La responsabilità “da comportamento” della pubblica amministrazione

in Giuricivile, 2019, 7 (ISSN 2532-201X)

Sin dall’entrata in vigore della Costituzione è stato riconosciuto, attraverso la valorizzazione dell’art. 28 Cost., che la pubblica amministrazione potesse essere responsabile dei danni arrecati al privato nel compimento di attività “paritetiche”. Ci si riferisce alla lesione di diritti soggettivi cagionata nello svolgimento di attività compiute non già iure imperii, nell’esercizio dei poteri autoritativi di cui è dotata l’amministrazione, bensì nella relazione privata che l’ente pubblico può intrattenere con il cittadino[1].

In tempi più recenti, invece, si è affermato che la pubblica amministrazione risponde anche dei danni cagionati nell’esercizio illegittimo dell’attività provvedimentale[2]. Ci si riferisce alle ipotesi in cui, con l’adozione di un provvedimento, l’ente pubblico leda l’interesse legittimo, oppositivo o pretensivo, del privato: materia di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo[3]. Tale forma di responsabilità, in contrapposizione rispetto a quella che sarà a breve definita, prende il nome di responsabilità “da provvedimento”.

Le più recenti evoluzioni interpretative hanno condotto alla elaborazione di nuove fattispecie di responsabilità, oggetto della presente analisi, ricondotte in dottrina sotto lo schema della “responsabilità da comportamento”. Si allude a tutti quei casi in cui il privato lamenta un danno cagionato dalla pubblica amministrazione non già nel compimento di attività paritetica o nel compimento di attività provvedimentale, bensì a ragione del comportamento tenuto dell’ente pubblico nel corso di un contatto con il privato.

Le principali ipotesi di responsabilità da comportamento sono tre: la responsabilità precontrattuale; la responsabilità da provvedimento favorevole successivamente rimosso in autotutela; la responsabilità da “mero” ritardo.

La responsabilità precontrattuale

Come è noto, la responsabilità precontrattuale è disciplinata dagli artt. 1337 e 1338 c.c. e, allo stato interpretativo attuale, sussistono almeno tre ipotesi di tale fattispecie in ambito civile: la responsabilità per recesso ingiustificato dalle trattative; la responsabilità da contratto invalido e la responsabilità da contratto valido ma “inutile” (o concluso a condizioni più svantaggiose)[4].

I requisiti indefettibili di fattispecie consistono: nell’affidamento incolpevole di una parte nella comportamento dell’altra; nella dolosa o colposa condotta contraria al dovere di buona fede del soggetto il quale determini una lesione nell’altrui sfera giuridica[5].

La ratio di tale forma di responsabilità consiste nell’apprestare tutela non già all’affidamento riposto dal singolo nella conclusione del contratto, poiché la stipulazione del negozio rappresenta un interesse della parte e non già un suo diritto perfetto. L’istituto, piuttosto, tutela l’affidamento risposto nella correttezza comportamentale di controparte, tutelando così l’interesse a non prendere parte a trattative negoziali rivelatesi poi inutili.

Così brevemente ricordati i principali presupposti della responsabilità precontrattuale, occorre preliminarmente analizzare l’evoluzione interpretativa circa la configurabilità della fattispecie nell’ambito del diritto amministrativo.

In un primo momento, si reputava inammissibile tale forma di responsabilità[6]. Ciò, essenzialmente, per due motivi.

Da un lato, la persistente tesi dottrinale della presunzione di legittimità dell’attività amministrativa impediva che si potesse analizzare la contrarietà o meno a buona fede del comportamento dell’autorità antecedente alla stipula del contratto.

Da un altro lato, invece, per la convinzione che l’attività precontrattuale fosse caratterizzata da ampia discrezionalità: configurare la responsabilità precontrattuale avrebbe pertanto significato conferire al giudice il sindacato sul merito dell’esercizio del potere, in spregio al noto canone di separazione della funzione giurisdizionale da quella amministrativa[7].

Solo in tempi recenti è stata mossa una significativa obiezione a tale impostazione interpretativa: il sindacato sull’attività posta in essere nel periodo antecedente alla stipula del contratto non avrebbe avuto ad oggetto la discrezionalità e l’esercizio del potere; bensì il comportamento. Si tratterebbe, in altri termini, di un sindacato afferente la pubblica amministrazione non già nella sua qualità di amministratore pubblico, ma quale semplice contraente, alla stregua di un privato.

A partire da questo mutamento di prospettiva, si è progressivamente ampliato nel corso del tempo l’ambito oggettivo di applicabilità della fattispecie di responsabilità precontrattuale.

In un primo momento, la stessa si reputava configurabile nel solo caso di trattativa o di licitazione privata. A ragione di tale limitazione, si invocava il disposto letterale dell’art. 1337 c.c., in base al quale è responsabile chi viola il dovere di buona fede durante lo «svolgimento delle trattative».

L’evoluzione giurisprudenziale ha poi continuato ad ampliare l’ambito oggettivo di applicabilità di fattispecie sino a raggiungere l’impostazione largamente prevalente prima del recente arresto della Adunanza Plenaria n. 5 del 2018: la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nelle procedure aperte di negoziazione, purché si versi in un momento successivo rispetto all’aggiudicazione del contratto.

Infatti, solo con l’aggiudicazione possono reputarsi individuate le parti della trattativa. Prima di tale momento, invece, non essendovi parti individuate, bensì un insieme di soggetti portatori di un interesse legittimo all’aggiudicazione prima e alla stipula poi del contratto, mancherebbe un legittimo affidamento del privato da tutelare.

Una ultima e più recente linea interpretativa, cristallizzata dall’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018[8], ha ulteriormente ampliato l’ambito oggettivo, reputando configurabile la responsabilità contrattuale anche prima dell’aggiudicazione, e cioè come conseguenza della sola indizione della procedura di evidenza pubblica.

In base ad un primo argomento, infatti, gli atti compiuti dalla pubblica amministrazione prima dell’aggiudicazione hanno rilievo privatistico, per il principio di pluriqualificazione degli atti giuridici. Nel segmento procedimentale che spazia dall’indizione della gara sino alla determinazione del “miglior offerente”, dunque, gli atti amministrativi sono sì pubblici, compiuti iure imperii; ma essi rilevano altresì quali presupposti di perfezionamento di fattispecie privatistiche. Si tratta, in altri termini, di atti sussumibili sotto il genere della “trattativa privata”, come richiesto dall’art. 1337 c.c.

Tale apertura interpretativa risulta d’altronde armonica con la costante interpretazione giurisprudenziale dell’art. 1337 c.c., in base alla quale la fattispecie di responsabilità precontrattuale è pienamente configurabile anche nei casi in cui vi sia una trattativa condotta da più parti. Pertanto, la circostanza per cui in una procedura ad evidenza pubblica una serie di operatori concorrano per l’aggiudicazione del contratto non impedisce di configurare tale relazione pluristrutturata, tra pubblica amministrazione e privati, quale trattativa precontrattuale.

Infine, l’interpretazione estensiva in commento risulta conforme al principio di atipicità dell’illecito precontrattuale, in base al quale il compimento di un atto prenegoziale tipico (ad esempio, proposta, revoca, prelazione volontaria, etc.) non è un requisito di fattispecie. Ciò risulterebbe confermato dal dato letterale dell’art. 1337 c.c., il quale, con l’impiego del termine “trattative”, in contrapposizione alla formulazione “formazione del contratto”, richiamerebbe per l’appunto atti prenegoziali non tipici.

Così chiarito brevemente l’ambito oggettivo di configurabilità dell’ipotesi di responsabilità precontrattuale, occorre analizzarne la natura giuridica e il danno risarcibile.

Come noto, l’area del danno risaricibile, oggetto di ristoro, nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale, è rappresentata dal cd. “interesse negativo[9] al prendere parte a trattative rivelatesi inutili.

Tale circostanza rappresenta l’elemento distintivo della responsabilità precontrattuale dalle altre forme di responsabilità. Là dove si tratti, infatti, di responsabilità derivante da illecito extracontrattuale o dalla violazione di obblighi assunti contrattualmente, il danno risarcibile è parametrato al cd. “interesse positivo”, avendo il soggetto leso, contraente o titolare di una posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela, una relazione qualifica con il bene della vita aggredito. Nell’ipotesi di responsabilità precontrattuale, invece, il soggetto è leso nel proprio affidamento, incolpevolmente (mal) riposto nel comportamento corretto di controparte.

Si contesta, dunque, la scorrettezza comportamentale della pubblica amministrazione, e il danno deve essere parametrato al cd. danno emergente e lucro cessante “da interesse negativo”. Il danno emergente è rappresentato dalle spese sostenute per partecipare alla procedura di gara (comprese le eventuali immobilizzazioni di danaro richieste come garanzia della partecipazione). Il lucro cessante è invece costituito dai guadagni alternativi che il concorrente avrebbe ottenuto se avesse intentato con successo altre trattative.

Circa il tema della natura giuridica della responsabilità precontrattuale, è noto come allo stato si assiste ad una contrapposizione tra diverse impostazioni, non risolta neppure dal recente intervento dell’Adunanza Plenaria[10].

Volendo esemplificare, si può dire che per l’impostazione tradizionale la responsabilità in discorso ha natura extracontrattuale. Secondo tale esegesi, il dovere di buona fede esplicitato dall’art. 1337 c.c. altro non è che una mera specificazione descrittiva del più generale dovere di neminem laedere, di cui all’art. 2043 c.c.

D’altronde, analogamente al dovere di astenersi dal ledere situazioni giuridiche soggettive altrui, anche per il caso di buona fede durante le trattative si assiste ad un dovere rivolto a tutti i consociati che vogliano addivenire alla stipula di un negozio: il dovere di comportarsi correttamente ossia di “adeguarsi costantemente alle mutevoli esigenze prospettate dal momento dinamico”[11].

Infine, secondo tale impostazione, il comportamento, tutelante o meno l’altrui affidamento, non è patrimonialmente valutabile in via diretta, e ciò impedisce la classificazione dell’illecito precontrattuale nella categoria della responsabilità contrattuale di cui agli artt. 1218 s.s. c.c.

Per una diversa impostazione, invece, la responsabilità precontrattuale ha natura “contrattuale” ed è pertanto disciplinata dagli artt. 1218 s.s. c.c.

A tale risultato può giungersi mediante due vie interpretative diverse, entrambe sostenute in dottrina e in giurisprudenza.

Alcuni, infatti, ritengono che la disposizione di cui all’art. 1337 c.c. abbia natura costitutiva e sia dunque direttamente precettiva: essa imporrebbe un obbligo giuridico specifico, consistente nel dovere di comportamento secondo buona bene (i cd. doveri positivi di informazione, cura e custodia), inadempiuto il quale si avrebbe responsabilità contrattuale[12].

La caratteristica principale di tale forma di responsabilità consiste infatti nella preesistenza di un obbligo giuridico specifico, e non già necessariamente di un accordo negoziale tra le parti, in tale ipotesi infatti mancante. In tal modo, sarebbe evidente la differenza con la responsabilità aquiliana di cui agli artt. 2043 s.s. c.c., la quale presuppone la non preesistenza di un obbligo giuridico specifico in capo ai consociati, oltre al generale dovere di neminem laedere prima citato.

Altri, invece, inquadrano la fattispecie in esame all’interno dell’ormai nota teorica del “contatto sociale qualificato”[13]: pur non essendovi un negozio giuridico tra paciscenti, si assiste ad un contatto relazionale tra i soggetti che intraprendono la trattativa; contatto che genera affidamenti circa la correttezza del comportamento altrui. L’affidamento riposto dal privato, in altri termini, si consoliderebbe progressivamente, a mano a mano che la trattativa prosegua (e diventi, come si suol dire, “affidante”).

Secondo tale prospettiva, recentemente accolta anche dalla corte di cassazione[14], dalla trattativa affidante sorgerebbe un obbligo di protezione nei confronti delle altre parti, pur non essendovi obblighi primari di prestazione a ragione del fatto che non si è perfezionato un contratto o un negozio giuridico[15]. La fonte di tale obbligo di protezione sarebbe da rinvenirsi, come è noto, nell’art. 1173 c.c., il quale, alludendo ad ogni altro fatto o atto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, esprime un sistema degli obblighi precettivi “aperto”.

La giurisprudenza oscilla tra le diverse tesi sintetizzate, sicché risulta allo stato arduo ritenere una determinata impostazione maggioritaria rispetto all’altra. A seconda della impostazione seguita, muta il regime giuridico e la disciplina della responsabilità (diverso è infatti il termine di prescrizione; il limite della prevedibilità del danno di cui all’art. 1225 c.c., non richiamato dall’art. 2056 c.c.; la distribuzione dell’onere della prova)[16].

In questa sede, però, è importante sottolineare che, indipendentemente da quale teorica si accolga, l’entità del danno risaricibile non muta. Il danno cd. conseguenza, ai sensi dell’art. 1223 e 2056 c.c.) è sempre parametrato al descritto interesse negativo. Si tratta, infatti, pur sempre di una ipotesi di responsabilità derivante dalla scorrettezza comportamentale, in cui il privato cittadino lamenta una condotta non tutelante il proprio affidamento e non contesta, invece, il potere e la negazione del bene della vita.

In altri termini, la ratio sottesa alla limitazione del risarcimento al solo interesse negativo è da rinvenirsi nel fatto che il privato non è portatore di un diritto soggettivo perfetto alla stipula di un contratto; ma solo di un diritto a determinarsi liberamente durante il corso delle trattative.

Circa il riparto di giurisdizione, occorre comprendere se l’azione di risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale debba intentarsi innanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria o al giudice amministrativo.

L’opinione assolutamente prevalente ritiene che, in tali casi, la giurisdizione appartenga al giudice ordinario[17]. Ciò perché in queste fattispecie sorge, come detto, l’obbligo giuridico in capo alla pubblica amministrazione di comportarsi secondo buona fede.

A fronte di tale obbligo, il privato vanta una posizione giuridica attiva di diritto soggettivo: il cittadino, in altri termini, ha una relazione qualificata con il bene della vita oggetto del suo diritto (il comportamento corretto) non suscettibile di sacrificio o di bilanciamento; a cd. soddisfazione necessaria[18].

La peculiarità di tale fattispecie di responsabilità è dunque rappresentata dal giudice competente in punto di giurisdizione. La soluzione accolta è d’altronde pienamente in linea con la considerazione iniziale: in tali ipotesi non si contesta l’esercizio del potere, l’attività compiuta iure imperii, il cui giudice naturale sarebbe quello amministrativo; bensì si contesta il comportamento, l’attività compiuta dagli organi che compongono l’apparato.

Chi ritiene che l’ipotesi di responsabilità precontrattuale sia da ricondursi sotto lo schema della responsabilità aquiliana, considera la posizione del privato come diritto soggettivo all’autodeterminazione negoziale: il diritto a non prendere parte ad una trattativa ex post rivelatasi condotta in maniera abusiva o contraria a buona fede[19]. Chi invece ricollega l’ipotesi in discorso sotto la specie della responsabilità contrattuale, ritiene che il privato nutra un diritto soggettivo di credito nei confronti della controparte che si sia comportata scorrettamente.

Ad ogni modo, la giurisdizione rimane incardinata in capo al giudice ordinario. Pertanto si agirà ex art. 1337 c.c. e 1218 s.s. o 2043 s.s. c.c. e non già ai sensi dell’art. 30 c.p.a. innanzi al giudice amministrativo.

Tale soluzione in tanto è valida e condivisa in quanto la materia specifica in cui ci si muova non sia oggetto di giurisdizione esclusiva, e cioè non sia assegnata dal legislatore, per ragioni di economia processuale, al giudice amministrativo, attraverso apposita norma ad hoc (ad esempio, l’art. 133 c.p.a.). In tale evenienza, si agisce innanzi al giudice amministrativo per un diritto soggettivo, secondo la disciplina sostanziale propria del diritto civile e non già del diritto pubblico (non si sarà soggetti, ad esempio, ai brevi termini decadenziali previsti dal codice del processo amministrativo; bensì ai più lunghi termini di prescrizione disciplinati nel codice civile).

La responsabilità da provvedimento favorevole, poi rimosso in autotutela

La seconda fattispecie di responsabilità da comportamento si rinviene allorquando la pubblica amministrazione emetta un provvedimento favorevole al privato (si pensi, ad esempio, al permesso di costruire), il quale tuttavia viene successivamente rimosso in via di autotutela a ragione della sua invalidità o inopportunità.

Pertanto, in tali evenienze, il privato è in un primo momento destinatario degli effetti favorevoli del provvedimento, e, per tale motivo, egli matura un affidamento circa la stabilità degli effetti giuridici a sé favorevoli.

Il provvedimento favorevole, però, viene successivamente annullato dalla stessa pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 21-nonies l. 241/1990 (cd. annullamento in autotutela) per vizi di legittimità o viene revocato ex art. 21-quinquies l. 241/1990 per ragioni di merito o di opportunità amministrativa[20].

Occorre rilevare come in questi casi il provvedimento di secondo grado, adottato in autotutela (annullamento o revoca), è legittimo. Per tale motivo, il privato non può agire per la responsabilità “da provvedimento”, facendo valere la propria posizione di interesse legittimo oppositivo alla conservazione degli effetti del precedente atto.

Se il provvedimento di autotutela fosse illegittimo, infatti, il privato dovrebbe agire innanzi al giudice amministrativo, chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dall’adozione di un atto viziato, ai sensi dell’art. 30, co. 2, c.p.a.

Il caso che qui interessa, invece, ha come elemento caratterizzate la legittimità dell’intervento in autotutela e l’illegittimità o l’inopportunità del provvedimento di primo grado. Solo con queste precondizioni, la fattispecie in discorso può annoverarsi tra le forme di responsabilità da comportamento: il privato non già si duole per il potere esercitato in modo non conforme alla legge; bensì per il comportamento dell’amministrazione, la quale, comportandosi in modo scorretto, ha prima fatto maturare e poi ha frustrato l’affidamento risposto dal cittadino in un provvedimento non in grado di esplicare effetti giuridici in modo durevole nel corso del tempo.

Anche in relazione a tale fattispecie, in un primo momento si negava la configurabilità di una forma di responsabilità. Ciò perché in dottrina si invocava l’applicazione estensiva dell’art. 1338 c.c., il quale, come è noto, determina la responsabilità di chi faccia maturare un affidamento circa la validità di un contratto nullo.

La teorica in passato dominante, infatti, escludeva la buona fede del privato e dunque reputava inconfigurabile un “affidamento” suscettibile di lesione. Ciò a ragione della presunzione assoluta di conoscenza di conoscenza delle norme imperative, ossia delle norme di carattere pubblicistico che governano l’operato della pubblica amministrazione.

Il privato, in altri termini, avendo l’onere di conoscere le norme pubblicistiche, giammai avrebbe potuto maturare un affidamento circa la stabilità di un provvedimento invalido, potendo egli rilevare autonomamente la discrasia tra il provvedimento concreto e il paradigma normativo di riferimento. Conseguentemente, il privato non avrebbe potuto chiedere i danni derivanti dall’emanazione prima e dalla rimozione poi del provvedimento stesso.

Tale prospettiva è stata radicalmente rivisitata in tempi relativamente recenti[21]. Infatti, è ormai diffusamente riconosciuto che il principio di presunzione di conoscenza delle norme imperative non è valevole di estensione nell’ambito amministrativo, in cui, d’altronde, ogni norma di disciplina dell’attività della pubblica amministrazione è di carattere pubblicistico: l’estensione di tale principio finirebbe dunque per impedire sistematicamente il riconoscimento della buona fede soggettiva in capo al privato.

Per configurare l’affidamento del privato, dunque, non è necessario estendere in via analogica il disposto di cui all’articolo 1338 c.c., poiché nel diritto amministrativo la tutela dell’affidamento risposto dal privato nell’attività della pubblica amministrazione, apparato qualificato e organizzato, assurge a principio generale dell’ordinamento[22].

In altri termini, a ragione della asimmetria esistente tra amministrazione e privato, quest’ultimo nutre per definizione un affidamento circa la correttezza e la legittimità dell’attività espletata dell’apparato organizzato. Affinché tale affidamento possa essere tutelato, però, è comunque necessario che risulti incolpevole: il privato, dunque, deve versare in una condizione di buona fede soggettiva circa la legittimità del provvedimento di primo grado, altrimenti verrebbe a mancare un presupposto essenziale della fattispecie di responsabilità, per come descritta in apertura.

Così riconosciuta l’ammissibilità di tale forma di responsabilità, occorre chiedersi, in analogia con quanto effettuato prima in relazione alla responsabilità precontrattuale, quale sia la natura giuridica della fattispecie e quale sia l’area del danno risarcibile.

Le risposte della giurisprudenza e della dottrina a tali interrogativi sono analoghe a quelle analizzate per l’altra forma di responsabilità da comportamento.

Circa la natura giuridica, alcuni ritengono che il privato abbia un diritto soggettivo all’autodeterminazione negoziale che si estrinseca nell’affidamento riposto sulla validità del primo provvedimento. Pertanto, il comportamento contrario a buona fede della pubblica amministrazione, non rispettoso dell’altrui affidamento, rappresenta una violazione del precetto del neminem laedere e genera responsabilità ex art. 2043 c.c[23].

Altri invece, ritengono che il rispetto dell’affidamento del privato derivi da un obbligo giuridico specifico o dal contatto sociale qualificato che si viene a creare allorquando un privato ottenga un provvedimento favorevole dall’apparato amministrativo. In tal caso, la responsabilità sarebbe disciplinata dagli artt. 1218 s.s. c.c.

Anche in relazione a tale fattispecie il danno risarcibile deve essere parametrato all’interesse negativo. Non già, cioè, all’utile che si sarebbe ottenuto se il provvedimento di primo grado, favorevole ma illegittimo, avesse continuato a produrre i propri effetti giuridici; bensì alle spese sostenute e ai mancati guadagni derivanti dall’attività effettuata dal privato a ragione dell’affidamento risposto circa la stabilità del provvedimento.

Ciò perché, trattandosi di responsabilità da comportamento, non si contesta l’illegittimità dell’esercizio del potere e dunque il mancato ottenimento del bene della vita; ciò che è oggetto di contestazione è invece lo scorretto comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione in una vicenda relazionale con il privato.

Maggiormente controverso, per tale forma di responsabilità, è invece il riparto di giurisdizione.

Anche in tale evenienza, il privato ha una posizione di diritto soggettivo perfetto, da taluni definito diritto all’autodeterminazione negoziale, derivante dal principio di affidamento, a fronte del quale sorge l’obbligo, per la pubblica amministrazione, di comportarsi secondo buona fede. In altri termini l’amministrazione non deve consentire, con il proprio operato, che il cittadino maturi un affidamento incolpevole circa la stabilità degli effetti di un provvedimento il quale venga successivamente rimosso in autotutela.

Pertanto, posta la situazione giuridica di diritto soggettivo e non già di interesse legittimo, ad avere giurisdizione è il giudice ordinario[24], secondo il tradizionale criterio di riparto rappresentato dalla causa petendi.

Sin qui, il riparto di giurisdizione è identico all’altra forma di responsabilità analizzata: si agisce innanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria secondo i termini di prescrizione propri dell’ordinamento civile e non già entro i più ristretti termini di decadenza posti dal codice del processo amministrativo.

Si assiste invece ad un contrasto di opinioni in relazione alle particolari ipotesi in cui si versi in una materia assegnata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ad esempio, l’edilizia e l’urbanistica ex art. 133, co. 1, lett. f, c.p.a.).

In tali ipotesi la giurisprudenza civile ritiene che la competenza giurisdizionale sia comunque da riconoscersi in capo al giudice ordinario[25]. Ciò perché, come è noto, un requisito indefettibile della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è che si versi in una situazione di commistione tra potere autoritativo e diritto soggettivo e che, dunque, il comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione sia necessariamente connesso, anche mediatamente, all’esercizio del potere[26].

Per l’impostazione in commento, invece, in tali ipotesi il comportamento della pubblica amministrazione, consistente nell’emanazione di un provvedimento favorevole al privato ma invalido e nella sua successiva eliminazione dall’ordinamento giuridico, sarebbe un “comportamento mero”.

In altri termini, il privato contesterebbe il mero comportamento materiale della pubblica amministrazione, per nulla connesso con l’esercizio dei poteri pubblicistici sottesi all’emanazione del provvedimento. Infatti, non si contesta l’illegittimità del provvedimento e, dunque, dell’esercizio del potere, bensì una mera condotta materiale la quale ha consolidato prima e leso poi l’affidamento incolpevole del privato.

Parte della giurisprudenza amministrativa, invece, ritiene la giurisdizione di spettanza del giudice amministrativo[27] e respinge l’impostazione esegetica contraria per diversi motivi.

In primo luogo, si crea una situazione di disparità di trattamento rispetto alla prima ipotesi di fattispecie di responsabilità da comportamento esaminata, in relazione alla quale si è visto dotato di giurisdizione il giudice amministrativo nel caso di giurisdizione esclusiva.

In secondo luogo, poiché nella fattispecie in discorso non si ha un “mero” comportamento. Infatti, la condotta della pubblica amministrazione – lo si ripete, l’emanazione di un provvedimento favorevole al cittadino ma invalido, quindi rimosso in via di autotutela – è riconducibile mediatamente all’esercizio del potere. Infatti, il privato ha consolidato il proprio affidamento circa la validità del primo provvedimento, ossia di un atto emanato dall’amministrazione iure imperii, nell’esercizio di una attività provvedimentale.

Pertanto, nel caso in cui si versi in una materia assegnata dal legislatore alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il privato dovrebbe intentare l’azione per il risarcimento dei danni innanzi a tale giudice, pur trattandosi di un diritto soggettivo.

Tale soluzione, inoltre, è conforme ai principi di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.; art. 1 c.p.a.) e al principio di economia dei mezzi processuali. Infatti, a ragionare come fa la giurisprudenza civile, il privato cittadino, qualora intendesse contestare la validità del provvedimento di secondo grado, emesso in autotutela, dovrebbe naturalmente agire innanzi al giudice amministrativo, mentre per il risarcimento dovrebbe agire innanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria. Ciò, inoltre, senza poter cumulare le due domande in una unica sede processuale, a ragione del consolidato principio per cui non è ammesso lo spostamento della giurisdizione per ragioni di connessione tra le domande. Pertanto, secondo tale impostazione, l’orientamento interpretativo civilistico sarebbe “antieconomico” per il privato e potenzialmente foriero di giudicanti contrastanti (qualora il giudice ordinario non sospendesse il processo ex art. 295 c.p.c.).

La responsabilità per mero ritardo

Un ultimo cenno, infine, è da dedicarsi alla recente fattispecie di responsabilità per danno cd. da mero ritardo.

Per comprendere tale fattispecie occorre premettere brevemente la teorica sottesa alla responsabilità da provvedimento nel caso di lesione di interessi legittimi pretensivi a fronte di attività discrezionale della pubblica amministrazione.

Il privato che lamenti il mancato ottenimento di un provvedimento a sé favorevole (si pensi al provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica) versa in una situazione giuridica di interesse legittimo: egli può, pertanto, chiedere il risarcimento dei danni, innanzi al giudice amministrativo, derivanti da un diniego illegittimo.

Nel caso in cui si tratti di attività discrezionale, ovvero di attività in cui la pubblica amministrazione è chiamata ad effettuare una scelta comparativa tra i vari interessi pubblicistici e privatistici in gioco, il giudice non può tuttavia pronunciarsi sulla “spettanza del bene della vita”. In altri termini, l’organo giurisdizionale non può, nell’esercizio dei propri poteri di cognizione, verificare se il bene correlato all’interesse legittimo fatto valere dal privato (l’ottenimento del provvedimento favorevole) spetti effettivamente a quest’ultimo: tale valutazione è infatti di competenza esclusiva della pubblica amministrazione[28]. Conseguentemente, non possono essere liquidati i danni asseritamente patiti.

Pertanto, nei casi in cui il giudice amministrativo accerti l’illegittimità del diniego, il privato deve attendere la riedizione del potere da parte della pubblica amministrazione.

A questo punto, possono verificarsi due distinte situazioni: o l’amministrazione emana un ulteriore provvedimento di diniego, però legittimo, e in tal caso, posta la non spettanza del bene della vita, il privato non ha subito una lesione risarcibile al proprio interesse legittimo; o la pubblica amministrazione emette il provvedimento favorevole inizialmente richiesto dal privato, e in tal caso il privato ha diritto al risarcimento del danno derivante dal “ritardo” nell’ottenimento del provvedimento.

Tale percorso ricostruttivo può essere riassunto, per semplicità, nell’affermazione per cui il danno da ritardo presuppone l’accertamento della spettanza del bene della vita.

Un recente orientamento interpretativo, tuttavia, valorizzato in obiter dalla Adunanza Plenaria[29], ha riconosciuto che il “tempo” rappresenta un bene della vita in sè. In altri termini il privato ha il diritto a ricevere, nei corretti termini scanditi dalle norme che governano l’attività provvedimentale, una risposta da parte della pubblica amministrazione, sia pur negativa.

Ciò poiché solo in tal modo il cittadino ha la facoltà di organizzare la propria attività in modo consapevole e utile (si pensi, ad esempio, ad una eventuale immobilizzazione di somme di danaro o di beni produttivi in attesa del provvedimento amministrativo). Anche il “mero” ritardo, pertanto, secondo tale impostazione interpretativo può essere causativo di un danno risarcibile, ove provato dal privato nelle opportune sedi giurisdizionali, a prescindere dalla spettanza del bene della vita principale.

In tali casi, la posizione del privato è di pieno diritto soggettivo, consistente nell’ormai noto diritto all’autodeterminazione negoziale. Trattandosi di diritto soggettivo, la giurisdizione dovrebbe essere del giudice ordinario. Occorre però segnalare che la materia è attribuita dall’art. 133, co. 1, lett. a), n. 1), c.p.a., alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, innanzi al quale occorrerà rivolgersi per intentare l’azione di risarcimento dei danni (ex art. 2043 c.c.), secondo la disciplina sostanziale propria del diritto privato.

Pertanto, in caso di ritardo nell’ottenimento di un provvedimento da parte della pubblica amministrazione, il privato può chiedere il risarcimento del danno-conseguenza derivante dal mancato rispetto del termine procedimentale, poiché tale violazione costituisce una lesione del diritto soggettivo del cittadino.

Tale ipotesi – occorre sottolineare – è strutturalmente diversa dal risarcimento del danno da ritardo (non “mero”) prima descritto: lì si ha responsabilità da provvedimento, non da comportamento; lì occorre dimostrare la spettanza del bene della vita connesso all’interesse legittimo, qui il tempo rappresenta l’oggetto di una posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento.

Una ultima considerazione può essere opportuna: se il provvedimento di diniego è illegittimo oltre che tardivo, alla luce di tale nuova fattispecie, il privato ha una scelta.

Egli può: o intentare direttamente una azione per il risarcimento del danno da “mero ritardo”; o chiedere l’annullamento del primo provvedimento, attendere la riedizione del potere, e chiedere il risarcimento del danno da ritardo non mero. In tale secondo caso, però, occorrerà dimostrare la spettanza del bene della vita, requisito non necessario, invece, per la responsabilità da mero ritardo.

Le ragioni di tale scelta ben possono comprendersi se si pone mente all’area del danno risarcibile: l’interesse positivo nel caso di lesione dell’interesse legittimo; il solo interesse negativo, come ormai chiarito, se si agisce per far valere il danno cagionato dal comportamento della pubblica amministrazione, la quale, con il suo mero ritardo, ha frustrato l’affidamento del privato.


[1] Sul punto v. E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 19°, pp. 673 ss.

[2] In tal senso si esprime la giurisprudenza costante a partire da Cass., SS. UU., 22 luglio 1999, n. 500.

[3] Sul punto, v. ampiamente R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 4°, pp. 953 ss.

[4] Tale ultima fattispecie di responsabilità precontrattuale è stata definita nei suoi tratti essenziali da Cass., SS. UU., 19 dicembre 2017, nn. 26724 e 26725. Sul punto vedasi I. STELLATO, Contratto valido ma pregiudizievole per vizi incompleti: si configura la responsabilità precontrattuale, in Questa Rivista, 6 aprile 2017.

[5] Per una analisi completa, v. V. ROPPO, Il contratto, Giuffrè, 2°, pp. 167 ss.

[6] V. G. CORSO, L’attività amministrativa, Giappichelli, pp. 218 ss.

[7] V. E. CASETTA, cit., pp. 680-691.

[8] V. Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5.

[9] Per tutti, v. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Esi, 18°, pp. 881-882.

[10] V. Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5.

[11] Cfr. Cass., 12 giugno 1987, n. 3480.

[12] V. ampiamente, G. IORIO, Responsabilità precontrattuale e obbligo di buona fede della p.a. alla luce della Adunanza Plenaria 4/5/2018, in Questa Rivista, 6 luglio 2018.

[13] Per una ricostruzione puntuale della teoria, v. G. VOLTAGGIO, La responsabilità precontrattuale ha natura contrattuale. Revirement definitivo della Cassazione, in Questa Rivista, 14 luglio 2016.

[14] Il riferimento è a Cass., 12 luglio 2016, n. 14188.

[15] V. F. ELIA, I confini della responsabilità precontrattuale della p.a. alla luce della recente Adunanza Plenaria, in Questa Rivista, 23 maggio 2018.

[16] Per una completa disamina delle diversità di disciplina, v. F. GAZZONI, cit., p. 651.

[17] V. in tal senso, Cons. Stato, 6 marzo 2015, n. 1142; Tar Milano, 12 ottobre 2018, n. 2267.

[18] In contrapposizione all’interesse legittimo, la cui soddisfazione viene definita “eventuale”, v. R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, cit., pp. 123 ss.

[19] Tale impostazione risulta condivisa da Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5.

[20] Per una approfondita distinzione tra i procedimenti di secondo grado di revisione (i quali incidono sull’efficacia dell’atto pregresso) e di riesame (i quali hanno ad oggetto la validità del provvedimento di primo grado) v. R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, cit., pp. 664 s.s.

[21] V., per esempio, E. CASETTA, cit., pp. 680 ss.

[22] Sul punto anche Ad. Plen. 17 ottobre 2018, n. 8.

[23] Per una ricostruzione, vedasi R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, cit., pp. 955 ss.

[24] V. recentemente, Cass., SS. UU., 24 settembre 2018, n. 22435. La ricostruzione è sostenuta a partire da Cass., SS. UU., 23 marzo 2011, nn. 6594, 6595 e 6596.

[25] Vedasi Cass., SS. UU., 4 aprile 2016 n. 6450 e Cass., SS. UU., 22 giugno 2017 n. 15640.

[26] Requisito affermato dalla Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204 e oggi codificato all’art. 7 c.p.a.

[27] Ad esempio, Cons. Stato, agosto 2016 n. 3755 e Cons. Stato, 13 aprile 2017, n. 1713.

[28] Vedasi, per una ricostruzione completa, R. CHIEPPA-R. GIOVAGNOLI, cit., pp. 941 ss.

[29] Il riferimento è, ancora, all’Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5.

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