Il tema della responsabilità da trasfusione infette di sangue o di prodotti emoderivati ha avuto ampia risonanza nell’ultimo decennio. Ciò in quanto, sin dai primi anni Duemila, una vasta platea di pazienti hanno manifestati gravi sintomi correlati a malattie trasmissibili per via ematica, contratte decenni prima ma fino ad allora latenti. A ciò è seguita una densa attività giurisdizionale di ricostruzione della vicenda, culminata nell’individuazione quale causa dei virus trasmessi (in particolare, HBV, HCV e HIV) di trasfusioni avvenute nel corso degli anni ‘60, ‘70 ed ‘80. Il filone giurisprudenziale che ne è derivato, avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti ai pazienti in ragione del contagio con tali agenti patogeni, ha intrapreso la via della completa definizione soltanto negli ultimi anni. Pertanto, pare opportuno evidenziare gli approdi giurisprudenziali che si sono consolidati in materia, facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Tribunale di Roma nella veste di foro erariale.
La natura della responsabilità in caso di trasfusioni di sangue e prodotti emoderivati infetti
In materia di responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti a contagio infettivo da HBV (epatite B), HCV (epatite C) e HIV (AIDS) contratto per effetto di trasfusioni o somministrazioni di prodotti emoderivati, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anzitutto ricostruito la natura della responsabilità, stabilendo che per i danni conseguenti ad infezioni contratte da soggetti emotrasfusi, danni derivanti dall’omessa vigilanza da parte dell’Amministrazioen statale sulle sostanze ematiche e sugli emoderivati, la responsabilità del Ministero della salute ha natura extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.[1].
Le stesse pronunce hanno invece escluso la configurabilità di una responsabilità derivante dall’esercizio di un’attività pericolosa di cui all’art. 2050 c.c.. Infatti, pur essendo indubbio il connotato di pericolosità nella pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, “ciò non si traduce nella pericolosità anche della correlata attività di controllo e di vigilanza cui è tenuto il Ministero della salute; ne consegue che la responsabilità di quest’ultimo per i danni conseguenti ad infezione da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per omessa vigilanza da parte dell’Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati è inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all’art. 2043 cod. civ. e non in quella di cui all’art. 2050 cod. civ.”[2].
Come più diffusamente si vedrà in seguito, nella ricostruzione del quadro normativo, il Ministero della salute è dunque titolare di obblighi di controllo in materia di prodotti, e non vi sono analoghi obblighi in materia posti in capo alle Regioni o alle Aziende Sanitarie Locali. Pertanto, la violazione di questi obblighi espone il solo Ministero della salute al risarcimento dei danni che ne siano derivati.
La circostanza che l’evento lesivo del contagio sia avvenuto all’interno di un presidio ospedaliero e sia dipeso dalle attività poste in essere dai suoi operatori sanitari non rileva in alcun modo e non è idonea, da sola e in assenza di precisi riferimenti normativi in tal senso, a fondare una qualche responsabilità aquiliana dell’ospedale, della relativa Azienda Sanitaria Locale ovvero della Regione. Tutti questi soggetti non sono infatti tenuti al rispetto di specifiche norme cautelari in materia di controllo dei prodotti emoderivati.
Infatti, “in materia di danno da emotrasfusione, l’unico legittimato passivo a titolo di responsabilità extracontrattuale è il Ministero della salute, mentre in capo al medico responsabile del trattamento ed alla struttura ospedaliera, sia essa pubblica, privata o convenzionata, residua una responsabilità esclusivamente di tipo contrattuale, rispettivamente in forza del c.d. “contatto sociale qualificato” e del modello contrattuale atipico definito di “spedalità””[3].
La responsabilità del medico, della struttura sanitaria e della ASL può dunque ritenersi sussistente a titolo contrattuale, non tanto nel caso in cui l’emotrasfuso lamenti la violazione degli obblighi di controllo da parte dell’Amministrazione in sede di raccolta e produzione di prodotti ematici, bensì nell’ipotesi in cui, pur avendo il Ministero della salute osservato tutte le regole di cautela impostegli, il paziente abbia ugualmente contratto il virus per ragioni attribuibili alla condotta del personale sanitario[4].
Sul punto, secondo la Suprema Corte, “incorre in responsabilità contrattuale, imputabile anche alla struttura sanitaria, il medico che, in mancanza di una situazione di reale emergenza e senza infromare adeguatamente il paziente del rischio obiettivo che tale pratica terapeutica presentava, abbia eseguito una trasfusione di sangue a causa della quale il paziente abbia contratto un’infezione”[5].
Nel caso di una domanda per il risarcimento dei danni a titolo contrattuale nei confronti della struttura ospedaliera o del medico che ha operato la trasfusione, non sarà in discussione la perizia dell’operatore, ma la sua negligenza ed imprudenza nel sorvegliare il rispetto delle regole di reperimento e registrazione del materiale ematico. In tal caso, il danneggiato dovrà provare soltanto il contratto o il contatto sociale da cui deriva la responsabilità, allegare l’inadempimento della struttura o dell’operatore sanitario e dimostrare il nesso causale tra inadempimento e i danni lamentati. Il sanitario o la struttura ospedaliera dovranno invece dimostrare la diligenza nell’esecuzione dei trattamenti sanitari e che, dunque, il contagio sia dovuto ad eventi imprevisti ed imprevedibili ad essi non ascrivibili[6].
Quando, al contrario, non si lamenti alcun inadempimento del contratto di spedalità da parte della struttura sanitaria e dei suoi operatori, né si contesti una mancata o inesatta esecuzione delle prestazioni sanitarie ricevute, ma si agisca unicamente per non aver, a monte, in sede di raccolta del sangue, vigilato sulla sua salubrità, non può essere riconosciuta alcuna responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, al medico, alla struttura sanitaria e all’Azienda Sanitaria. In altre parole, il risarcimento dei danni sofferti in ragione del mancato controllo sulle sacche di sangue va valutato esclusivamente con riguardo ai profili di responsabilità per la violazione degli obblighi in materia di controllo degli emoderivati.
Posto che tali attività incombono soltanto sul Ministero della salute e questi è il solo ente tenuto all’osservanza degli obblighi di protezione della salute umana dai rischi di contagio trasfusionale, esso è l’unico responsabile, sia in via aquiliana che per contatto sociale. Eccepiscono a tale principio, come già detto, i casi in cui la mancata vigilanza o la mancata protezione derivino da un’omissione del personale sanitario.
Sempre con riguardo ad una responsabilità di natura contrattuale, essa non può neppure configurarsi in capo allo stesso Ministero della salute, poiché tale responsabilità deriva dall’inosservanza di un obbligo imposto dalla legge e, più in generale, dalla violazione del principio del neminem laedere[7], e non dalla violazione di un obbligo contrattualmente assunto. Né deriva da un contatto sociale con il paziente, poiché la normativa sanitaria si rivolge indistintamente a tutti i cittadini e, inoltre, è talmente articolata e puntuale che attribuisce al Ministero precisi obblighi di prestazione, non generici obblighi di protezione ex art. 1175 c.c.[8].
Il regime di prescrizione
Derivando da illecito civile, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno è di regola quinquennale ex art. 2947 c.c.. Ai sensi dello stesso articolo, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. Ebbene, nelle ipotesi di infezioni da HBV, HCV e HIV a seguito di trasfusioni con sangue infetto, eseguite presso strutture pubbliche o private, gli unici reati configurabili sono le lesioni colpose. La Suprema Corte ha infatti escluso che si possa configurare il reato di epidemia colposa, per mancanza dell’elemento soggettivo (volontaria diffusione di germi patogeni)[9]. Le lesioni colpose gravissime, anche in ambito sanitario, sono punite fino a due anni di reclusione, con una pena pertanto non idonea ad innalzare il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947, terzo comma, c.c..
Ciò trova conferma nella giurisprudenza di legittimità anche nel caso di successiva morte dell’emotrasfuso. Infatti, in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, “la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis, trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, reato a prescrizione quinquennale”[10].
Al contrario, per quanto riguardo il diritto al risarcimento del danno iure proprio subito dagli eredi, l’orientamento precedentemente maggioritario del Tribunale di Roma riteneva che “Allorché si verifichi la morte del soggetto già attinto da infezione HCV – e ciò per aggravamento della patologia originaria riconducibile eziologicamente alla emotrasfusione – si registra in sostanza un “nuovo evento” a partire dal quale si ha un autonomo decorso prescrizionale. La prescrizione in tal caso è a decorso decennale come per tutti i diritti acquisiti per via ereditaria e il “dies a quo”, ex art. 2935 c.c., va identificato nel giorno dell’apertura della successione o della morte del “de cuius””[11]. Inoltre, qualora al primo evento lesivo segua la produzione di ulteriori conseguenze pregiudizievoli, la prescrizione dell’azione risarcitoria per i danni conseguenti “decorre dalla loro verificazione (o dalla loro percezione …), a condizione che tali conseguenze non costituiscano un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto, ma la manifestazione di lesione nuova ed autonoma rispetto a quella esteriorizzatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile”[12]. Più in particolare, “L’evoluzione in cirrosi dell’epatopatia cronica attiva HCV correlata, con le conseguenti necessarie terapie anche molto invasive (quali il trapianto di fegato) costituisce uno sviluppo assolutamente prevedibile della malattia, sicché non sussiste in tal caso alcun evento “nuovo” idoneo a far decorrere dal suo manifestarsi un ulteriore termine prescrizionale”[13].
Pertanto, la prescrizione aveva sempre durata quinquennale, derivando da lesioni colpose, anche nel caso di successivo decesso dell’emotrasfuso, ma tale evento poteva avere un effetto interruttivo del termine ove non costituisse uno sviluppo assolutamente prevedibile della malattia.
A tale orientamento si contrapponeva un indirizzo minoritario, secondo cui “Il diritto al risarcimento del danno conseguente ad infezione HCV [è] modulato sulla prescrizione del reato ravvisabile: pertanto, il diritto del soggetto passivo del reato di lesioni personali colpose (ossia chi ha contratto la patologia post-trasfusionale) si prescrive in cinque anni, anche nell’ipotesi in cui la domanda risarcitoria sia proposta iure hereditario dall’erede del soggetto danneggiato e poi deceduto anche se in conseguenza dell’emotrasfusione infetta. Infatti, il danno del de cuius (per quanto fatto valere dall’attore iure hereditario) è pur sempre un danno da lesione colposa, con la conseguenza che, maturandosi la prescrizione per tale reato in anni cinque, e quindi non in un tempo maggiore di quello previsto dall’art. 2947 c.c., il termine per la prescrizione è quello fissato da tale ultima norma”[14].
Tale orientamento da ultimo citato è stato recentemente condiviso dalla Corte di Cassazione, per la quale il termine di prescrizione del danno iure proprio dell’erede dell’emotrasfuso deceduto è quello decennale. In particolare, la Corte ha ricordato che “il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 1, non essendo ipotizzabili figure di reato (epidemia colposa o lesioni colpose plurime) tali da innalzare il termine ai sensi del cit. art. 2947 c.c., comma 3”.
Invece, nel caso di decesso dell’emotrasfuso, va distinto il danno iure hereditario da quello iure proprio, nel primo caso trattandosi di un danno derivante dalle lesioni colpose, nel secondo caso di un danno derivante dalla morte. Infatti, “in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis, … mentre la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima iure proprio”, in quanto “ciò che qualifica la fattispecie ai fini del calcolo della prescrizione è, da un lato, il reato che viene invocato come presupposto (lesioni colpose ovvero omicidio colposo) e, dall’altro, il titolo che sta a fondamento della domanda. Pertanto, se i congiunti agiscono iure hereditatis, essi non possono far valere altro che il reato di lesioni, perché quello è il solo reato rispetto al quale il defunto avrebbe potuto avanzare una pretesa risarcitoria diretta; viceversa, qualora essi agiscano iure proprio, cioè chiedendo il risarcimento di un danno diretto da loro patito per la morte del congiunto, allora è invocabile il delitto di omicidio colposo, con la conseguenza che la prescrizione eventualmente più lunga valevole in sede penale è applicabile anche all’azione risarcitoria civile ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3”[15].
Quanto poi alla decorrenza del termine di prescrizione, il dato caratteristico di queste fattispecie è che le patologie che originano dalla condotta antigiuridica producono dei danni la cui manifestazione esterna è cronologicamente sfalsata (c.d. illeciti lungolatenti).
Pertanto, la decorrenza della prescrizione dell’azione di danno nei confronti del Ministero deve avvenire non dal giorno della trasfusione, né da quello in cui si sono rilevati i primi sintomi della malattia, ma dal giorno in cui il danneggiato ha avuto consapevolezza della riconducibilità del suo stato morboso alla trasfusione. Di norma ciò avviene con la proposizione della domanda di ammissione all’indennizzo previsto dalla l. 210/92, quando la vittima del contagio ha una sufficiente percezione sia della malattia, sia delle possibili conseguenze dannose.
In ogni caso, non rileva la personale convinzione del danneggiato in ordine all’ingiustizia del danno sofferto, ma piuttosto il grado di certezza che, secondo il giudice, il danneggiato avrebbe potuto acquisire con l’ordinaria diligenza sul danno sofferto e la sua derivazione. Pertanto, il termine può decorrere anche da un momento antecedente alla proposizione della domanda di indennizzo ogniqualvolta la malattia venga percepita quale ingiusta conseguenza di un comportamento doloso o colposo di un terzo[16].
Sul punto, “L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell’esteriorizzazione del danno può limitare ed impedire una piena comprensione delle ragioni che potrebbero giustificare l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti, sicché deve procedersi ad una rigorosa disamina delle informazioni cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza ragionevolmente completa circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio e della loro disponibilità in capo al convenuto”[17].
Invece, non assume rilievo “la data in cui il Ministero si pronuncia sulla richiesta di indennizzo di cui alla L. n. 2101992 per diversi ordini di motivi: perché offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perché potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi a decorrere anche a causa già iniziata, negando l’effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell’azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico legale”[18], né tantomeno per far valere il diritto al risarcimento contro l’Amministrazione “si deve attendere l’esito del procedimento amministrativo avanti alla C.M.O. in quanto l’art. 2935 c.c. pone un riferimento preciso alla conoscenda personale della vicenda afferente ad un atto illecito … e non esige una acquisizione di certezza amministrativa per far valere in giudizio il diritto al risarcimento. In caso contrario la decorrenza del termine prescrizionale sarebbe rimessa all’indeterminatezza di procedure estese nel tempo e non sarebbe più ricollegata alle situazioni obiettive connaturate alla conoscenza completa degli elementi descritti e alla diligenza del soggetto avente aspirazione alla tutela della sua posizione”[19].
Infine, nel diverso caso di un’azione di responsabilità contrattuale esperita nei confronti della struttura sanitaria o del singolo medico, l’attore può evidentemente usufruire dell’ordinario termine di prescrizione decennale[20].
Il quadro degli obblighi in capo al Ministero della salute.
Quanto alla normativa ritenuta violata dal Ministero della sanità[21], va rilevato anzitutto che, in base alla L. 14.7.1967, n. 592, esso era titolare di funzioni di direzione tecnica e di vigilanza sulle attività di raccolta, conservazione e distribuzione di sangue umano e di preparazione dei suoi derivati. In particolare, era tenuto a organizzare e coordinare i relativi servizi (art. 1), ad autorizzare l’istituzione di appositi centri nei quali svolgere materialmente dette attività (artt. 4, 5, 7, 11), ad affidare – fra gli altri – compiti di ricerca e di consulenza tecnica al Centro nazionale per la trasfusione del sangue, appositamente istituito (art. 8), a disciplinare l’organizzazione e il funzionamento dei servizi trasfusionali, nonché di raccolta, conservazione ed impiego dei derivati (art. 20) e, infine, ad autorizzare l’importazione e l’esportazione del sangue (art. 21).
Tali poteri, però, furono esercitati con colpevole ritardo: soltanto con il D.M. 18.6.1971 furono emanate le direttive tecniche per la determinazione dei requisiti del sangue umano e dei suoi derivati; con il d.P.R. 24.8.1971, n. 1256 fu adottato il regolamento di esecuzione della l. n. 592/1967[22]; con il D.M. 15.9.1972 vennero disciplinate le modalità di importazione e di esportazione del sangue, subordinando l’autorizzazione all’importazione all’accertamento della sussistenza, nel sangue, degli stessi requisiti stabiliti dal d.P.R. n. 1256/1971.
Inoltre, come già osservato dalla giurisprudenza del Tribunale di Roma[23], va ricordato che il Ministero della sanità – finalmente consapevole della pericolosità del sangue e degli emoderivati utilizzati a scopo terapeutico – aveva emanato la circolare n. 95 del 9.6.1970, nella quale raccomandava la rilevazione dell’antigene HbcAg nei donatori di sangue, resa obbligatoria solo nel 1978, nonché la circolare n. 50 del 28.3.1966, nel cui paragrafo F era evidenziata la necessità della determinazione sistematica e periodica delle transaminasi steriche dei donatori ai fini della prevenzione dell’epatite virale, con indicazione di una serie di regole e procedure da seguire sui donatori di sangue e raccomandazione del dosaggio delle transaminasi.
Già nel marzo 1966, dunque, con la circolare da ultimo richiamata, il Ministero della sanità era consapevole del rischio di contagio connesso alle trasfusioni e all’uso di emoderivati, tanto da avere emesso, in base ai poteri attribuiti dalla legge, tali limitazioni connesse alle conoscenze scientifiche dell’epoca, disciplinando i prelievi di sangue effettuati a fini di trasfusione e prescrivendo i controlli da compiere preliminarmente per impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto.
Tuttavia, il Ministero non solo non pose materialmente in essere concrete misure di vigilanza e controllo, atte a garantire il rispetto di tale circolare da parte delle case farmaceutiche e degli altri soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione del sangue utilizzato a scopi medici, ma soltanto con il D.M. 21.7.1990 (contenente misure dirette ad escludere il rischio di infezioni epatitiche da trasfusione di sangue) provvide ad imporre l’obbligo di effettuare lo screening per l’ALT (alanina transaminasi) sulle unità di sangue, ai fini proprio della ricerca indiretta degli anticorpi anti-HCV[24].
In considerazione di quanto sopra esposto, può ravvisarsi in tutti i casi di contagio avvenuti entro il luglio 1990 una responsabilità del Ministero della salute per aver omesso, o comunque ritardato, l’adozione di cautele già conosciute alla scienza medica, il cui impiego avrebbe evitato o quantomeno ridotto sensibilmente il rischio di contagio anche per il virus dell’HCV, a prescindere dal fatto che esso fosse stato esattamente identificato o meno all’epoca delle trasfusioni, e per avere tenuto un comportamento non diligente nei controlli e nell’assolvimento dei compiti affidatigli (ivi compresi quelli relativi all’attuazione del Piano sangue, previsto dalla l. n. 592/1967 e realizzato solo nel 1994).
Per eventi lesivi successivi, pertanto, non può essere convenuto in giudizio il Ministero della salute, posto che con tali provvedimenti lo stesso aveva adottato tutte le misure in proprio potere per la predisposizione di cautele sul trattamento di emoderivati, bensì i soggetti che tali cautele non hanno osservato.
Sugli obblighi in materia in capo al Ministero non ha influito il trasferimento delle funzioni amministrative in tema di salute umana dallo Stato alle Regioni, poiché sul punto l’art. 112, comma 3, lett. f), d. lgs. n. 112/1998 ha espressamente disposto che rimane “invariato il riparto di competenze tra Stato e regioni stabilito dalla vigente normativa in materia sanitaria per le funzioni concernenti: … f) il sangue umano e i suoi componenti, la produzione di plasmaderivati ed i trapianti”, come ribadito da Trib. Roma, n. 9305/2013.
Il nesso causale e l’elemento soggettivo.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, granitica sul punto, la responsabilità del Ministero decorre per tutte le infezioni (HBV, HCV, HIV) dalla scoperta del virus dell’epatite B, trattandosi in tutti i casi di un unico evento lesivo (lesione dell’integrità fisica dell’individuo), a nulla rilevando che i singoli virus responsabili delle infezioni HIV e HCV siano stati scoperti, rispettivamente, nel 1985 e nel 1989[25]. Successive pronunce[26] hanno poi ribadito tale indirizzo.
In particolare, con ampia e lucida motivazione, una recente pronuncia della Suprema Corte ha chiarito come debbano tenersi distinti l’accertamento del nesso causale da quello della sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito. Fermo restando il principio dell’unicità dell’evento lesivo in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto[27], la Suprema Corte ha puntualizzato che “deve mantenersi netta la distinzione fra causalità ed imputazione, la prima espressione della legge scientifica, la seconda espressione della legge giuridica. La causalità attiene al collegamento naturalistico di elementi accertato sulla base delle cognizioni scientifiche o più semplicemente logiche … L’imputazione corrisponde invece all’effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento o fatto sulla base di un criterio di valore. La colpa, quale parametro della condotta, si colloca chiaramente sul versante dell’imputazione. … La causalità attiene al piano dell’essere … l’imputazione inerisce a quello del dover essere”. E ancora, “una volta che l’inferenza probabilistica sia stata ricondotta al piano puramente causalistico … l’accertamento del più probabile che non viene svolto non ex ante, assumendo il punto di vista dell’agente sia pure in senso astratto, ma sulla base delle regole statistiche e/o scientifiche (o più semplicemente logiche) del tempo in cui viene formulato il giudizio dell’osservatore, il quale ha compito, oggettivo e neutrale, di accertare l’esistenza del nesso eziologico. Si tratta di provvedere ad un’esplicazione causale, e non a una predizione postuma”[28].
Pertanto, il giudizio probabilistico da porre a fondamento del processo causale va formulato oggettivamente, tenendo conto delle uniformità naturali e sociali che sono oggetto del patrimonio di conoscenza umana al tempo in cui il giudizio viene reso e non con riferimento all’epoca dell’azione o omissione oggetto di valutazione, poiché “ciò che rileva ai fini del giudizio sul nesso causale è l’evento obiettivo dell’infezione e la sua derivazione probabilistica dalla trasfusione”[29].
Al contrario, la prevedibilità dell’evento dannoso, va valutata alla stregua delle migliori conoscenze scientifiche all’epoca di produzione del preparato, in quanto è un profilo che attiene all’elemento soggettivo dell’illecito[30] e rileva in punto di colpa[31].
Dunque, l’indagine sull’elemento causale va condotta oggettivamente e sulla base delle conoscenze scientifiche possedute al momento della decisione giudiziale, mentre l’indagine sull’elemento soggettivo va condotta in base alla prevedibilità dell’evento dannoso al momento della condotta lesiva tenuta dal danneggiante.
Quanto al nesso di causalità, esso è regolato dall’applicazione dei principi generali sulla causalità di fatto, delineati negli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla “causale adeguata”, in assenza di altre norme dell’ordinamento in tema di nesso eziologico configurabile. Tuttavia, mentre nel processo penale vale la regola probatoria della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige quella della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”. Ne consegue che il giudice, accertata l’omissione delle attività di controllo dei prodotti emoderivati da parte del Ministero all’epoca di produzione del preparato ed accertata l’esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causata dell’insorgenza della malattia e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento[32].
Più di recente, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che il giudice di merito è sollevato dall’accertamento del nesso causale nel caso in cui lo stesso sia già stato dichiarato dalla Commissione Medico Ospedaliera del Dipartimento Militare di Medicina Legale presso il Ministero della Difesa, cui spetta riconoscere gli indennizzi derivanti dagli eventi lesivi di contagio. Infatti, “in tema di danni da emotrasfusioni, nel giudizio promosso dal danneggiato contro il Ministero della salute, l’accertamento della riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, compiuto dalla Commissione di cui all’art. 4 della l. n. 210 del 1992, in base al quale è stato riconosciuto l’indennizzo ai sensi di detta legge, non può essere messo in discussione dal Ministero, quanto alla riconducibilità del contagio alla trasfusione o alle trasfusioni individuate come causative di esso, ed il giudice deve ritenere detto fatto indiscutibile e non bisognoso di prova, in quanto, essendo la Commissione organo dello Stato, l’accertamento è da ritenere imputabile allo stesso Ministero”[33].
Nell’accertamento del nesso causale si deve altresì tener conto del decorso temporale di regola necessario per la manifestazione dei primi sintomi della malattia, pari a circa venti anni. Ciò permette anzitutto di escludere, con ogni probabilità, che eventuali interventi chirurgici subiti dall’emotrasfuso in un tempo risalente abbiano una qualche efficienza causale nel contagio con i virus della HBV, HCV e HIV.
Per giunta, l’eventuale compatibilità del riscontro della malattia con l’arco temporale, normalmente ventennale, necessario alla manifestazione dei primi sintomi, nonché l’assenza di eventuali fattori alternativi di rischio infettivo (abitudini di vita potenzialmente rischiose, analoghi interventi chirurgici con emotrasfusioni nello stesso arco temporale, condotta sessuale promiscua) che siano documentati consentono ex se al giudice di merito di ritenere provata la derivazione causale della malattia dalla trasfusione di sangue o dall’assunzione di prodotti emoderivati.
Neppure può condividersi la tesi, ormai consueta nella giurisprudenza e spesso avanzata dal Ministero, secondo cui il nesso causale debba ritenersi interrotto in ragione delle cause di giustificazione del consenso dell’avente diritto, della forza maggiore e dello stato di necessità, nonché in ragione dell’imprevedibilità dell’evento lesivo in base alle conoscenze scientifiche all’epoca delle trasfusioni. Su quest’ultimo aspetto, che attiene all’elemento soggettivo dell’Amministrazione, v. infra.
Quanto alle possibili cause di giustificazione, che non recidono il nesso causale ma, al più, scriminerebbero l’illecito, esse non sono state accolte dalla giurisprudenza di merito. Il paziente, infatti, presta il proprio consenso al trattamento sanitario condotto secondo le leges artis della medicina ed in conformità delle varie normative in materia sanitaria, non invece al trattamento sanitario che le violi. In ogni caso, egli presta consenso nei confronti della struttura sanitaria presso la quale riceverà le più adeguate cure, non invece del Ministero. Né peraltro, in ragione del consenso informato al trattamento sanitario, il Ministero potrebbe mai dirsi sollevato dall’osservanza degli obblighi di legge sui prodotti emoderivati.
Quanto alle altre cause di giustificazione, stato di necessità e forza maggiore, esse potrebbero essere invocate al più dalla struttura sanitaria che, operando in una situazione di imminente ed inevitabile pericolo grave di danno alla salute o alla vita del paziente, dimostri di essere stata costretta all’utilizzo di prodotti emoderivati lesivi o potenzialmente infetti per salvaguardare la vita del paziente nell’immediatezza del pericolo, in assenza di alternative lecite. Tali scriminanti non possono invece essere fatte proprie dal Ministero che, sin da prima dell’effettivo utilizzo degli emoderivati in un futuro trattamento sanitario e ben prima dell’insorgere di un eventuale pericolo per la salute del paziente, era tenuto all’osservanza delle attività di controllo imposte dalla legge su tali prodotti.
Quanto invece all’elemento soggettivo, la Suprema Corte ha affermato la responsabilità colposa del Ministero anche con specifico riguardo a terapie trasfusionali praticate in epoca anteriore al 1978, anno della scoperta del virus dell’epatite B, argomentando dal fatto che sin dalla fine degli anni ’60 – inizi anni ’70 fossero già ben noti il rischio di trasmissione di epatite virale e la rilevazione indiretta dei virus mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAg, e che sin dalla metà degli anni ’60 era preclusa la donazione di sangue a coloro i quali presentassero indicatori della funzionalità epatica (transaminasi e GPT) alterati rispetto ai limiti prescritti. In particolare era precluso l’uso di sangue umano da donatori transaminasi superiori a 30 U/l, nel fondato sospetto che il donatore potesse essere portatore di virus epatici[34].
Pertanto, posta l’ampia conoscenza dei rischi infettivi derivanti dalle trasfusioni di sangue poste in essere alla fine degli anni ‘60, in considerazione dell’incauta somministrazione di sangue in violazione di specifiche regole di cautela e della prevedibilità del rischio cui si esponevano i pazienti riceventi, anche l’elemento colposo deve ragionevolmente considerarsi sussistente in capo al Ministero almeno per tutte le trasfusioni infette avvenute tra il marzo ’66 (periodo di emanazione della predetta circolare) e il luglio ’90 (periodo di effettiva adozione delle norme cautelari della raccolta del sangue nel caso di alterazione delle transaminasi).
La compensatio lucri cum damno tra il risarcimento del danno alla salute e l’indennizzo riconosciuto ex l. n. 210/1992.
Infine, quanto al danno non patrimoniale, che va dunque onnicomprensivamente liquidato conformemente ai noti principi enunciati da Cass. sez. un. 11.11.2008, n. 26972, corre l’obbligo di chiarire che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all’attribuzione indennitaria regolata dalla l. 210/92[35], sicché il diritto all’equo indennizzo ex lege n. 210/1992 e il diritto al risarcimento ex art. 2043 c.c. concorrono.
Tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo[36].
L’indennizzo può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum[37], posto che l’astratta spettanza di una somma non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare, né il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare il preciso importo da portare a decurtazione del risarcimento, in mancanza di dati specifici[38].
Infine, pare opportuno chiarire che la compensatio non va effettuata nel caso di risarcimento del danno riconosciuto agli eredi del de cuius iure proprio, a causa della perdita del rapporto parentale[39].
[1] Cass. Sez. Un. 11.1.2008, nn. 576-585.
[2] Cass. Sez. Un. 11.1.2008, n. 576.
[3] Cass. III, 1.12.2009, n. 25277; Cass. Sez. Un. 11.1.2008, nn. 576 e 577; Cass. 31.5.2005, n. 11609.
[4] Come nel caso di somministrazione di sangue infetto raccolto d’urgenza in sede nosocomiale, ovvero nel caso di somministrazione di sangue originariamente sano ma successivamente contaminato per l’omessa pulizia dei materiali o delle attrezzature; più in generale, tutte le ipotesi in cui l’infezione fosse presente nella struttura ospedaliera e non, invece, a causa della predisposizione di cautele da parte dell’Amministrazione dello Stato.
[5] Cass. III, ord. 22.1.2019, n. 1567.
[6] Cass. 24.5.2006, n. 12362; Cass. 19.4.2006, n. 9085.
[7] Cass. sez. un. nn. 576 e 581/2008.
[8] Trib. Roma, n. 4470/2013 e Trib. Roma, n. 16493/2013.
[9] Cass. Sez. Un. 11.1.2008, nn. 576-585.
[10] Cass. n. 5964/2016.
[11] Trib. Roma n. 1755/2015; Trib. Roma n. 1838/2015; Trib. Roma n. 1755/2015; Trib. Roma n. 18645/2014; Trib. Roma n. 10381/2013.
[12] Trib. Roma n. 15334/2012; Trib. Roma n. 18329/2013; Trib. Roma n. 15020/2010.
[13] Trib. Roma n. 24533/2013; Trib. Roma n. 15048/2013.
[14] Trib. Roma n. 20913/2013.
[15] Cass. n. 5964/2016.
[16] In particolare, Cass. sez. un. 11.1.2008, nn. 576 e 585; Trib. Roma, n. 16000/2014; Trib. Roma, n. 24533/2013; Trib. Roma, n. 20264/2013.
[17] Trib. Roma n. 15334/2012.
[18] Trib. Roma n. 8341/2014.
[19] Trib. Roma n. 1872/2015; Trib. Roma n. 4900/2015.
[20] Cass. III, 1.12.2009, n. 25277.
[21] Istituito dalla legge n. 296 del 13.3.1958, con il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica e di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, anche avvalendosi dell’Istituto superiore di sanità, quale organo tecnico-scientifico.
[22] Le norme del titolo III, artt. 44 e ss., riguardano specificamente la raccolta, la distribuzione e la conservazione del sangue.
[23] Trib. Roma n. 11511/2012.
[24] Negli stessi termini, v. anche Trib. Roma, 30.4.2013, n. 9195 e 26.7.2012, n. 15344, emesse in casi di trasfusioni con sangue infetto praticate, rispettivamente, nel giugno 1966 e nell’agosto 1971.
[25] Cass. Sez. Un. 11.1.08, nn. 576-585; conf. Cass. lav., ord. 4.2.2016, n. 2232; Cass. III, ord. 13.7.2018, n. 18520.
[26] Cass. 4.2.2016, n. 2232; 11.7.2017, n. 17084; 31.1.2018, n. 2337.
[27] Come enunciato dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 576-585 del 2008, che hanno ritenuto irrilevante la denominazione dell’infezione – HBV, HCV, HIV – e determinante la sua riconducibilità, sul piano causale, alla trasfusione.
[28] Cass. 11.7.2017, n. 17084.
[29] Cass. 31.1.2018, n. 2337.
[30] Le medesime Cass. n. 17084/2017 e Cass. n. 2337/2018.
[31] Cfr. anche Cass.VI, 13.12.2018, n. 32372.
[32] Cass. Sez. Un. 11.1.08, nn. 576-585.
[33] Cass. 15.6.2018, n. 15734.
[34] Cass. 9.4.2015, n. 7126; 2.4.2015, n. 6746; 8.10.2014, n. 21256; 28.2.2014, n. 4785; 30.8.2013, n. 19995; 14.6.2013, n. 14932; 29.8.2011, n. 17685; 20.4.2010, n. 9315; Trib. Roma, n. 22307/2014.
[35] Di cui alla predetta C.M.O. presso il Ministero della Difesa.
[36] Cass. Sez. Un. 11.1.08, nn. 576-585, ribadito da Cass. Sez. Un. 22.5.2018, n. 12564.
[37] Cass. 22.8.2018, n. 20909; Trib. Roma n. 1838/2015.
[38] Trib. Roma n. 22544/2014; Trib. Roma n. 12326/2014; Trib. Roma n. 14033/2014; Trib. Roma n. 12315/2014; Trib. Roma n. 20789/2014; Trib. Roma n. 13235/2014; Trib. Roma n. 10448/2014; Trib. Roma n. 10451/2014; Trib. Roma n. 16597/2014.
[39] Trib. Roma n. 15020/2010.