All’interno del contratto quadro per prestazione di servizi di investimento e deposito titoli a custodia e amministrazione di numerosi istituti di credito, sono presenti talune clausole che disciplinano il diritto di ritenzione[1] e realizzo[2] dell’intermediario sui titoli detenuti dal cliente in caso di inadempimento da parte dello stesso.
In base a tali clausole, la banca, a garanzia di qualunque suo credito verso il correntista debitore, presente o futuro ed anche se non liquido ed esigibile, è investita del diritto di ritenzione – in taluni casi si parla anche di diritto di pegno – su tutti i titoli o valori di pertinenza del correntista debitore, che siano comunque e per qualsiasi ragione detenuti dalla banca stessa o provengano ad essa successivamente.
Il tema che ci prefiggiamo di analizzare è in cosa si sostanziano tali diritti e, in particolare, se sia legittima la condotta dell’intermediario che faccia derivare dal diritto di ritenzione il diritto di vendita – ius vendendi – dei titoli del cliente.
Contratto di deposito titoli in amministrazione e privilegio sopra determinati mobili
L’art. 1838 del Codice Civile definisce il contratto di deposito titoli in amministrazione come quel contratto in base al quale la banca assume il deposito di titoli in amministrazione con l’obbligo di custodirli e di gestirli dal punto di vista amministrativo, in cambio di un compenso.
Si considera che in esso vi siano pertanto due cause negoziali e cioè quella del deposito, per quel che concerne l’attività di custodia dei titoli, e quella del mandato, per quel che invece riguarda le attività gestorie dei titoli (esazione dividendi, riscossioni per conto del depositante, tutela dei diritti inerenti ai titoli).[3]
Le clausole del contratto quadro per prestazione di servizi di investimento e deposito titoli a custodia e amministrazione di numerosi istituti di credito richiamano gli articoli 2756, commi 2-3 e 2761, commi 3-4 del Codice Civile in tema di privilegi sopra determinati mobili al fine di fondare il loro diritto di realizzo titoli, cioè di vendere un determinato quantitativo di titoli del cliente inadempiente per soddisfare, in tutto o in parte, un proprio credito.
Il privilegio costituisce una causa legittima di prelazione e consente al creditore di ritenere la cosa soggetta al privilegio stesso finché il suo credito non trovi soddisfazione e anche di venderla secondo le norme stabilite per la vendita del pegno. Più precisamente, il creditore in tali casi è da considerarsi “preferito” rispetto ai creditori chirografari ai fini della distribuzione del ricavato della vendita forzata dei beni gravati da privilegio.
Il privilegio speciale, cioè sussistente sopra determinati beni mobili ben definiti, è un diritto reale di garanzia caratterizzato dalla realità, ossia dall’incorporazione tra il diritto e il bene, trovandosi esso nel possesso del creditore.
L’art. 2761 Codice Civile[4], avente ad oggetto “Crediti del vettore, del mandatario, del depositario e del sequestratario” al 3° comma stabilisce la sussistenza di un privilegio speciale a favore del depositario o del sequestratario convenzionale sulle cose da loro detenute per effetto del deposito o del sequestro, in conseguenza dei crediti derivanti da tali rapporti: si pensi ad esempio all’eventuale compenso spettante al depositario o al sequestratario per lo svolgimento del loro servizio oppure all’indennità dovuta per le perdite loro cagionate.
Il privilegio in discorso sussiste anche sui depositi bancari, salvo che la banca abbia acquistato, per effetto del deposito, la disponibilità della cosa (c.d. deposito irregolare).
L’art. 2756 Codice Civile[5], avente ad oggetto i “Crediti per prestazioni e spese di conservazione e miglioramento”, al 3° comma, relativamente ai crediti per prestazioni e spese concernenti il miglioramento e la conservazione dei beni mobili, prevede il diritto in capo al creditore di ritenere la cosa soggetta al privilegio fino alla completa soddisfazione del suo credito.
Di fatto, tale privilegio speciale può essere equiparato al pegno a fronte del vincolo di destinazione del bene al soddisfacimento del credito che si viene a creare, e del fatto che all’inadempimento fa seguito l’applicazione di un meccanismo espropriativo.
Tanto premesso, va considerato che l’effetto del privilegio, e cioè il diritto per il creditore di ritenere le cose del debitore a titolo di garanzia, è riconosciuto solo nei casi previsti dalla legge e non può essere applicato analogicamente[6] al di fuori di essi, contrariamente la condotta del creditore dovrebbe considerarsi illegittima[7].
Analogamente, anche per quanto riguarda la ritenzione, di cui tratteremo più diffusamente di seguito, essa è da considerarsi compatibile e conforme all’ordinamento quando è prevista nell’ambito dei crediti vantati dalla banca verso il cliente per spese connesse all’esecuzione di un contratto di deposito o di mandato[8].
Relativamente a tali casi tipici di ritenzione previsti dal legislatore si possono rilevare talune caratteristiche peculiari dell’istituto, come ad esempio la disponibilità materiale del bene che si intende ritenere, l’accessorietà rispetto all’esistenza di un diritto di credito certo ed esigibile, anche se non necessariamente liquido, la connessione tra credito e cosa ritenuta ed infine la provvisorietà in base alla quale la ritenzione perdura solo fino a che dura l’inadempimento connesso al bene oggetto della mancata restituzione.
Al contrario, nel momento in cui si fuoriesce dal quadro legislativo pretendendo di fondare il diritto di ritenzione su base meramente contrattuale, viene meno il collegamento tra la causa del credito e il bene oggetto della ritenzione stessa, e quest’ultima viene a configurarsi come una sorta di garanzia.
Diritto di ritenzione e rapporto con lo ius vendendi
Evidenziato il contenuto dei suddetti articoli del Codice Civile, presi spesso, come detto, a fondamento del diritto degli istituti di credito di soddisfare il loro credito trattenendo i beni del debitore inadempiente a titolo di garanzia e addirittura vendendoli, passiamo ora ad analizzare i profili di legittimità di tale condotta.
Come già indicato nelle premesse, ciò che particolarmente interessa è verificare il rapporto esistente tra il diritto di ritenzione della banca e il suo diritto di realizzo dei beni depositati presso la stessa (“ius vendendi”), con particolare riguardo ai titoli presenti nel dossier del cliente.
L’approfondimento di tale specifico tema prende necessariamente le mosse dall’analisi di alcune decisioni assunte dall’ABF sul tema in questione[9].
La più significativa, seppur risalente nel tempo, resta ancora quella presa dal Collegio di Coordinamento dell’ABF n. 4808 del 20.09.2013, attivato a seguito di ordinanza emessa dal Collegio di Roma del 23.05.2013.
Nei fatti, il ricorso era stato presentato da una società titolare di alcune linee di credito e dalla socia, titolare di un rapporto di conto corrente e di una polizza titoli, garante verso la banca. La società ricorrente era stata precedentemente messa in liquidazione e aveva un debito residuo nei confronti della banca resistente derivante dal mancato pagamento di n. 8 rate del finanziamento chirografario.
Erano successivamente state avviate delle trattative per la formulazione di un piano di rientro ma, nelle more, la banca agiva per far valere il proprio credito inviando alla società ricorrente dei telegrammi in cui comunicava l’intervenuta revoca degli affidamenti e intimando alla socia, in qualità di garante, il pagamento del debito residuo.
A seguire, la banca comunicava l’intenzione di far valere un “diritto di ritenzione” nell’ipotesi in cui la socia non avesse pagato a stretto giro quanto richiesto. Sulla base di ciò, la banca, dopo aver provveduto ad un’operazione di smobilizzo titoli presenti nella polizza titoli della socia, prelevava dal conto corrente personale della medesima intrattenuto con la banca una determinata somma a titolo di compensazione dei debiti della società ricorrente[10].
Il Collegio di Roma, chiamato, tra l’altro, a pronunciarsi in merito alla legittimità del comportamento della banca resistente, rilevando nella vendita dei titoli operata dalla banca, al fine di soddisfarsi sul netto ricavo, un travalicamento rispetto alla funzione e ai limiti tipici del diritto di ritenzione, e mancando precedenti specifici in materia, aveva ritenuto opportuno investire della questione il Collegio di Coordinamento.
Quest’ultimo, condividendo la posizione assunta dal Collegio di Roma, ha evidenziato la contrattualizzazione tra le parti di una fattispecie di garanzia reale atipica in favore della banca resistente, al fine di raggiungere un effetto assimilabile alla c.d. clausola di pegno omnibus[11].
Una siffatta clausola era stata a suo tempo inserita nelle Norme Bancarie Uniformi[12] volte a regolare i conti correnti di corrispondenza e servizi connessi.[13].
Una parte della dottrina[14] non considera il c.d. pegno omnibus come una garanzia reale, mancando appunto il requisito essenziale della connessione tra il credito e la cosa detenuta, e lo valuta pertanto inammissibile e, tutt’al più, lo considera come uno strumento di pressione esercitato dal retentor nei confronti del debitore.
Secondo un’altra corrente[15] il pegno omnibus sarebbe valido, sulla base della considerazione per cui la costituzione del pegno sarebbe una fattispecie complessa a formazione progressiva per cui, accettando la clausola, il cliente presterebbe il proprio consenso alla costituzione in pegno di tutti i beni che potrebbero pervenire all’istituto di credito; con l’effettiva entrata dei beni nella disponibilità della banca si avrebbe il perfezionamento del pegno e il preventivo consenso del cliente fungerebbe da titolo idoneo a fondare l’animus possidendi del creditore pignoratizio.
Sempre in tema di pegno omnibus, si rileva infine come la giurisprudenza di merito e di legittimità in più occasioni[16] abbiano negato la possibilità di pattuire una clausola di questo tipo in favore della banca che prevedesse il generico riferimento “ad ogni altro eventuale credito presente e futuro, diretto o indiretto, vantato dal creditore”, nella convinzione si tratti di una clausola di stile, affetta da nullità e quindi inopponibile ai terzi, salvo il caso in cui nell’atto costitutivo della garanzia sia almeno indicato il criterio di determinazione del credito garantito.
Fatte queste premesse e tornando quindi al tema oggetto della nostra analisi, nella fattispecie oggetto di esame da parte del Collegio di Coordinamento, vi era un rapporto molto stretto tra il diritto di ritenzione e lo jus vendendi; dalle motivazioni della decisione del Collegio stesso appare pacifico che vi sia stato un travalicamento delle funzioni e dei limiti caratteristici del mero diritto di ritenzione, nella misura in cui veniva attribuito alla banca, ricorrendo determinate condizioni, il diritto di vendere i titoli detenuti dal cliente nel proprio deposito titoli soddisfacendosi così sul netto ricavo.
Su tale punto si rileva come, pur riconoscendosi la possibilità giuridica di una clausola di questo tipo, si sia più volte affermato che dal diritto di ritenzione non può derivare automaticamente anche lo jus vendendi, consistendo esso semplicemente nel diritto di rifiutare la restituzione del bene dovuto.
Secondo una certa posizione assunta dalla dottrina[17] e della giurisprudenza[18], il diritto di ritenzione agisce come una forma di autotutela con efficacia erga omnes da parte dell’intermediario finanziario che, da un lato, rende indisponibile il bene in detenzione e, dall’altro, non essendo accompagnato appunto dal diritto di vendere, esercita un effetto di pressione psicologica sul cliente debitore, inducendolo all’adempimento.[19]
A tal proposito, è interessante la precisazione offerta dal Collegio di Coordinamento dell’ABF secondo cui, in uno stato ormai avanzato di dematerializzazione dei titoli, il diritto di ritenzione si manifesta sostanzialmente nel rifiuto dell’intermediario di eseguire un ordine di trasferimento del titolo ad altro intermediario, bloccando di fatto la circolazione degli strumenti finanziari, piuttosto che in un mero rifiuto di restituzione al titolare.
La suddetta posizione trova il suo fondamento nel fatto che il diritto di ritenzione discende da una posizione di mera detenzione sul bene mentre invece lo jus vendendi è prerogativa del proprietario del bene e, solo in via eccezionale, tale diritto può essere trasferito ad altri che abbiano acquistato dal proprietario un diritto reale di garanzia sul bene stesso[20].
Può verificarsi che il diritto di disporre del bene sia stato conferito dal proprietario ad altri soggetti terzi mediante mandato ma, in tal caso, si richiede che gli elementi costitutivi di tale negozio giuridico siano identificati o almeno identificabili.
A tal proposito il Collegio rileva che, qualora il diritto di disporre della cosa fosse attribuito dal proprietario con mandato, sarebbe necessario che fossero ben definiti gli elementi costitutivi di tale negozio; in assenza di ciò, l’eventuale vendita operata dal retentor potrebbe configurare addirittura la fattispecie dell’appropriazione indebita, disciplinata dall’art. 646 Codice Penale[21].
Il Collegio di Coordinamento evidenzia che quando il diritto di ritenzione non poggia su basi legali, così come avviene nei casi espressamente disciplinati dai combinati articoli n. 2761, comma 2 e 3, e 2756, comma 3, del Codice Civile sopra analizzati, relativi a crediti che la banca vanta nei confronti del cliente per spese relative all’esecuzione del contratto di deposito o di mandato, bensì su basi meramente contrattuali, viene meno il rapporto di reciprocità e connessione tra la causa del credito e il bene oggetto della ritenzione.
Ne consegue in tali casi che, come sopra rilevato, il diritto di ritenzione non si ricollega al principio di buona fede e assume una funzione di garanzia atipica, disconnessa da un diritto di preferenza o di vendita.
Ulteriori considerazioni svolte dal Collegio di Coordinamento in merito alla clausola contestata, invocata dalla resistente, riguardano i profili legati alla trasparenza e al lessico utilizzato.
Con riguardo a ciò, la formulazione della clausola e l’utilizzo di termini indefiniti e atecnici, come a titolo esemplificativo “realizzo”, sarebbero secondo l’organismo decidente non conformi al dovere di trasparenza dell’intermediario nei confronti della clientela[22], in particolare nel dovere di formulare le clausole contrattuali in modo chiaro e comprensibile[23].
Secondo il Collegio infatti la clausola in esame non chiarisce quale sia la causa e quali i limiti dello ius vendendi attribuito all’intermediario resistente e relativo ai titoli e valori affidatigli in custodia o amministrazione.
Il Collegio ha rilevato che nella clausola in esame, il diritto di ritenzione e di vendita sono concessi alla banca depositaria per crediti nascenti da altri rapporti rispetto al contratto di deposito titoli.[24]
In linea più generale, va altresì rilevato che tale clausola è carente in materia di trasparenza anche a causa del suo mancato aggiornamento dal punto di vista lessicale; a fronte dei recenti fenomeni di dematerializzazione e internalizzazione dei servizi di custodia e amministrazione di titoli e valori mobiliari, il mantenimento nel testo esaminato dal Collegio di un lessico risalente a 30 anni fa, non fa che confondere rispetto ai canoni di condotta richiesti agli intermediari in tema di trasparenza contrattuale.
Il Collegio evidenzia che, se la vertenza avesse riguardato un consumatore, si sarebbe dovuto considerare la clausola sicuramente come vessatoria, in quanto caratterizzata da uno squilibrio normativo, tra diritti e obblighi delle parti[25].
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Collegio di Coordinamento dell’ABF n. 4808 del 20.09.2013 è giunto alla conclusione che la clausola invocata dalla banca resistente dovesse ritenersi nulla, principalmente a causa dell’astrattezza della causa giuridica alla base dello ius vendendi attribuito alla banca.
A sostegno della suddetta conclusione, per quanto sopra evidenziato, giova richiamare anche la palese contrarietà della clausola in esame agli interessi del cliente e all’integrità e buon funzionamento dei mercati, ed il suo utilizzo in qualità di diritto reale di garanzia atipico[26].
Nel caso concreto oggetto della nostra analisi, la conseguenza di tale nullità è stata che l’intermediario è stato tenuto alla reintegrazione dei titoli venduti nel deposito titoli della garante ricorrente, fatti salvi i diritti di credito spettanti all’intermediario stesso[27].
Le medesime argomentazioni sono state pedissequamente riprese anche da altri Collegi dell’Arbitro Bancario Finanziario, come ad esempio il Collegio di Napoli che, chiamato a verificare la legittimità del comportamento di una banca accusata di aver improvvisamente e arbitrariamente liquidato i titoli azionari in giacenza del ricorrente a parziale compensazione – mediante il ricavato della vendita – del saldo negativo del conto corrente, con sua decisione n. 5146 del 30 giugno 2015 ha dichiarato l’intermediario resistente tenuto a reintegrare nel deposito della parte ricorrente i titoli venduti, fatti salvi i diritti di credito spettanti all’intermediario stesso.[28]
Conclusioni: linea di condotta dell’intermediario
Alla luce delle considerazioni elaborate dalla dottrina, delle pronunce dei tribunali e delle decisioni dell’ABF – Arbitro Bancario Finanziario prima indicate, appare pertanto pacifica l’illegittimità, dal punto di vista teorico, della condotta dell’intermediario finanziario che esercita lo jus vendendi dei titoli del cliente debitore come diretta conseguenza del diritto di ritenzione sugli stessi.
Pertanto, ciò che si considera opportuno la banca si limiti a fare, in caso di inadempimento del cliente titolare di titoli presso di essa, è semplicemente rifiutare il trasferimento dei titoli presso altri intermediari fintanto che il cliente correntista debitore non abbia estinto il proprio debito.
Qualora infatti la banca si arrogasse il diritto di vendere in autonomia i titoli del cliente, è opinione diffusa quella secondo cui essa potrebbe essere tenuta a ripristinare la situazione antecedente alla vendita, procedendo operativamente alla reintegrazione dei titoli alienati nel dossier titoli del cliente.
Si tenga presente comunque che, pur essendo parere ampiamente condiviso quello per cui è da considerarsi illegittima la condotta dell’intermediario che converte in denaro i titoli altrui, è indubitabile che lo stesso non debba perdere il suo diritto di credito che rimane infatti assolutamente confermato.
Con riguardo agli strumenti a disposizione della banca per far valere i propri diritti di credito, merita fare un breve accenno anche alla compensazione[29].
In presenza di più rapporti o più conti di qualsiasi genere o natura intercorrenti tra l’intermediario finanziario ed il cliente correntista debitore, la compensazione opera automaticamente sin dal momento della coesistenza di reciproci rapporti di debito e credito quando questi sono omogenei (aventi lo stesso oggetto), liquidi (esattamente determinati nel loro ammontare) ed esigibili (non sottoposti a termine o a condizione).
Tanto premesso, va rilevata la difficoltà per la banca di attivare, in maniera automatica e diretta, lo strumento della compensazione in presenza di titoli detenuti dal debitore; di fatto, in tal caso, l’intermediario potrebbe agire in compensazione, solo a fronte di autorizzazione del titolare alla liquidazione dei titoli, sulle somme rivenienti dalla vendita degli stessi.
Da un punto di vista pratico, è da considerarsi il fatto che, per l’intermediario finanziario retentor, tale situazione di stallo può protrarsi a tempo indeterminato fino all’effettivo ripianamento dei debiti da parte del cliente; ciò può essere penalizzante per la banca che non è in grado efficacemente di far valere le proprie ragioni creditorie nei confronti di clienti inadempienti che hanno disponibilità economiche investite in azioni, titoli o fondi presso di essa.
E’ proprio in tale ottica che alcuni istituti di credito hanno adottato delle soluzioni “ibride”, ossia atte a consentire loro di non restare passivi nella situazione sopra descritta agendo concretamente per far valere il loro credito ma che, allo stesso tempo, non si discostino dalla normativa e dagli orientamenti giurisprudenziali sopra esaminati.
A tal proposito, un primo istituto giuridico idoneo a tale scopo è stato ritenuto quello del mandato “in rem propriam” di cui all’art. 1723 C.C., cioè del mandato conferito anche nell’interesse del mandatario.
Tale soluzione, pur non essendo perfettamente aderente all’orientamento prevalente sopra ampiamente descritto, è, agli occhi di molti operatori del settore bancario, quella che consente agli istituti di credito le maggiori possibilità di difesa in caso di contestazione da parte della clientela.
Alcuni istituti di credito infatti hanno previsto all’interno del “Contratto quadro per prestazione di servizi di investimento e deposito titoli a custodia e amministrazione” un’apposita clausola con cui il cliente depositante conferisce espressamente alla banca un mandato irrevocabile, ai sensi dell’art. 1723 C.C. affinché la stessa possa, in nome e per conto del depositante, realizzare anche a proprio favore i titoli presenti nel deposito.
La figura del mandato in rem propriam si caratterizza per il fatto che il fine delle parti non è solo la realizzazione dell’interesse del mandante bensì anche del mandatario. Tale negozio è utilizzato a scopo di garanzia oppure con finalità solutoria non diversamente da quanto accade con la cessione di credito.
La distinzione tra queste due figure contrattuali è però netta, come emerge dalla giurisprudenza[30] ed anche dalla dottrina[31].
Infatti, la cessione di credito produce l’immediato trasferimento della posizione attiva del rapporto obbligatorio ad un nuovo e diverso soggetto, che si sostituisce all’originario creditore e diviene in tutto e per tutto l’unico soggetto legittimato a prendere la prestazione. Di contro, il mandato in rem propriam conferisce al mandatario solo la legittimazione alla riscossione del credito in nome e per conto del mandante, il quale ne conserva la titolarità esclusiva, risultando assente qualsiasi trasferimento patrimoniale di diritti di credito tra le sfere giuridiche delle parti contrattuali.
Pertanto l’essenza del mandato in rem propriam all’incasso sta nell’attribuzione alla banca mandataria della mera legittimazione a riscuotere un credito la cui titolarità rimane in capo al mandante.
Si evidenzia comunque che il suddetto strumento non libera la banca dagli obblighi conseguenti ad un eventuale pignoramento presso terzi a carico del cliente debitore che le venisse notificato prima di aver effettivamente incamerato le somme nella propria contabilità.
Va considerata infatti l’ulteriore problematica per cui le azioni di recupero del credito da parte delle banche sono spesso ostacolate da pignoramenti presso terzi notificati alle stesse e relativi a clienti in situazione debitoria deficitaria.
Ciò considerato, una seconda soluzione che appare adatta a fronteggiare tale situazione è rappresentata dalla possibilità per la banca, prima di ricevere dal creditore procedente la notifica dell’eventuale pignoramento nei confronti del proprio cliente, di effettuare essa stessa un atto di pignoramento contro il proprio debitore assumendo pertanto la duplice condizione di creditore e di terzo pignorato.
Agendo in tal modo, la banca si trova a rivestire il duplice ruolo di debitore e creditore e può entrare nella disponibilità dei beni oggetto del pignoramento secondo le normali regole del processo esecutivo.
Dottrina e giurisprudenza pacificamente ammettono la pignorabilità di cose del debitore che si trovino presso il creditore, o di crediti del debitore nei confronti del creditore, il quale ultimo assumerà quindi anche la posizione di terzo[32].
Pertanto, il creditore pignorante farà notificare a sé stesso quale debitor debitoris, oltre che all’esecutato, l’atto di pignoramento, assumerà gli obblighi di custodia previsti dall’art. 546 C.P.C. e sarà tenuto a rendere la dichiarazione.[33]
[1] Cfr. C.M. Bianca, Diritto Civile, Le Garanzie, Milano 2012 299, infra sez. IV: il diritto del creditore di tenere presso di sé una cosa e di rifiutarne la restituzione fino al pagamento del proprio credito.
[2] Diritto di vendere direttamente i titoli e gli altri strumenti finanziari di pertinenza del cliente.
[3] ABF – Collegio di Napoli del 02.04.2010, infra sez. III : il Collegio ha rilevato che, con l’intensificarsi del fenomeno della dematerializzazione dei titoli, cioè la trasformazione dell’emissione e della circolazione dei titoli su supporto cartaceo in titoli virtuali, cioè in scritture contabili presso un intermediario o una società di gestione accentrata, la funzione di custodia dei titoli abbia assunto una rilevanza inferiore rispetto a quella di gestione dei titoli stessi.
[4] Art. 2761 C.C. : I crediti dipendenti dal contratto di trasporto [1678] e quelli per le spese d’imposta anticipate dal vettore hanno privilegio sulle cose trasportate finché queste rimangono presso di lui .
I crediti derivanti dall’esecuzione del mandato hanno privilegio sulle cose del mandante che il mandatario detiene per l’esecuzione del mandato.
I crediti derivanti dal deposito o dal sequestro convenzionale [1798] a favore del depositario e del sequestratario hanno parimenti privilegio sulle cose che questi detengono per effetto del deposito o del sequestro.
Si applicano a questi privilegi le disposizioni del secondo e del terzo comma dell’articolo 2756 [2747, 2797; 502 c.p.c.; l.f. 53]
[5] Art. 2756 C.C.: I crediti per le prestazioni e le spese relative alla conservazione o al miglioramento di beni mobili [1152] hanno privilegio sui beni stessi, purché questi si trovino ancora presso chi ha fatto le prestazioni o le spese [2778 n. 4].
Il privilegio ha effetto anche in pregiudizio dei terzi che hanno diritti sulla cosa [1153, 2747], qualora chi ha fatto le prestazioni o le spese sia stato in buona fede.
Il creditore può ritenere la cosa soggetta al privilegio finché non è soddisfatto del suo credito e può anche venderla secondo le norme stabilite per la vendita del pegno [2797; 502 c.p.c.; l.f. 53]
[6] Cfr. Cass., S.U., 17 maggio 2010 n. 11930: In tema di ammissibilità della applicazione analogica delle norme che prevedono cause di prelazione, occorre ricordare che i) a fronte di una norma attributiva di un privilegio non è consentito utilizzare lo strumento ermeneutico per introdurre, sia pur in considerazione del rilievo costituzionale di un determinato credito, una causa di prelazione ulteriore, che implicherebbe la configurazione di un autonomo modulo normativo che codifichi la tipologia del nuovo privilegio ed il suo inserimento nel sistema di quelli preesistenti: si tratta di una scelta economico-politica riservata al legislatore; ii) per converso, è ammissibile l’utilizzabilità di detto strumento non solo nei limiti consentiti dalla massima espansione della portata semantica dell’espressione legislativa, ma anche quando l’estensione della norma a un caso non compreso nella lettera legislativa sia giustificata da un giudizio di meritevolezza del medesimo trattamento, fondato sulla ratio legis indipendentemente dalla somiglianza al caso previsto; iii) il confine tra le due fattispecie è costituito dalla “causa” del credito che, ai sensi dell’art. 2745 c.c., rappresenta la ragione giustificatrice della creazione di qualsiasi privilegio, perciò valendo a determinare l’ambito oggettivo e soggettivo e che viene così ad assumere l’ulteriore ruolo di limite alla portata espansiva delle relative disposizioni.
[7] Cfr. Decisione ABF 4808/2013 e 5146/2015: secondo il Collegio di coordinamento dell’ABF, e successivamente anche il Collegio di Napoli, “il diritto di far vendere secondo le regole di cui all’art. 2797 C.C., previsto dall’art. 2756, 3° comma C.C., si connette alla sussistenza di un privilegio speciale e non al diritto di ritenzione”
[8] In tali casi agiscono gli articoli 2671, comma 2 C.C. e 3 e 2756,comma 3 C.C., i quali espressamente prevedono che il creditore sia munito di diritto di ritenzione e di privilegio ed anche del diritto di procedere alla vendita nei limiti previsti per la vendita del pegno.
[9] Cfr. Decisione ABF Collegio di Coordinamento 4808 del 20.09.2013, decisione ABF Collegio Milano n. 2871 del 09.05.2014 e decisione ABF Collegio Napoli n. 5146 del 30 giugno 2015.
[10] La banca resistente invocava l’applicazione della clausola contrattuale di “ritenzione e realizzo” sottoscritta dal cliente ex art. 1341 C.C. che così recitava: «1. Quando esistano tra la Banca ed il Cliente più rapporti di qualsiasi genere o natura, anche di deposito, ancorché intrattenuti presso altre Dipendenze italiane ed estere, laddove i medesimi presentino saldi negativi, nonostante l’invito della Banca a rimuovere tale situazione, a quest’ultima senza pregiudizio per qualsiasi altro suo diritto od azione, viene riconosciuto il diritto di ritenzione e di conseguente realizzo dei titoli depositati sulla polizza e/o sub depositati presso la “Monte Titoli S.p.A.” e/o altri organismi e, conseguentemente, compensare con il netto ricavo – così come previsto dall’art. 6. Commi IV e V – del suo credito e ciò in qualunque momento e senza obbligo di preavviso e/o formalità».
[11] In linea generale, si fa riferimento a quella forma di pegno costituita dal cliente al fine di garantire la banca anche per i crediti futuri ed eventuali, ancorché non liquidi ed esigibili, che la banca stessa potrà vantare nei suoi confronti, venendosi a creare una situazione di indeterminatezza rispetto al credito garantito.
Trattasi di quella clausola in base alla quale la banca gode del diritto di ritenere tutti i valori o titoli del correntista e già da essa detenuti a qualsiasi titolo o pervenuti ad essa anche successivamente, ad estinzione di un credito.
[12] Schemi contrattuali elaborati nel 1952 dall’ABI con la collaborazione della quasi totalità delle imprese bancarie al fine di tipizzare e standardizzare le operazioni e le condizioni bancarie dalle stesse praticate.
Si trattava di fonti del diritto obiettivo, distinte dagli usi negoziali, alle quali non era riconosciuta natura normativa, essendo semplici proposte di condizioni generali di contratto con natura pattizia.
[13] L’art. 5 delle Norme Bancarie Uniformi così stabiliva: «L’Azienda di credito, in garanzia di qualunque suo credito verso il correntista, presente e futuro, anche se non liquido ed esigibile ed anche se cambiario, è investita di diritto di pegno e di diritto di ritenzione su tutti i titoli o valori di pertinenza del correntista che siano comunque e per qualsiasi ragione detenuti dall’Azienda di credito o pervengano ad essa successivamente»
[14] Cfr. A.A. Dolmetta, Clausola c.d. di pegno «omnibus», in Rivista di Diritto Bancario, dirittobancario.it, 3, 02/2014.
[15] Cfr. P. Marano, Pegno bancario e fallimento, in Banca borsa, Milano, 2000, I, 157 ss.; G.E. Colombo, Pegno bancario; le clausole di estensione, la prova della data, ivi, Banca borsa, Milano, 1982, I, 193 ss., 201.
[16] Cass, Sez. I, sentenza 7871 dell’11.08.1998 – Fallimento Immobiliare Bioglio vs Nagrafin – Ivi si legge che: “l’apposizione, ad un contratto di pegno, di una clausola contenente un generico riferimento “ad ogni altro eventuale credito presente e futuro, diretto o indiretto, vantato dal creditore” oltre alla puntuale indicazione di quello per il quale il pegno risulti convenuto, benché affetta da nullità per contrarietà al disposto dell’art. 2787, comma terzo, cod. civ., non travolge “ipso facto” la efficacia della prelazione pignoratizia anche con riferimento al singolo credito specificamente e ritualmente indicato nel contratto qualora il giudice di merito, in applicazione di tutti i parametri interpretativi funzionali alla individuazione della “essenzialità” o meno della singola pattuizione al fine di dichiarare la nullità dell’intero atto ovvero solo quella, parziale, della clausola viziata (interpretazione della volontà delle parti; ricostruzione oggettiva della perdurante utilità del negozio dopo la rimozione della clausola nulla; mancata prova dell’inesistenza al mantenimento del contratto da parte dell’interessato), pervenga alla conclusione che la singola convenzione rappresenti null’altro che una clausola di stile (attesane, tra l’altro, la predisposizione a stampa), la cui nullità parziale non si comunica all’intero negozio. L’apprezzamento in proposito formulato, se adeguatamente e razionalmente motivato, non è censurabile da parte del giudice di legittimità”.
Cass. civile, sez. I, n. 7214/2009, secondo cui il pegno omnibus è una forma particolare di pegno affetta da nullità se e nella misura in cui omette di di identificare, sia pure per relationem, l’oggetto della garanzia e il credito garantito.
Vedansi anche Cass. civile, sez. I, 19 marzo 2004, n. 5561 e Cass. civile, sez. I, 7 novembre 1996 n. 9727 secondo le quali, ai fini della determinazione del credito garantito, hanno considerato generico e quindi insufficiente il semplice rinvio a “tutti i crediti bancari derivanti da affidamenti in valuta” nonché alle “linee di credito accordate dalla banca”.
Cass. civile, sez. I, 05 Agosto 2019, n. 20895: Ai fini del giudizio di eventuale propagazione della nullità parziale ex art. 1419 cod. civ., per stabilire il ruolo che le condizioni generali di un contratto bancario assegnano alla clausola di pegno omnibus non risulta determinante la presenza, nel medesimo contratto, di altre clausole che pongono dei beni alla specifica sicurezza di talune voci di credito. La costante presenza (da tempi remoti) della clausola omnibus nei moduli contrattuali predisposti dalle banche manifesta come tale clausola rivesta, in linea di principio, carattere connotativo del «fare credito» di questo tipo di imprese.
Tribunale Milano, sez. II, Decr. 30.07.2019: Deve dichiararsi la nullità, per carenza del requisito della sufficiente indicazione del credito garantito di cui all’artt. 2787, co. 3, c.c., del c.d. pegno omnibus, vale a dire prestato a garanzia di un credito non determinato, né determinabile (nella specie, il Tribunale ha dichiarato la nullità di vincoli e pegni su polizze costituiti “a garanzia di ogni altro credito – anche se non liquido ed esigibile ed anche se assistito da altra garanzia, reale o personale – già in essere o che dovesse sorgere a favore della Banca verso il debitore, rappresentata dal saldo passivo di conto corrente e/o dipendente da operazioni bancarie di qualunque natura”).
Tribunale Roma, sentenza 16 maggio 2018: La clausola inserita nella lettera di pegno che si presenta come clausola omnibus generica, in quanto, oltre al conto corrente specificamente individuato, fa riferimento ad eventuali ulteriori crediti in modo indefinito, senza far riferimento alcuno ad una fonte precisa e determinata, è nulla per violazione del disposto di cui all’art. 2787, comma 3, c.c.. Ai fini della validità del contratto, invero, è necessaria la determinazione o determinabilità del credito, la quale postula l’individuazione non solo dei soggetti del rapporto, ma anche della sua fonte.
[17] Cfr. M. Bessone, Istituzioni di Diritto Privato, Giappicelli Editore, Torino, 2009, p. 1169., C.M. Bianca, Autotutela, in Enc. dir., Milano, 2000, 138.
[18] Cass. civile, sez. III, 19 aprile 2010, n. 9267: Il diritto di ritenzione, che è riconosciuto in via generale nell’art. 1152 cod. civ. e si configura come situazione non autonoma ma strumentale all’autotutela di altra situazione attiva generalmente costituita da un diritto di credito, è contemplato in favore dell’affittuario di fondo rustico nell’art. 20 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (così come lo era, già, nell’art. 15 della precedente legge n. 11 del 1971) in stretta correlazione al diritto di credito per le indennità spettanti al coltivatore diretto per i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni da lui apportati al fondo condotto, sicché, presupponendo l’esistenza di un credito derivante dalle opere indicate e realizzate dal coltivatore diretto, non è scindibile dall’esistenza di detto credito o dall’accertamento di questo. Pertanto, eccepito dall’affittuario che si opponga all’esecuzione del rilascio di un fondo rustico il diritto di ritenzione a garanzia del proprio credito per i miglioramenti apportati al fondo, il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dall’affittuario, ma deve verificarne anche l’indennizzabilità, rigettando l’eccezione ove tale verifica dia esito negativo.
Cass. civile, sez. II, 28 gennaio 2005, n. 1741: Il chiamato all’eredità subentra al de “cuius” nel possesso dei beni ereditari senza la necessità di materiale apprensione, come si desume dall’art. 460 c.c. che lo abilita, anche prima dell’accettazione, alla proposizione delle azioni possessorie a tutela degli stessi, così come l’erede, “ex” art. 1146 c.c., vi succede con effetto dall’apertura della successione. Ne consegue che, nell’uno e nell’altro caso, instauratasi una situazione di compossesso sui beni ereditari, qualora uno dei coeredi (o dei chiamati) impedisca agli altri di partecipare al godimento di un cespite, trattenendone le chiavi e rifiutandone la consegna di una copia, tale comportamento – che manifesta una pretesa possessoria esclusiva sul bene – va considerato atto di spoglio sanzionabile con l’azione di reintegrazione. (Nella specie la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di merito che, dopo aver erroneamente qualificato come chiamato all’eredità un coerede che aveva trattenuto le chiavi di un immobile rientrante nell’asse ereditario, aveva escluso che tale comportamento, accompagnato dalla pretesa di possesso esclusivo del bene, costituisse violazione del compossesso dei coeredi, qualificandolo come “ritenzione da godimento esclusivo a titolo di comproprietà per effetto del meccanismo successorio”, senza considerare che la ritenzione è una forma eccezionale di autotutela insuscettibile di applicazione analogica fuori dalle ipotesi normativamente previste.
[19] Nel contratto di trasporto ad esempio la ritenzione gioca a favore del creditore esercitando in prima battuta una forma di tutela consistente nel fatto che – nel momento stesso in cui viene comunicata al debitore l’intenzione di esercitare il diritto di ritenzione – si esercita da subito una pressione psicologica in capo al debitore, il quale, avendo interesse alla riconsegna del bene oggetto del trasporto o del deposito, sarà maggiormente disposto ad effettuare spontaneamente il pagamento.
Cfr F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIV, Edizione, ESI, Napoli, 2009, pag. 676-678: il diritto di ritenzione non attribuisce alcun potere sul bene, di cui non si acquista la proprietà, nè la disponibilità, nè l’uso, ma solo è in grado di indurre il debitore ad adempiere, al fine di rientrare nella disponibilità della cosa.
Cfr. D.L. Gardani , Ritenzione (diritto di), in D. disc. priv. , sez. civ.. XVIII, Torino, 1998, 67.
[20] Cfr. Decisione 5146/15 ABF – Arbitro Bancario Finanziario: il diritto di vendere un bene è una prerogativa del suo proprietario, la quale eccezionalmente può essere trasferita, ma in forme limitate, a chi abbia acquistato dal proprietario un diritto reale di garanzia sul bene stesso; tuttavia, il diritto di ritenzione non è e non può essere un diritto reale, posto che esso si collega a, e dipende da, una posizione di mera detenzione.
La mera detenzione è pertanto insufficiente ad attribuire al creditore lo jus vendendi e le eventuali operazioni di vendita da parte del retentor potrebbero anche configurare la fattispecie dell’appropriazione indebita.
[21] Cfr. Cass. pen. Sez. II, 17.05.2001, n. 273561: «La condotta del titolare del diritto di ritenzione che non rispetti le formalità per la vendita della cosa sulla quale vanta un privilegio, integra gli estremi dell’appropriazione di cui all’art. 646 c.p. in quanto, in tal modo, muta illegittimamente la destinazione della cosa poiché il bene non viene conservato secondo le finalità consentite dalla legge ma viene fatto proprio in contrasto con la disciplina civilistica del diritto di ritenzione o comunque al di fuori della medesima».
Cass. pen., sez. II, 25.1.2002, n. 10774: L’omessa restituzione della cosa non realizza l’ipotesi di reato di cui all’articolo 646 del codice penale se non quando si ricollega oggettivamente ad un atto di disposizione uti dominus e soggettivamente all’intenzione di convertire il possesso in proprietà. Ne deriva che la semplice ritenzione precaria, attuata a garanzia di un preteso diritto di credito, conservando la cosa a disposizione del proprietario e condizionando la restituzione all’adempimento della prestazione cui lo si ritiene obbligato, non costituisce appropriazione perché non modifica la natura del rapporto giuridico fra il bene e la cosa. (Nella specie, la Suprema corte di cassazione ha annullato la sentenza di condanna che aveva ravvisato l’appropriazione indebita nella condotta di un commercialista cui si contestava la mancata restituzione della documentazione contabile ai clienti, sul rilievo che l’imputato, lungi dall’essersene appropriato, l’aveva comunque posta a disposizione della controparte e che l’omissione della materiale consegna era solo conseguenza della mancata corresponsione dell’onorario professionale).
Cass. pen., sez. II, 17.5.2001, n. 27356: Integra il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) la condotta del titolare di un diritto di ritenzione che venda i beni oggetto del privilegio senza rispettare le formalità per la vendita del pegno, così violando l’art. 2756 comma 3 c.c.
Cfr. Tribunale Rimini, 3 marzo 2016: “Non sussiste alcun diritto della banca di ritenere titoli detenuti dal proprio cliente, sul presupposto della sua qualità di garante di un terzo debitore verso la stessa banca, considerato che il diritto di ritenzione previsto dall’art. 1152 c.c., attuando una forma di autotutela di natura eccezionale, costituisce istituto insuscettibile di applicazione analogica.
Il comportamento posto in essere dai funzionari e dipendenti della banca, volto a respingere la richiesta del correntista di trasferire i titoli presso altra istituto bancario, integra il reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p.; detta ipotesi delittuosa è peraltro aggravata dal fatto che i titoli erano detenuti dalla banca a titolo di deposito, con conseguente procedibilità d’ufficio anche per aver commesso il fatto con abuso di autorità e di relazione d’ufficio. Il reato non è peraltro escluso dalla temporaneità della ritenzione (circa 70 giorni), essendo la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. applicabile anche ad ipotesi di appropriazione indebita per mero uso indebito del bene.”
Cfr. Cass. penale, sez. II, 17295/2011: Non integra il delitto di appropriazione indebita il creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore, eserciti a fini di garanzia del credito il diritto di ritenzione sulla cosa di proprietà di quest’ultimo legittimamente detenuta in ragione del rapporto obbligatorio, a meno che egli non compia sul bene atti di disposizione che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà.
[22] Cfr. Cass. civile, S.U., 19.12.2007, n. 26724, infra sez. III): La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito che la violazione dei doveri di informazione del cliente e del divieto di effettuare operazioni in conflitto di interesse con il cliente o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente stesso, posti dalla legge a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, non danno luogo ad una nullità del contratto di intermediazione finanziaria per violazione di norme imperative. Le suddette violazioni, se realizzate nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto, danno luogo a responsabilità precontrattuale con conseguente obbligo di risarcimento del danno; se riguardano, invece, le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto, danno luogo a responsabilità contrattuale per inadempimento (o inesatto adempimento), con la conseguente possibilità di risoluzione del contratto stesso, oltre agli obblighi risarcitori secondo i principi generali in tema di inadempimento contrattuale.
[23] Cfr. Art. 21 TUF – Testo Unico della Finanza: “Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati”.
[24] Vedi anche Cass. civ. Sez. I, 28/04/1997, n. 3654: Il risarcimento dei danni subiti a causa della vendita coattiva di un quantitativo di titoli, disposta dalla banca ai sensi dell’art. 2797 c.c., ancorchè illegittima, non può essere invocato dal proprietario dei titoli stessi che assuma la nullità della vendita, atteso che, se per espresso riconoscimento della parte interessata la vendita è nulla, i titoli sono ancora nel suo portafoglio e questa non ha determinato alcun effetto pregiudizievole al suo patrimonio.
[25] Cfr. art. 33, Codice del Consumo: “Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.” E ancora Cfr. art. 36, comma 1 Codice del Consumo: “Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.”
[26] Cfr. Cass. civile, sez. I, 25 marzo 2009, n. 7214: In tema di pegno a garanzia di crediti, il principio di accessorietà desumibile dall’art. 2784 cod. civ. comporta la nullità per difetto di causa dell’atto costitutivo della prelazione stipulato in relazione ad un credito non ancora esistente, ma non esclude, in applicazione analogica dell’art. 2852 cod. civ., l’ammissibilità della costituzione della garanzia a favore di crediti condizionali o che possano eventualmente sorgere in dipendenza di un rapporto già esistente; in quest’ultimo caso, peraltro, è necessaria, ai fini della validità del contratto, la determinazione o la determinabilità del credito, la quale postula l’individuazione non solo dei soggetti del rapporto, ma anche della sua fonte; ferma restando la validità e l’efficacia del contratto “inter partes”, comunque, la mera determinabilità del rapporto comporta l’inopponibilità del pegno agli altri creditori (ivi compreso il curatore, in caso di fallimento del soggetto che abbia costituito la garanzia), qualora, dovendo trovare applicazione l’art. 2787, terzo comma, cod. civ., manchi la sufficiente indicazione del credito garantito. (massima ufficiale).
Vadasi anche Cass. civile, sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1625: “così come in altre fattispecie, l’ordinamento permette la realizzazione coattiva dei diritti del creditore, purché sia tutelato pure il diritto del debitore a pagare al creditore quanto in effetti gli spetti”
[27] Con tale decisione il Collegio di coordinamento non ha voluto comunque negare all’intermediario il proprio diritto di credito né tanto meno quello di esercitare la compensazione.
[28] Cfr. Cass. civile, sez. I, 20.11.1992, n. 12401: La semplice ed unilaterale attribuzione patrimoniale non può in alcun caso assurgere a causa giuridica del negozio, in quanto non consente di identificarne lo scopo e stabilirne, di conseguenza, la rilevanza socio-economica e, in ultima analisi, la liceità; ne consegue che il contratto col quale si trasferisca ad altri un bene, senza specificazione del titolo di tale trasferimento, non è assumibile, perciò, nella nozione di contratto atipico e resta, quindi, un atto nullo per mancanza di causa.
Cass. civile, S.U., 18.2.2010, n. 3947, infra, sez. III: il concetto di garanzia presuppone ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che deve essere garantito
[29] Cfr. Cass. Civile, Sezione I, sentenza 31 maggio 2016 n. 11259: “ Secondo l’interpretazione univoca della norma la compensazione opera automaticamente senza bisogno della proposizione di apposita eccezione, proprio in virtù della predeterminazione codicistica della sostanziale unitarietà dei rapporti contrattuali che legano banca e correntisti. Le condizioni di applicabilità di questa peculiare fattispecie di compensazione legale, esplorate dalla giurisprudenza di legittimità, riguardano la natura dei crediti (Cfr. di recente Cass. n. 512 del 2016 che richiede la reciproca esigibilità delle poste da compensare, indiscussa nella specie) e non le condizioni processuali di operatività della compensazione stessa, trattandosi di un’ipotesi tipica di cd. compensazione atecnica, in ordine alla quale deve sottolinearsi un orientamento sempre più estensivo della giurisprudenza di legittimità (di recente cfr. Cass. 16800 del 2015, in ordine all’unicità di rapporto e all’operatività officiosa della compensazione anche se uno dei crediti abbia natura risarcitoria).
[30] Cfr. Cass. civile Sez. III, 12/12/2003, n. 19054: La cessione di credito ed il mandato irrevocabile all’incasso pur potendo essere utilizzati per raggiungere le medesime finalità solutorie o di garanzia, si differenziano sostanzialmente e sono incompatibili, poiché la cessione produce l’immediato trasferimento del credito ad altro soggetto che diviene titolare della legittimazione esclusiva a pretendere la prestazione del debitore mentre il mandato in rem propriam conferisce al mandatario solo la legittimazione a riscuotere il credito in nome e per conto del mandante che ne conserva la titolarità esclusiva, con la conseguenza che il creditore può validamente cedere il proprio credito anche dopo aver conferito ad altro soggetto un mandato irrevocabile all’incasso del suddetto credito, sempre che, prima della cessione, il mandatario in rem propriam non abbia già incassato le somme relative atteso che tale fatto, determinando l’estinzione del credito, ne renderebbe impossibile la cessione.
Cfr. Tribunale Prato, 10.06.2011: La cessione di credito, differentemente dal mandato irrevocabile all’incasso, produce l’immediato trasferimento del credito ad altro soggetto che diviene titolare della legittimazione esclusiva a pretendere la prestazione del debitore. Il mandato irrevocabile all’incasso, invece, conferisce al mandatario solo la legittimazione a riscuotere il credito in nome e per conto del mandante, che ne conserva la titolarità esclusiva. Ne discende che il creditore può validamente cedere il proprio credito anche dopo aver conferito ad altro soggetto un mandato irrevocabile all’incasso del suddetto credito, sempre che, prima della cessione, il mandatario in rem propriam non abbia già incassato le somme relative, atteso che tale fatto, determinando l’estinzione del credito, ne renderebbe impossibile la cessione.
[31] Cfr. A. Lordi, Mandato in rem propriam e cessione dei crediti, Nota a Cass., Sez. I, 25 luglio 1996, n. 6726, in Rivista del notariato, Milano, 1998, pag. 314-321
Cfr. G. Pellegrino, Mandato irrevocabile all’incasso e cessione del credito, in La cessione dei crediti d’impresa, a cura di Tatarano, Napoli, 1995, p. 213.
[32] In tal senso V. Andrioli, Commentario al Codice di Procedura Civile, III, Del Processo di esecuzione, Napoli, 1957, 187; P. Castoro, Il Processo esecutivo nel suo aspetto pratico, 11° ed., Milano, 2010, 490.
Cass. sez. lav., 8.2.1992, n. 1407 in Giur. it., 1992, I, 1, 2176, con nota di Atzori: In caso di sequestro conservativo in mani proprie del creditore – caratterizzato per il fatto che le somme sequestrate sono nella disponibilità del creditore sequestrante il quale le deve al suo debitore, soggetto nei cui confronti il sequestro deve eseguirsi – il richiamo che, ai fini della disciplina dell’esecuzione della misura cautelare, l’art. 678 c. p. c. fa alle disposizioni che regolano il pignoramento presso terzi, non comporta la necessità che il detto creditore si autociti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 547 c. p. c., in quanto la stessa istanza di sequestro in mani proprie integra ed esaurisce la funzione ricognitiva dell’oggetto di detta misura cautelare, mentre eventuali contestazioni relative alla natura del credito e dirette a farne valere la parziale insequestrabilità esorbitano dallo schema proprio del giudizio ipotizzato dall’art. 548 c. p. c. – concernente soltanto quelle contestazioni che coinvolgono situazioni giuridiche facenti capo al terzo debitore e che devono essere accertate anche nei suoi confronti – e si risolvono in mezzo di opposizione alla disposta cautela, al cui esame, peraltro, è competente il giudice della convalida e non quello dell’esecuzione.
[33] G. Tota in Commentario del Codice di Procedura Civile – Vol VI., Milano, 2013, Artt. 474-601 a cura di: Comoglio Luigi Paolo, Consolo Claudio, Sassani Bruno, Vaccarella Romano