Squilibrio originario del contratto: sindacato del giudice e rimedi

in Giuricivile, 2019, 12 (ISSN 2532-201X)

La determinazione del contenuto negoziale è rimessa alla libera iniziativa delle parti come previsto dall’art. 1322 c.c.

L’autonomia contrattuale, tuttavia, non garantisce necessariamente una disciplina del rapporto equamente satisfattiva delle posizioni ricoperte dalle parti. Invero, i contraenti possono addivenire alla stipula di un contratto che abbia ad oggetto prestazioni palesemente sproporzionate a vantaggio di uno di essi. Tale epilogo, sovente, è generato da un’asimmetria informativa che non consente di manifestare un consenso informato alla parte priva dei ragguagli necessari alla stipula del contratto; l’espressione del consenso può sorgere, altresì, a causa di uno stato di pericolo ovvero di bisogno, tale da imporre la conclusione di un vincolo negoziale pregiudizievole per chi verte in tale stato.

Nei casi in esame, il legislatore ha previsto una serie di rimedi tesi ad invalidare, in tutto o in parte, il contratto stipulato.

Le nullità di protezione e il contratto rescindibile

Nei rapporti tra soggetti aventi un diverso bagaglio informativo, come nel contratto che sorge tra il professionista ed il consumatore, può accadere che la parte maggiormente informata ponga nel contratto una clausola dal contenuto normativo pregiudizievole per l’altra parte, senza che quest’ultima riesca ad avvedersene. La clausola in esame, cd. vessatoria, è affetta da nullità di protezione ai sensi dell’art. 36 del D. Lgs. n.206/05: si tratta di una forma di nullità che il legislatore prevede a tutela del consumatore, quale parte debole del rapporto, e che il giudice può rilevare d’ufficio sancendone la rimozione senza determinare, altresì, la caducazione dell’intero contratto. La nullità di protezione, dunque, ristabilisce l’equilibrio del contratto per effetto della declaratoria giudiziale.

Del pari, la stipula del contratto da parte di chi versava in condizione di pericolo, ovvero di bisogno, nota alla controparte ha condotto il legislatore a prevedere un’azione rescissoria esperibile entro un anno dalla conclusione del contratto che priva quest’ultimo di tutti i suoi effetti con efficacia retroattiva ex art. 1449 c.c.. L’accoglimento della domanda giudiziale determina, conseguentemente, la caducazione dell’intero contratto, stante la lesione del principio di autodeterminazione del consenso.

La natura giuridica dei rimedi

Gli istituti esaminati presentano notevoli differenze sia per le modalità di attivazione che per gli effetti che ne conseguono al fine di correggere l’originario squilibrio del contratto. L’art. 36 legge cit., con riguardo alla nullità di protezione, impone al giudice il rilievo d’ufficio della clausola laddove ricorrano, ai sensi degli artt. 33 e 34, le condizioni per definire quest’ultima come vessatoria. La pronuncia del giudice presenta un effetto dichiarativo, stante la nullità originaria della clausola e non determina la caducazione dell’intero contratto che, al contrario, resta in vigore depurato della clausola vessatoria.

Il consumatore, invero, qualora la clausola squilibrante non abbia costituito la parte essenziale del contratto, subirebbe un notevole pregiudizio per effetto dell’estinzione dell’intero contratto. La manutenzione del medesimo, pertanto, pone rimedio alla situazione di originaria asimmetria normativa e ne consente l’esecuzione nell’interesse del contraente debole.

Inoltre, il contratto non è soggetto a modifiche da parte dell’autorità giurisdizionale che procede alla mera rimozione dell’elemento di squilibrio come previsto dalla legge.  Al contrario, la stipula di un contratto rescindibile ai sensi degli artt. 1447 e 1448 c.c. consente la rimozione, con effetto ex tunc, di tutti gli effetti da questo prodotti, previo esperimento della domanda giurisdizionale della parte costretta a prestare il consenso alla sua conclusione.

Non v’è, in tal caso, alcuna conservazione del vincolo contrattuale e il giudice, dopo aver rilevato la causa viziante, ne determina la rescissione.

Il legislatore prevede altresì dei rimedi che, alla stregua della nullità di protezione, determinano la manutenzione del contratto attraverso l’intervento diretto delle parti a ristabilirne l’equilibrio: l’art. 1432 c.c., ad esempio, consente di rettificare il contratto annullabile se la parte in errore offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e secondo le modalità che l’altra parte intendeva concludere, determinando così la manutenzione del contratto in alternativa all’annullamento del medesimo; del pari, l’art. 1450 c.c. permette di ripristinare l’equità del contratto con un’offerta della parte contro la quale è demandata la rescissione ed evitare, per l’effetto, le conseguenze demolitorie di quest’ultima.

Il sindacato del giudice: un’indebita interferenza?

Ne discende, per vero, la presenza nel nostro ordinamento di plurimi istituti volti a riequilibrare le prestazioni oggetto del contratto, sia per ciò che attiene alla natura economica che con riguardo al contenuto normativo dello stesso, attivabili su impulso delle parti ovvero del giudice. In particolare, l’intervento del giudice, come già visto in presenza di una clausola vessatoria nel contratto tra professionista e consumatore, determina la rimozione della sola clausola squilibrante poiché vi è un’espressa norma di legge che lo prevede. Di regola, invero, l’intervento giudiziale produce un effetto estintivo del contratto. Il legislatore, in tutti i casi in cui ha ravvisato un potenziale squilibrio originario del contratto, non ha previsto in via generale la facoltà del giudice di sindacare il contenuto del contratto e di apportarvi delle modifiche che ne impedissero la caducazione. Quest’ultima circostanza è prevista, ad esempio, dall’art. 1384 c.c. ove il legislatore consente al giudice di rilevare d’ufficio la manifesta eccessività della clausola penale disponendone altresì la riduzione secondo equità.

Il sindacato del giudice sul contenuto del contratto osta al principio di autodeterminazione negoziale previsto dall’art. 1322 c.c., giacché consentirebbe all’autorità giudiziaria di alterarne il contenuto rispetto a quello voluto dalle parti. Nel silenzio della legge, tuttavia, si discute circa i possibili scenari suscettibili di causare uno squilibrio originario del contratto per i quali non sono esperibili i rimedi normativamente previsti. Nei casi in cui non è possibile proporre l’azione rescissoria ma il contratto presenta ugualmente una indebita sproporzione a discapito della parte debole del rapporto, il negozio è destinato a produrre effetti, secondo l’orientamento tradizionale, poiché espressione della volontà sovrana delle parti. Di recente, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto opportuno riconoscere all’autorità giudiziaria un sindacato generale sul contenuto del contratto. Tale scrutinio si fonda sul rispetto dei doveri solidaristici, previsti dall’art. 2 Cost, che non consentono di soddisfare gli interessi egoistici arrecando una lesione della altrui sfera giuridica, e che trovano concretizzazione nel rispetto del principio generale di buona fede ai sensi dell’art. 1375 c.c.

Ben vero, il ruolo assolto dalla buona fede cd. oggettiva, come evidenziato dalla storica sentenza “Senofonte” della Corte di Cassazione n.3775/94, concorre a definire la regola iuris del contratto in forza del valore cogente che le norme le assegnano.

Il giudice, quindi, è tenuto a verificare il rispetto della regola di buona fede come regola di validità, la cui violazione determina la caducazione della clausola iniqua ma senza pregiudicare l’intero contratto. Il vaglio giudiziale opera a prescindere dalla correttezza del procedimento genetico del contratto: si tratta, infatti, di un’indagine sul rapporto sostanziale tra le prestazioni che deve inderogabilmente informarsi al rispetto della buona fede. In materia, occorre rilevare che la Consulta, sentenza n.248/13, dichiarando inammissibile la questione di legittimità dell’art. 1385 c.c. per violazione dell’art. 3 Cost. laddove non consentiva al giudice l’esercizio dei medesimi poteri previsti dall’art. 1384 c.c. per la riduzione della clausola penale, ha ritenuto opportuno consentire al giudice di rimuovere la caparra confirmatoria iniqua ove ritenuta espressione di un comportamento negoziale scorretto e non conforme al principio di meritevolezza dell’interesse ai sensi dell’art. 1322 comma 2 c.c. (Cass n° 15011/99, Cass n° 3775/94, Cass  n° 20106 del 2009).

Conclusioni

L’attività esegetica della giurisprudenza ha rimosso il limite giudiziale di sindacare il contenuto del contratto per rilevarne potenziali squilibri.

Tuttavia, anche negli orientamenti più evolutivi, la giurisprudenza si mostra prudente, negando in via generale un potere modificativo del contratto in capo al giudice. La riduzione ad equità resta una prerogativa delle parti ed il giudice vi potrà provvedere nei soli casi previsti dalla legge. L’autorità giudiziaria, al più, potrà dichiarare la nullità della clausola determinante lo squilibrio delle prestazioni per violazione della buona fede. Quest’ultima assurge la medesima posizione delle norme imperative sicché la sua violazione integra ai sensi dell’art. 1418 comma 1 c.c. una forma di nullità virtuale rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

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