spunto per ritenere che la violazione delle norme eurounitarie (e dei princìpi che assicurano l’equivalenza e l’effettività delle tutele) che attribuiscono posizioni soggettive riconosciute direttamente ai singoli, proprio perché espone tutta la platea dei destinatari delle norme interne (contrastanti) alla generale e indefinita ripetitività dell’applicazione delle stesse da parte di tutte le PA obbligate a darvi attuazione, senza rimedio alcuno, diviene il moltiplicatore di altrettanti contenziosi giurisdizionali (quasi certi) per via della mancata espunzione della norma interna antieuropea dall’ordinamento.

Infatti, a causa dell’operatività e dell’applicazione generale e astratta della norma antieuropea, essa, non potendo essere disapplicata dalla pubblica amministrazione per i motivi di cui sopra, in tali circostanze andrebbe obbligatoriamente impugnata davanti la Corte costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, per il suo insanabile e immanente contrasto con le norme della Direttiva 2006/54/CE.

Contrasto insanabile e immanente che non è rimediabile neanche con il meccanismo della disapplicazione giudiziaria in quanto la norma interna non viola una disposizione o una regola di comportamento eurounitaria che disciplina casi particolari, ma un principio dell’ordinamento europeo, quello di non discriminazione di genere tra lavoratori. Quando ad essere osteggiato dalla norma interna è un principio dell’ordinamento europeo non può ritenersi sufficiente neanche il rimedio giudiziale di disapplicazione, e ciò per due ragioni principali: i) perché il rango di principio ne determina un’applicazione diffusa e generale che si impone nell’ordinamento interno nella materia da essa presidiato (non discriminazione sul lavoro); ii) che tale materia esaurisce interamente l’ambito applicativo della norma interna contrastante, destinata ad essere non semplicemente quiescente ma abrogata in via di fatto. Pertanto, l’abrogazione di fatto necessita del vaglio giurisdizionale che la adegui all’eliminazione di diritto in modo definitivo.

Il Giudice a quo, in virtù del principio di coerenza dell’ordinamento giuridico (inteso in senso monista con quello eurounitario) dovrebbe essere costretto a sollevare la q.l.c. per porre rimedio al caso sopposto, ma anche per assicurare la coerenza dell’ordinamento e la certezza del diritto (valori di civiltà giuridica), non essendo la disapplicazione giudiziaria, in tali fattispecie, un rimedio valido ai fini dell’applicazione del principio eurounitario di non discriminazione, in quanto non limitato al caso concreto. La norma interna, non potendo risolvere il caso concreto attraverso la disapplicazione, andrebbe sottoposta alla Consulta in quanto rilevante per la decisione del giudice a quo e non manifestamente infondata la sua contrarietà alla norma costituzionale che obbliga il Legislatore all’osservanza dei vincoli “comunitari”. D’altronde, se non vi fosse il criterio della disapplicazione, l’ordinamento costringerebbe il giudice a quo a sollevare la q.l.c. con riferimento all’art. 117 Cost. per risolvere il contrasto; il fatto che vi sia uno strumento diffuso e snello nelle mani di ogni giudice a quo (disapplicazione) non può comportare la permanente convalescenza di una norma interna dell’ordinamento destinata ad acuirsi ogni qualvolta debba essere obbligatoriamente applicata da chi di dovere (pubblico dirigente).

L’uso dello strumento disapplicativo in questi casi particolari si pone in contrasto anche con il principio di imparzialità e buona andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 della Costituzione e con il principio di eguaglianza-ragionevolezza ex art. 3 Cost., perché determina una disparità tra tutti i dipendenti pubblici, esattamente tra coloro che impugnano il provvedimento applicativo della norma interna sul pensionamento e coloro che si astengono. Inoltre, la situazione di incertezza che viene a crearsi per le pubbliche amministrazioni che sono chiamate obbligatoriamente ad applicare la norma interna nonostante la sua contrarietà unionale, si pone in netto contrasto con il principio di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici che trovano in entrambi gli ordinamenti un aggancio normativo; quindi, emerge un ulteriore contrasto con il principio di legalità ex art. 97 Cost. nell’agire delle pubbliche amministrazioni


[1] TAR Lecce 27/11/2020, n. 1321

[2] CGUE 22/06/1989, 103/88 sentenza Costanzo.

[3] Il testo virgolettato è proprio della sentenza Tar Lecce cit.

[4] Tribunale di Napoli sez. lavoro 29/04/2021, n. 2868

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