Scambi senza accordo, filosofia o diritto? Riflessi sull’evoluzione delle invalidità negoziali e sul ruolo del giudice, alla luce dei processi di armonizzazione di matrice europea.
Forse mai il dibattito dottrinale giuridico ha conosciuto tali autorevoli e ferme obiezioni, critiche ed auspicate correzioni ad una teoria che, comunque, al netto delle stesse, ha avuto di certo il merito di far parlare di sé, il che non è quasi mai un male.
Ci si riferisce alla teoria degli “scambi senza accordo” di Natalino Irti, apparsa per la prima volta nel 1998 su una famosa rivista scientifica[1] e che ha sollevato un interrogativo sull’intima natura delle negoziazioni, nel tempo, ormai più che presente, degli scambi di beni e servizi tramite connessione telematica o informatica.
L’Autore si sofferma lungamente sui problemi che il diritto subisce a causa della globalizzazione, sugli esiti che tale fuga dal confortevole recinto degli ordinamenti nazionali ha sulla stabilità delle teorie Kelseniane e, per quel che più interessa ai fini della presente trattazione, sulla erosione incontrovertibile di una visione del contratto quale unico luogo di incontro dei consensi nonché sul superamento della equivalenza che lega i suddetti concetti di contratto e consenso.
Nello specifico, guardando con concretezza agli avvenimenti cui si confronta il giurista, è certo che la evoluzione tecnologica ha dato luogo ad una progressiva ed aggressiva dematerializzazione dei luoghi e degli spazi di contrattazione, fino alla minimizzazione o addirittura alla definitiva sublimazione del dialogo tra le parti. Tale fenomeno ha denotato una vistosa inadeguatezza del nostro sistema codicistico a far fronte alle nuove tendenze del mercato degli scambi. Il codice civile sembra, forse per la prima volta in maniera reale, poco adeguato a dare soluzione a problemi troppo lontani dalla sua logica lineare e fondata su un sistema economico di cui non rimangono che vestigia.
Numerosi sono stati gli interrogativi che l’assimilazione di tali fenomeni giuridici all’interno dell’ordinamento di diritto civile italiano ha destato, tra questi c’è di certo quello della concreta e precisa individuazione del momento in cui avviene la stipulazione dei contratti telematici. Ci si domanda se il contratto concluso online si perfezioni con il “click” del mouse del proprio computer oppure per mezzo di tale modalità abbia luogo la conclusione tramite inizio di esecuzione ex art. 1327 c.c. che si cristallizza al momento della spedizione del bene.
Complicato è, inoltre, dare una qualificazione giuridica ad una serie di avvenimenti che si verificano abitualmente nella contrattazione telematica, come il rilascio della ricevuta da parte del sito del venditore, oppure, ancora, la prenotazione della merce inserita nello spazio virtuale denominato convenzionalmente “carrello” e riservata all’utente per un tempo variabile (solitamente 30 minuti), come se il venditore rimuovesse per quel tempo il bene dalla sua vetrina digitale, sottraendolo momentaneamente dall’offerta al pubblico.
Ebbene, Irti ha ipotizzato due strade che lo studioso può battere per uscire dall’impasse della qualificazione degli atti telematici che tendono allo scambio:
- una prima alternativa consiste nel considerare queste forme di scambio come estranee all’area del contratto, qualificandole come atti unilaterali ancora incapaci di dare luogo da sé ad un negozio giuridico patrimoniale che, per forza di cose, dovrebbe sostanziarsi solo in un indefinito momento successivo;
- in secondo luogo, si possono considerare tali comportamenti ed atti come interni al contratto, distinguendo, appunto, le nozioni di contratto e di consenso, tradizionalmente avvinte da un legame che sembra ontologicamente indissolubile.
È quest’ultima la via preferita dallo studioso citato, percorrendo la quale egli vuole includere nel contesto contrattuale anche gli atti unilaterali che siano però caratterizzati da una peculiarità fondamentale: la convergenza sulla medesima cosa. Così si produce l’ardita conseguenza di concepire un contratto che non sia consensuale.
Eresia per alcuni, per molti a dire il vero. Ad essere sinceri, anche soltanto a riportare le suddette tesi eversive, pure a chi scrive corre un rapido brivido lungo la schiena. Tale accidente deriva inevitabilmente dalle acerbe percezioni che hanno i giuristi ancora in giovane età. Essi hanno di frequente la volontà di spingersi oltre, affascinati da vie diverse o poco battute, ma alternano tale vera e propria smania con il ripercorrere i propri passi per rifugiarsi tra le confortevoli pieghe delle più salde teorie tradizionali.
Così, al contatto sociale, contatto tra i soggetti del diritto, si aggiungerebbe quindi un altro tipo di contatto giuridicamente rilevante. Esso ha luogo tra i soggetti, ciascuno nella sua intimità e solitudine, e una cosa, la medesima, creando un rapporto particolare quanto inedito a struttura poligonale tra soggetti ed oggetti del diritto.
Le conseguenze di questa tesi sono legate all’assenza del consenso, senza il quale, conseguenza non poco rilevante, vengono meno tutti i suoi vizi, siano essi quelli canonici dell’errore, violenza e dolo oppure quelli c.d. incompleti che possono dare luogo solo al risarcimento danni. Si produce, in questo modo, l’effetto della consistente riduzione dell’armamentario di tutela per il contraente. Questa perdita potrebbe essere unicamente sopperita per il tramite dell’intervento positivizzante del legislatore il quale avrebbe l’onere di licenziare delle norme, imperative, che tutelino maggiormente il contraente e colmino il vuoto creatosi.
In tal modo verrebbe a perdere valore l’autonomia delle parti la quale non assurgerebbe più a faro che dirige la rotta di ogni disciplina negoziale ma si darebbe luogo ad una protezione imposta rigidamente per via legale e con gli effetti tranchant tipici della nullità di diritto privato. Ciò, è evidente, provocherebbe una forte intrusione delle forze dell’ordinamento nella fenomenologia della espressione delle volontà dei singoli.
Questo il quadro sintetico degli effetti della teoria irtiana. Essa di per sé potrebbe, tuttavia, essere liquidata, come già si è fatto[2], semplicemente spiegando che il contratto non deve avere per forza natura dialogica ma può estrinsecarsi tramite un accordo che si sostanzia in altre forme ed in altre fogge. Lì dove Irti non rinviene il consenso, in realtà, esso potrebbe comunque ritenersi presente seppure non caratterizzato dal dialogo delle parti le quali, tuttavia, dirigono vicendevolmente la propria volontà l’una verso l’altra tramite comportamenti silenziosi ed impliciti concretizzanti l’accordo, il consenso e quindi lo scambio.
Ciò a dire che c’è sempre un codice comunicativo che viene seguito da chi, per mezzo dello stesso, intende far conoscere le proprie intenzioni e, affinché si sostanzi il negozio, è bastevole che queste ultime si sovrappongano e convergano.
Tuttavia, la presente trattazione non si prefigge il compito (né ha l’ardire di ergersi a tanto) di vagliare ancora, alla luce delle recenti evoluzioni della tecnica contrattuale e delle tendenze dei mercati, la sostenibilità di tali tesi, neppure si propone di indagare se i destinatari elitari della suddetta riflessione siano gli studiosi della filosofia del diritto, per non dire i filosofi del diritto, oppure gli operatori, anche pratici, della legge.
Niente di tutto ciò.
Piuttosto è interessante che, al di là della sostenibilità della tesi collocata nel contesto ordinamentale nostrano e attuale, si evidenzi la lungimiranza della predizione di una tendenza, della visione di un disegno che, nel corso degli oltre venti anni che ci separano ormai dalla prima stesura della teoria degli scambi senza accordo, ha trovato conferma della sua concretezza nelle tendenze del diritto nazionale e sovranazionale.
Infatti, bisogna riconoscere alla teoria irtiana di aver ben compreso la direzione che stava prendendo il mondo del diritto, con importanti riflessi nell’ambito delle invalidità negoziali.
Il tempo ha dato ragione a Irti quanto alla individuazione di due importanti tendenze: la prima è certamente la prolificazione delle nullità contrattuali; la seconda è la tendenza, propria soprattutto del diritto sovranazionale dei processi di armonizzazione, ad elevare le c.d. norme di comportamento a regole capaci, se violate, di produrre non più soltanto obbligazioni risarcitorie, ma nullità, con conseguente compressione degli ambiti di operatività della libertà negoziale e dell’autonomia delle parti nonché mutamento sostanziale del ruolo del giudice dinanzi alla violazione generica di norme.
L’evoluzione dell’approccio giuridico alle norme di comportamento
La categoria delle c.d. norme di comportamento, che si oppone alle norme che vengono definite di validità, nasce dalla necessità di perimetrare la possibilità che dalla violazione di una norma derivino effetti esiziali quali quelli della declaratoria di nullità. Quest’ultima si qualifica come la regola nell’universo dei vizi negoziali, qualificatasi nella storia del diritto civile quale antonomastica reazione degli ordinamenti al più elementare e più facilmente riscontrabile difetto dell’accordo, cioè la violazione di una norma, non qualsiasi, bensì imperativa, cioè inderogabile perché posta a protezione di valori fondamentali.
Con la distinzione tra norme di comportamento e di validità si evidenzia che è necessaria ancora una ulteriore distinzione: la violazione di non tutte le norme imperative dà luogo a nullità. Quest’ultima può esistere solo nel caso di violazione di norme di validità.
Tale necessaria riperimetrazione, più che essere frutto di una autoreferenziale sistemazione dottrinale che rinviene in sé stessa la propria ragion d’essere, è, al contrario, l’effetto della volontà di sottrarre all’autorità giudicante uno spazio operativo tendenzialmente illimitato una volta che il negozio sia sottoposto alla sua censura.
La violazione della norma comportamentale deriva necessariamente dalla violazione di obblighi cui deve conformarsi l’attività dei consociati al fine di non nuocere agli altri, quindi dalla trasgressione, su tutti, dei fondamentali obblighi di buona fede e correttezza.
Non è ignoto che i concetti di buona fede oggettiva e di correttezza abbiano sostanzialmente natura di clausole generali e siano caratterizzate da uno spettro di operatività tanto ampio quanto ne necessita la elasticità del sistema dei rapporti negoziali.
Pertanto, lasciare la possibilità al giudice di intervenire sul contratto determinandone la definitiva caducazione sulla base di concetti così estesi ed elastici, provocherebbe la definitiva eversione del sistema dei negozi giuridici e del principio della libertà negoziale delle parti. Esse non sarebbero più totalmente libere perché una qualsiasi violazione, che l’autorità giudicante ritenga inerente alla buona fede contrattuale, darebbe luogo a nullità rilevabile e dichiarabile d’ufficio, con conseguente vulnus alla stabilità degli accordi.
Il rimedio concesso a tali violazioni è storicamente quello del risarcimento del danno che opera una forma di riequilibrio dell’accordo senza intaccarne la validità e sussistenza intrinseche.
Ebbene, questo è ciò che accade nel diritto italiano cui si contrappone però una tendenza particolare che riguarda il diritto sovranazionale ed, in particolare, quei processi, più o meno embrionali, di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia contrattuale.
Draft of Common Frames Reference, la direzione del diritto europeo
Il Draft, come si evince dal nome inglese, è una bozza di quello che, in prospettiva, molti si auspicano sia in un futuro prossimo un vero e proprio progetto di codice di diritto privato europeo (Common Frame References) il quale, sulla base condivisa dell’aquis communautaire, si pone come scopo di regolare non solo la materia contrattuale, ma sostanzialmente quasi tutto il diritto privato compreso il diritto delle obbligazioni, l’illecito civile, i singoli contratti commerciali, le donazioni, i trust, gli arricchimenti senza causa ed altro. Viene qualificato come il tentativo, allo stato, più concreto di armonizzazione delle legislazioni nazionali dell’area UE, quello più capace di recepire le necessità di un diritto civile ormai mutato ed evoluto e di dare delle soluzioni, facendo tesoro delle recenti esperienze nazionali relative alle nuove forme contrattuali concluse soprattutto per via telematica[3].
Esso ovviamente si occupa anche dei vizi e dei rimedi che dovrebbero interessare i contratti e, nella specie, accoglie una nozione di nullità, nonché una concezione dell’autorità giudicante in tale materia, come ispirata da un approccio meno “monolitico ed anelastico”[4] rispetto alla scelta binaria tipica dell’art. 1418 del codice civile.
Infatti, il giudice italiano che si confronta con la norma del suddetto articolo, una volta rilevata la violazione della norma imperativa, è posto di fronte a due alternative obbligate relativamente alla sorte del contratto oggetto del suo giudizio: dichiarare la nullità, oppure non dichiararla solo se “la legge dispone diversamente”.
Quello che, invece, dovrebbe fare il giudice europeo, se così si vuole chiamare, o meglio il giudice nazionale “armonizzato”, è quello di confrontarsi con la violazione della norma, anche quella comportamentale, ed utilizzare lo strumento che ritiene più opportuno al fine di assicurare “an appropriate and proportional response to the infringement, having regard to all relevant circumstances” (DCFR, II, 7: 302).
Quello del DFCR è un giudice che è svincolato da limiti stringenti e guarda di più alla sostanza che alla forma, guidato dall’unico scopo di garantire una reazione appropriata dell’ordinamento alla violazione della norma. Può quindi spingersi alla declaratoria di nullità in presenza di violazione di norme comportamentali e, allo stesso modo, può operare rimedi manutentivi sul contratto anche in costanza di violazioni di norme imperative di validità che, secondo il nostro codice civile, darebbero luogo ad incontrovertibile nullità.
Quello di cui si tratta è, quindi, un giudice particolarmente avvezzo all’utilizzo della buona fede per la risoluzione delle incongruenze contrattuali, così come risulta anche dalle esperienze dei Principles of European Contract Law (PECL) nonché dei Principi Unidroit, i quali si pongono nello stesso solco del tentativo di prevedere delle regole contrattuali comuni che superino i confini nazionali dei singoli Stati. E’ ovvio che la buona fede ben si appresta al compito di costituire il collante che tiene insieme le più varie esperienze di diritto e che gode della malleabilità e della poliedricità connaturata ai principi generali.
Quella del ricorso a tale forma di nullità e della focalizzazione sulla buona fede, è, in modo evidente, una soluzione che garantisce elasticità in vista, appunto, dell’utilizzo delle norme del DFCR in ordinamenti eterogenei, per non dire caratterizzati da regole spesso diametralmente opposte. Tuttavia sembra incarnare la figura di un giudicante più che illuminato, cui il DFCR deferisce compiti che sono assorbenti delle naturali incombenze decisionali delle parti contrattuali, rendendolo definitivo decisore, se non despota, delle sorti del contratto in base a quello che egli, e solo egli, ritiene sia il rimedio più opportuno per la singola violazione. Questa è senz’altro una lettura che può definirsi oltremodo ottimista, per non dire vulnerata da colpevole ingenuità.
A margine di queste notazioni critiche sul ruolo del giudice, pur necessarie ed obbligatorie, deve d’altronde prendersi atto della tendenza di allargamento esponenziale dell’area della nullità la quale, nella visione europea, non conosce le distinzioni tra norme di comportamento e di validità, guadagnando così operatività anche in casi che le sarebbero preclusi secondo il diritto nazionale italiano.
A ben guardare, ciò è proprio quello che deriva dalla teoria degli scambi senza accordo: la fuga verso le nullità per venire incontro alle modificazioni delle forme di conclusione del contratto, senza accordo, o con accordo “ a struttura leggera” mutuando un’espressione che si riferisce all’art. 1333 c.c. quindi alla conclusione dell’accordo basato sul mancato rifiuto della proposta; in secondo luogo, quale necessario effetto, la rivisitazione del ruolo dell’autorità giudicante che si trova a fagocitare grosse frazioni di libertà negoziale in quanto unica responsabile di individuare non solo l’ampiezza operativa da riconoscere a clausole generali quali la buona fede, ma anche l’adeguatezza del rimedio da adoperare una volta che (anche) quest’ultima sia violata.
Abbiamo, quindi, dinanzi un giudice che è doppiamente libero di individuare da sé i confini del proprio operato e di prendere una decisione che si collochi all’interno dello spazio di vigenza dei suddetti limiti, estendo o restringendo i margini della buona fede secondo un giudizio che diventa sostanzialmente equitativo e, pertanto, doppiamente imprevedibile negli esiti.
Le nullità consumeristiche, una nota stonata oppure l’eccezione che conferma la nuova regola?
Un breve accenno merita la normativa consumeristica di cui al d. lgs. n. 206/05, la quale è disseminata ormai di nullità, nella specie di nullità di protezione, che tendono a garantire una favorevole posizione al soggetto che subisce le asimmetrie informative nei suoi rapporti con l’operatore professionale.
Tale specifica espansione dell’area delle nullità nel summenzionato ambito sembra, a dire il vero, muoversi nella direzione opposta rispetto a quella indicata nella presente trattazione.
In questo caso, infatti, il legislatore, pur ricorrendo alla nullità per eliminare con maggior rigore gli effetti degli scambi che siano viziati dalla violazione di norme, introduce una modifica peculiare al suo regime, utilizzando le c.d. nullità di protezione, necessariamente relative e pertanto operanti unicamente a favore del consumatore, solo ove egli lo voglia. Ciò determina la scissione delle prerogative tipiche del giudice in tema di contratto nullo, cioè la rilevazione e la dichiarazione della nullità. Il giudice, in costanza delle nullità di protezione, potrà solo rilevare la nullità e sottoporre alla volontà del consumatore la scelta sulla definitiva dichiarazione di invalidità.
Nel percorso che passa dalla disciplina consumeristica, a quella del c.d. terzo contratto, fino ad una definitiva ed auspicata regolazione di tutti i contratti “asimmetrici”[5], la tendenza espansiva della nullità si conferma ma è edulcorata dalle peculiari caratteristiche di protezione necessarie in contesti di debolezza di una parte contrattuale.
A ben vedere, tale ultima necessità di tutela del contraente debole la quale valorizza le volontà del contraente che ancora ha capacità di scelta sulle sorti del contratto seppur invalido, risulta essere tuttavia l’ultimo baluardo della tendenza verso la perdita di potere e di libertà contrattuale delle parti. Tale estremo avamposto non sembra poter reggere, però, all’urto delle tendenze già evidenziate, non fosse altro che per la natura speciale e derogatoria della normativa consumeristica la quale non è, per sua natura, idonea a determinare tendenze generali. Il motivo della particolare attenzione al soggetto debole nella contrattazione è l’eccezione che conferma la direzione che sta assumendo la disciplina delle invalidità negoziali, rotta che si è finora tentato di indicare nella presente trattazione.
Conclusioni: il tramonto del liberismo, l’eterno ritorno dell’uguale
E’ opportuno dar conto che i fenomeni evolutivi che ivi si riscontrano non sono il frutto di un isolato mutamento che ha ed ha avuto ad oggetto solamente la materia delle invalidità negoziali, bensì il risultato di una nuova concezione dei ruoli dei soggetti del diritto all’interno dell’ordinamento.
Le euforie liberiste che vedevano i soggetti contrattuali, in quanto operanti nel mercato, quali unici giudici, decisori e regolatori dei propri rapporti giuridici, salvi limiti estremi oltre i quali era un potere superiore ed a loro estraneo a ricondurre a legalità i rapporti e gli atti, sembrano tramontate per far posto ad una visione nuova, o meglio antica.
Si riscontra, infatti, un ruolo egemone dell’ordinamento, dei suoi creatori e soprattutto dei suoi regolatori, quindi del potere giurisdizionale che appare definitivamente capace di scalzare le parti contrattuali dal proprio ruolo tipico. Salvo i casi isolati di obbligo alla stipula (vedasi le ipotesi di operatore monopolista nel mercato) nonché dei c.d. prezzi imposti, in cui l’iniziativa e il contenuto del negozio sono in tutto od in parte predeterminati dalla legge, l’iniziativa contrattuale permane nella sfera decisionale delle parti, e non potrebbe essere altrimenti, pena la obliterazione di ogni più elementare principio di libertà.
Esse decidono se ed a quali condizioni concludere il contratto, l’equilibrio dello stesso, la propria convenienza.
Tuttavia, è negli effetti del contratto, quando esso è già stato concepito e concluso, e nella loro effettiva operatività che si inserisce questo nuovo ruolo dell’autorità giudicante per come essa è stata delineata nei paragrafi precedenti.
La tendenza intrusiva del giudice, quindi dello Stato per mano di quello, si riscontra in una serie di spinte tra le quali si possono annoverare, tra le altre, il tentativo di utilizzare la riduzione d’ufficio della penale ex art. 1384 c.c. anche per la caparra confirmatoria[6], la tendenza a mantenere in vita l’operatività del criterio della meritevolezza pur in costanza di una nozione di causa contrattuale di natura concreta e svincolata dal tipo[7], le pericolose conseguenze derivanti dal c.d. Caso Renault quindi sulla inoperatività di una clausola contrattuale lecitamente stipulata perché violativa della buona fede[8], o meglio procurante abuso del diritto nella situazione in cui si verifica il suo concreto utilizzo.
E’ facile rinvenire in tali tendenze lo spettro di un neodirigismo delle Istituzioni, che evoca alla memoria risalenti sistemi economici sovranisti, di uno Stato operante non direttamente sul mercato come attore ma quale terzo incomodo rispetto alle parti, titolare di un potere, o forse di un autoimposto dovere di intervento ex post sulle vicende contrattuali.
E’ forse questa la reazione al fallimento dei mercati come unico luogo della regolazione degli scambi, dimostrata dalla perdurante recessione economica internazionale innescata nell’anno 2006 dalla crisi dei mutui subprime, quale risultato della assenza di una regolazione governativa in materia di istituti di credito, quindi di un eccesso di libertà priva di adeguato controllo.
Sembra che il sistema giuridico non solo nostrano, ma anche sovranazionale ed internazionale, si ritenga ormai scevro dagli errori del passato, su tutti la c.d. fuga nelle clausole generali[9], che hanno storicamente condotto ad un incontrollato utilizzo della giustizia.
Appare questa la reazione di un sistema tracotante, che si ritenga emancipato dalle storture ontologicamente sottese all’incondizionato ampliamento di qualsiasi potere, e che si affidi troppo all’equilibrio dell’autorità giudicante. Quest’ultima, seppure siano evolute le garanzie che ne limitano il trapasso verso l’arbitrio, è composta, ora come allora, da componente umana e pertanto è soggetta ad errore ed incline all’abuso. Se quest’ultima fisiologica defaillance può essere accettata di buon grado lì dove è comunque necessario l’intervento di un soggetto terzo perché le parti non possono operare decisioni che siano neutrali rispetto ai propri interessi, lo è meno, o per niente, nel caso in cui il giudice sembra inserirsi in contesti in cui la neutralità non è necessaria ed anzi è bastevole la volontà delle parti ad operare la regolazione del contratto.
La conseguenza è sempre la stessa: è più desiderabile l’errore operato dal giudice piuttosto che quello prodotto dalle parti e sostanziantesi in un vulnus per il sistema.
Come si vede, questa non è certo una scoperta, non è sicuramente una innovazione importata dalle più recenti visioni. Dall’avvento della separazione dei poteri in poi è risultato evidente che tra il rischio dell’eversione del sistema e quello dell’errore del giudicante, è quest’ultimo il necessario ed ineliminabile male minore.
In verità, il problema fondamentale è ovviamente e sempre quello di individuare il limite, il confine tra la necessità e la dannosa sovrabbondanza di intervento estraneo ed eterogeneo rispetto alle volontà dei soggetti che si incontrano nel mercato e tramite strumenti giuridici danno luogo ad accordi giuridicamente rilevanti.
Bisogna, tuttavia, indagare quale significato ed estensione dare ai concetti di errore o di fallo, di violazione ed a quello di vulnus nella sua accezione più basilare di nocumento, danno al sistema.
Quando c’è vulnus al sistema? Quando la violazione della norma, latamente intesa anche come regola desunta dai principi, assurge ad un grado di gravità tale da consentire l’intervento del giudice?
Difficile la risposta a questa domanda e probabilmente essa è unicamente frutto del contesto storico-sociale durante il quale viene posta, quindi del volere del legislatore il quale modula, a seconda del momento contingente, le contromisure necessarie a reagire alle violazioni.
Tuttavia, si potrebbe tentare di replicarvi utilizzando altri criteri di riflessione. Il primo consegue all’ulteriore domanda sulla compatibilità di un tale ritorno dell’uguale, di nietzschiana memoria, con un contesto totalmente diseguale rispetto alle economie dirigiste del secolo scorso. Se le libertà dei singoli, in qualunque campo, si sono moltiplicate, o meglio sono state riconosciute in numero esponenziale, per il tramite dell’intervento delle Carte Costituzionali moderne nonché delle Convenzioni Europee, ha senso sottrarre spazi di libertà ed autonomia alle parti contrattuali?
E poi, cui prodest? Il famoso interrogativo introdotto da Seneca e poi sapientemente utilizzato da Cicerone nelle sue orazioni è forse quello che più di ogni altro si cala nella concretezza di qualsiasi diatriba.
A chi giova la iper-regolamentazione e il surplus di intervento giudiziale? Serve davvero ed a chi? La risposta a queste domande deve basarsi sullo stato dell’arte della legislazione vigente. E’ una questione volgarmente pratica e concreta con cui deve confrontarsi necessariamente ogni buona operazione esegetica.
Se si prescinde dal particolarismo dei singoli casi, dalla “giustizia del caso concreto”, e si adotta una visione generale dell’ordinamento, sicuramente non giova a nessuno, o meglio provoca più danni che giovamenti, ove il potenziamento dell’intervento del giudice si basi sull’indebolimento e la vaporizzazione dei limiti cui esso è sottoposto e ciò accade ogni volta che questi si sostanzino in clausole generali dalla natura elastica.
Ciò può facilmente dar luogo ad evidenti violazioni del principio di uguaglianza nonché ad una ulteriore depressione degli scambi commerciali a causa della fondata percezione che i soggetti avrebbero (e hanno) della instabilità di quanto decidono tra di loro con quella che dovrebbe essere una rassicurante “forza di legge”. Una clausola od un contratto potrebbero pertanto essere legittimamente stipulati ma non potrebbero essere azionati, oppure se azionati potrebbero essere censurati, a causa dell’intervento del giudicante il quale sia stimolato alla decisione dalla parte che magari non trovi più conveniente il patto concluso e se ne voglia sottrarre.
Al netto dei rimedi rescissori e risolutori, l’equilibrio del contratto sarebbe quello che le parti decidono essere, sempre che esso non si sottoposto al vaglio del giudice. In questo caso, alla valutazione delle parti si aggiungerebbe una valutazione dell’autorità giudicante che non si basa ovviamente sulla convenienza, spazio decisionale ontologicamente riservato alle parti, bensì sulla compatibilità dell’assetto negoziale con principi generali quali, su tutti, la buona fede nell’esercizio di clausole lecitamente stipulate ed attributive di poteri magari unilaterali, così come è accaduto nel recesso unilaterale del c.d. caso Renault.
Quindi la radice del problema non risulta essere l’intrusione in sé del giudice sull’equilibrio indicato dalle parti nel contratto, bensì il modo e le regole tramite le quali tale intrusione avviene.
Ciò ci conduce a chiudere il cerchio con quanto detto in merito alle invalidità nel diritto europeo armonizzato, o in attesa di armonizzazione, le quali sono lo specchio delle tendenze che la teoria degli scambi senza accordo aveva già indicato, preconizzando un universo del diritto civile non solo costellato di nullità, ma di nullità che derivano anche dalla violazione di norme comportamentali per sopperire all’assenza dei vizi di un consenso ormai evanescente.
Se la previsione delle nullità del DFCR non può allarmare in sé il giurista nazionale in quanto le prerogative di elasticità e di direzione anche verso violazioni di norme comportamentali sono il frutto della necessità di adattarsi ad una serie eterogenea di sistemi di diritto nazionale, il dato che deriva dal Draft è sostanzialmente preoccupante sotto il profilo dell’autonomia contrattuale se letto in combinato disposto con le spinte dirigiste di cui si è dato conto e che derivano dall’interpretazione, in tal senso orientata, del diritto nazionale italiano.
Quella di Irti era una teoria che spiegava tramite concetti giuridici il mondo degli scambi commerciali ed il suo evolversi, quindi operava sostanzialmente una rilettura descrittiva dei fenomeni. Partendo da ciò, si desume che la produzione di norme imperative, nonché il maggiore utilizzo di quelle presenti, siano le futuribili risposte al vuoto lasciato dai rimedi ai vizi di un consenso che non veniva più riscontrato esistente. In un tale contesto la nullità sarebbe stata l’unico sistema per aumentare la tutela dei singoli, non per diminuirla a discapito della certezza. L’unico detrimento sarebbe consistito nella compressione delle libertà negoziali che consegue all’introduzione di vizi più incisivi come la nullità. Il ruolo del giudice sarebbe stato funzionale a queste tutele.
Nella tendenza attuale si va oltre tale confine: se quella derivante dalla teoria irtiana era una soluzione, come detto, futuribile, accettabile perché de iure condendo quanto all’utilizzo dei rimedi della nullità, quella spinta che oggi si riscontra è figlia dell’applicazione di distorsioni ad un sistema che de iure condito non è in grado di sopportarle, pena la sua implosione.
Stando all’impalcatura del diritto civile italiano, ed ancor prima della Costituzione, non si può concedere all’autorità giudicante un ruolo ancor più preminente di quello che oggi le viene riconosciuto. Non lo si può fare a maggior ragione in base a clausole generali. Si deve così rifuggire, per quanto possibile, in via interpretativa una estensione dei casi di intervento del giudice sul contratto i quali, sebbene in determinati casi possano togliere d’impaccio l’ordinamento dinanzi a fisiologiche ingiustizie e storture, tuttavia provocano dei precedenti dalla portata eversiva di dimensioni incontrollabili.
Il rischio, è evidente, è quello della trasformazione di un diritto scritto, quale è il nostro, in un sistema che risulti sostanzialmente giurisprudenziale e che si preoccupi solo di utilizzare con semplicità, o meglio semplicismo, i principi e le clausole generali per porre rimedio all’ingiustizia del caso concreto. Ciò appunto innestando in maniera forzata sul diritto civile italiano delle concezioni che, seppur concettualmente accettabili e funzionali, necessitano di un lungo processo delibatorio e di un adeguamento strutturale dell’ordinamento che, allo stato attuale, non è neppure iniziato e che, ci sembra, difficilmente potrà mai iniziare.
Scambiare un sistema che, sebbene rigido e poco reattivo alle sfide che la modernità impone, garantisce tutele e certezze, con uno ibrido che mantiene certe pesanti impalcature ma che si picca di utilizzare clausole generali e principi costantemente sottoposti alla reinterpretazione del giudice, conduce ad esiti distruttivi.
Bisogna dar conto che questo è un discorso eminentemente pratico e che va compiuto al netto del rispetto e della riverenza dovuta alla tradizione giuridica italiana ed al suo immenso patrimonio di conoscenza e di esperienza nel campo dello studio del diritto, in quanto quello che si chiede al diritto contrattuale moderno è solo di funzionare, e di funzionare in maniera rapida per consentire scambi veloci, efficienti, che superino senza ritardi i confini nazionali cui non sono più legati, per consentire ad uno Stato ed alla propria economia di essere concorrenziale rispetto agli altri nel mercato globalizzato.
Ebbene, o si sceglie di accantonare secoli di tradizione giuridica e di volgersi all’elasticità tipica di altri sistemi di diritto, attraverso però un lungo percorso di cambiamento e di sradicamento di ogni concezione sedimentata nella cultura di ogni studioso del diritto nostrano, oppure, come si è evidenziato, tale soluzione ibrida non appare funzionare.
Pertanto, non vale la pena perdere l’identità per rincorrere soluzioni che non producono effetti positivi. E’ questo il monito conservatore che ci si sente di pronunciare in conclusione del presente lavoto.
In virtù di quanto detto, anche le norme del DFCR sono, allo stato, sostanzialmente incompatibili con il nostro diritto dei contratti.
Se, infatti, la distinzione delle norme di comportamento da quelle di validità nasce come reazione interpretativa alla necessità di evitare che il giudice si serva di clausole generali come la buona fede per sancire la nullità derivante dalla violazione di norme imperative, quindi per evitare l’intrusione del giudice nella libertà delle parti, viceversa con il riconoscimento della capacità di procurare nullità alla violazione delle regole di comportamento, allo stesso modo, si comprime la libertà negoziale sostituendo all’intrusione del giudice quella della norma, la quale a sua volta abilita il giudicante ad una valutazione avente gli estesi margini di operatività tipici delle clausole generali.
E’ evidente che il diritto europeo dei contratti tenda ad inoculare nell’ordinamento interno dei principi cui si è dovuto opporre un rigido argine ed intransigente rifiuto in via interpretativa come unica possibile reazione all’introduzione di un veleno che rischiava di intossicare tutto il sistema.
Ciò conduce al riconoscimento che quella insita nei tentativi di armonizzazione europea è solamente un’utopia, salvo una impensabile rinuncia al patrimonio giuridico nazionale, oppure, per essere ottimisti, quantomeno un’ardua sfida con la quale non si è neppure iniziato un processo di confronto serio. Sono, pertanto, più che lampanti i motivi che hanno condotto tali progetti ad arenarsi allo stato di mere bozze.
[1] N. Irti, Scambi senza accordo, in riv. Trim. dir. Proc. Civile, 1998, pag. 347 e ss. e ora in Id. Norma e Luoghi, Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2001, pag. 103 e ss.
[2] Le critiche autorevoli di cui si è detto in apertura del presente lavoro consistono in: G. Oppo, Disumanizzazione del contratto?, in Riv. Dir. Civ., 1998, I, p. 525 ss., cui è seguita la controreplica di N. Irti, “E’ vero ma…” (replica a Giorgio Oppo) in Riv. Dir. Civ. , 1999, I, p. 273 ss.; nonché la critica di C.M. Bianca, Diritto Civile, III, Milano, 2000 p. 43 e ss. cui è seguita la controreplica di N. Irti, Lo scambio di foulard, (replica semiseria al Prof. Bianca) in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 200°, p. 601 ss. su cui v. ancora C.M. Bianca, Acontrattualità dei contratti di massa?, in Vita not., 2001, p. 1120 ss.; e F. Gazzoni, Contatto reale e contatto fisico (ovverosia l’accordo contrattuale sui trampoli), in Studi in onore di C.M. Bianca, III, Milano, 2006, p. 313 ss. .
[3] G. Alpa, Un codice europeo dei contratti, quali vie d’uscita?”, in I contratti, 2007, p. 837 ss.; G. De Nova, Contratti senza Stato (a proposito del Draft CFR), in Riv. Dir. Priv. , 2008, p. 667; A. Somma, Verso il diritto privato europeo? Il quadro comune di riferimento nel conflitto tra diritto e diritti nazionali, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ. 2008, p. 1097 ss. .
[4] In tal senso testualmente C. Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi, in Europa e Diritto privato, 2008; nonché sulla stessa linea interpretativa De Nova, Clausole a rischio di nullità, Padova, 2009; R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2004.
[5] V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 769 ss; V. Roppo, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul “terzo contratto”), in Il contratto del duemila, 3a ed., Torino, 2011., p. 124; E. Navarretta, A. Orestano a cura di, Commentario al Codice Civile, Dei contratti in generale, Vol. II, Wolters Kluwer, 2011; A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti d’impresa e disciplina della concorrenza, in Studi in onore di Niccolò Lipari, Giuffrè, 2008.
[6] Si pone sia in dottrina che in giurisprudenza il problema della applicazione in via analogica, alla caparra confirmatoria, dell’art. 1384 c.c. prevista per la riduzione della penale iniqua. Alcuni ritengono certamente applicabile in via analogica il suddetto articolo abilitante la riduzione da parte del giudice, sulla base del valore totalizzante del principio di equità nell’ordinamento. La giurisprudenza tradizionale si è attestata su tesi negative sulla base della eccezionalità della norma sulla penale che deroga all’insindacabilità degli equilibri contrattuali, nonché su ontologiche differenze strutturali tra le due fattispecie. Recentemente, tuttavia, si è fatta largo una tesi che risulta ancor più eversiva di una semplice applicazione analogica di norme. Infatti è stata avanzata l’ipotesi dell’utilizzo della nullità parziale della caparra confirmatoria iniqua in quanto violativa della norma imperativa di cui art. 2 Cost., quindi del dovere costituzionale di solidarietà e buona fede, operante tra i contraenti. Tale tesi è stata avallata, seppur in obiter, da due ordinanze della Corte Costituzionale n. 248/13 e 77/14 sulle quali si veda il contributo di G. D’Amico, applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva” , Contratti, 2014, 10, nota a sentenza; nonché in generale i risalenti ma autorevolissimi contributi di: Mengoni, Diritto Vivente, in Jus, 1988, 19 e ss. ; Zagrebelsky, La dottrina del diritto vivente, in Giur. Cost., 1986, I, 1152 ss. .
[7] Si veda A. Gentili, Senso e consenso, storia, teoria e tecnica dell’interpretazione del contratto, Giappichelli, 2015; R. Sacco in R. Sacco, G. De nova, Il contratto, I, Torino, 1993; G. Grisi, L’autonomia privata, Milano, 1999; F. Di Marzio, Il contratto immeritevole nell’epoca del postmoderno, in Illiceità, immeritevolezza, nullità, aspetti problematici dell’invalidità contrattuale, a cura di F. Di Marzio, Napoli, 2004; V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001.
[8] Il Caso era il seguente: Tra il 1992 ed il 1996 una serie di concessionari della Renault Italia spa, furono revocati dalla stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum previsto dall’art. 12 del contratto di concessione di vendita sottoscritto dagli stessi. Poiché in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della Renault Italia spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati, con lo scopo di «programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla tutela e difesa, nonché alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d’auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio italiano». L’Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Renault Italia spa davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’abusivo recesso. Pervenuto in Cassazione il caso ha dato luogo ad una pronuncia molto discussa della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106) la quale ha riconosciuto violazione della buona fede (o meglio abuso del diritto) da parte della Renault Italia s.p.a. la quale ha azionato la clausola liberamente pattuita in contratto avente ad oggetto il recesso ad nutum dal contratto di concessione di vendita, riconoscendo responsabilità contrattuale in capo alla stessa e quindi liquidando la somma a titolo di risarcimento del danno a favore dei concessionari.
[9]Si veda, tra gli altri, F. Rosselli, Il controllo della cassazione civile sul l’uso delle clausole generali, Jovene, 1983; F. Ricci, Potere “normativo” dei privati, clausole generali e disciplina dei contratti, in a cura di M. Nuzzo, Il Principio di Sussidiarietà nel diritto privato, Giappichelli, 2014; V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Giuffrè, Milano, 2010; C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Riv.crit.dir.priv., 1986, 21 ss.; P. Rescigno, Appunti sulle clausole generali, in Riv.dir.comm., 1998, I, 1 ss. ; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Giappichelli, Torino, 2006, cap. I; E. Fabiani, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Utet, Torino, 2003 sul quale la recensione di A. Travi, in Diritto pubblico, 2005, 663 ss; S. Rodotà, Le clausole generali nel tempo del diritto flessibile, in A. Di Majo e aa., Lezioni sul contratto, raccolte da A .Orestano, Giappichelli, Torino, 2009, 97 ss. ; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv.crit.dir.priv., 1986, 5 ss. il quale testualmente evidenziava che “non ha avuto seguito la proposta di una ‘legislazione per principi’, del che non è il caso di dolersi se si considera il rischio che una legislazione di tal fatta porti lo Stato di diritto a degenerare in uno Stato giustizialista”.