Revirement sull’assegno divorzile: tornare indietro per andare avanti?

in Giuricivile, 2018, 12 (ISSN 2532-201X)

1. Contesto giurisprudenziale

E’ tendenza nota ai più, anche a coloro che non frequentano le aule giudiziarie e non occupano gli scranni universitari, quella del recente interesse della giurisprudenza di legittimità e di merito alla materia del diritto all’assegno di mantenimento divorzile.

Tuttavia non è così chiaro quali siano gli esiti dei nuovi approdi della giurisprudenza sul tema. Ci si vuole riferire agli effetti che questi ultimi hanno prodotto sul sistema del diritto della crisi coniugale i quali, lo si anticipa, sembrano privi di un nesso solido con la lettera e con la ratio originaria della norma di riferimento e cioè l’art. 5, comma 6 della L. n. 898/70 come modificata dalla L. n. 74/87.

Senza ripercorrere troppo a ritroso la storia del diritto di famiglia e della particolare relazione di coniugio, il cardine saldo degli orientamenti  giurisprudenziali degli ultimi trenta anni era costituito dalle storiche sentenze della Suprema Corte di Cassazione rese a Sezioni Unite n. 11489, 11490, 11491, 11492 del 1990[1] alle quali si sono ispirate tutte, o quasi, le decisioni che hanno avuto ad oggetto l’assegnazione del c.d. assegno di mantenimento dell’ex coniuge.

In maniera più che sintetica, deve ricordarsi che le suddette avevano sostanzialmente semplificato la disciplina del diritto al mantenimento post divorzile identificando come assistenziale la natura dell’assegno dovuto dal coniuge più debole ed oltrepassando, in maniera forse troppo netta ma con notevole effetto di semplificazione pragmatica, le tesi ed il dibattito passati che avevano visto come prevalente la teoria della natura mista, cioè contemporaneamente compensativa, risarcitoria e assistenziale, del summenzionato assegno.

Ciò che però ha segnato negli anni ed in maniera indelebile tutti i rapporti economici conseguenti allo scioglimento del vincolo matrimoniale, è stato il parametro individuato dalla suddetta Corte per interpretare l’inadeguatezza dei mezzi richiesta dall’art. 5 L. n. 898/70 (c.d. Legge sul divorzio) quale requisito per il riconoscimento del diritto al mantenimento.

Tale inadeguatezza di mezzi o comunque incapacità di procurarseli per ragioni oggettive, da considerarsi sia in relazione ai redditi che ai cespiti patrimoniali del richiedente,  non si riferiva, secondo la Cassazione, allo stato di bisogno oggettivamente inteso, bensì all’inadeguatezza quale incapacità ed impossibilità di mantenere le condizioni economiche avute in costanza di matrimonio. Queste ultime venivano, quindi, intese, dalle summenzionate pronunce, come tetto massimo per la concreta determinazione dell’ammontare del contributo che l’ex coniuge economicamente più forte avrebbe dovuto versare all’altro[2] ma, nella prassi consolidata delle applicazioni giurisprudenziali, operavano quale metro unico di riferimento per l’Autorità giudicante.

Veniva confermata, così, la lettura che individuava la bipartizione dei requisiti richiesti dalla c.d. Legge sul divorzio tra criteri attributivi, i quali erano ritenuti operanti in prima battuta per verificare l’ an della spettanza del diritto, e criteri determinativi, utilizzabili per la quantificazione concreta della misura del diritto in ordine al quantum e comunque subordinati al positivo accertamento in ordine all’an.

In concreto il “se” della spettanza doveva sottostare alla verifica della inadeguatezza dei mezzi al mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ed il “quanto” solo successivamente doveva essere parametrato in base agli indici contenuti nella prima parte del suddetto art. 5, comma 6, e quindi tenendo conto “delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

Ebbene, se le cose erano piuttosto chiare, il quadro piuttosto nitido nel senso del privilegio del coniuge più debole economicamente, tuttavia la solidità della linea giurisprudenza non ha mai totalmente sopito le critiche di chi riconosceva, a ragione, la anomala perduranza di effetti derivanti da un legame (produttivo di un peculiare status) che era ormai sciolto, finito, defunto e che tale si voleva: il matrimonio.

Tali critiche e determinate osservazioni sembravano aver trovato conforto e definitivo riconoscimento nella sent. n. 11504/2017 della Corte di Cassazione[3]. Essa è stata accolta quale rivoluzionaria conquista della effettiva parità dei sessi in contrapposizione alle tendenze indulgenzialiste e irragionevolmente protettive del coniuge economicamente più debole, spesso donna.

E’ bene evidenziare, infatti e per breve inciso, che la più completa parificazione dei sessi sembra ormai dover passare necessariamente attraverso la destituzione di tutti quei meccanismi i quali indirettamente confermano la sussistenza di differenze. Ci si riferisce, tra gli altri, al meccanismo delle “quote rosa” le quali conducono da una parte alla summenzionata riaffermazione di diversità che necessitano, pertanto, di essere colmate, e dall’altra ad ingiustificate disparità di trattamento tra sessi nelle procedure di accesso alle cariche pubbliche. Il risultato che negli anni hanno prodotto tali meccanismi è stato più che negativo a causa di una improduttiva imposizione legale di ciò che dovrebbe essere assicurato e raggiunto gradualmente attraverso una crescita della coscienza sociale e dell’educazione delle giovani generazioni che conduca alla effettiva percezione della parità tra i sessi.

Sicché, anche nel caso di specie, stando alla posizione di inferiorità e subordinazione economica che nella stragrande maggioranza dei casi era occupata dalla componente femminile della coppia, veniva riconosciuto un privilegio latamente ascrivibile al novero di quelli delle “quote rosa” che, ad avviso di chi intende concretamente e definitivamente superare le barriere e le difficoltà che il sesso femminile incontra all’ingresso in determinati ruoli sociali, devono essere definitivamente superate.

Nella suddetta decisione, salutata come copernicana scoperta dalla dottrina e soprattutto dal clamore mediatico che l’ha accompagnata, si confermava la distinzione tra criteri attributivi e criteri determinativi come legati da un nesso di subordinata operatività, ma si giungeva all’interpretazione dell’inadeguatezza dei mezzi come relativa all’autosufficienza economica. Il coniuge non è più parte del rapporto matrimoniale e tale non può essere considerato nel nome del principio di autoresponsabilità ed autodeterminazione, di cui è portatore in primis l’art. 2 Cost., valorizzato valutando la situazione post matrimoniale dei coniugi uti singoli nella loro autonomia e senza più alcun riferimento al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio[4].

La natura assistenziale dell’assegno divorzile qui è ancor più marcata e, lambendo i confini delle obbligazioni alimentari, assurge a mezzo per permettere al coniuge, uscito economicamente debole dal matrimonio, di autodeterminarsi e di avere un supporto economico per ricostruire quella parte di vita professionale capace di produttività reddituale che il legislatore presume abbia trascurato in costanza di matrimonio per dedicarsi alle occupazioni della famiglia.

Dall’altra parte, il principio di autoresponsabilità ha effetti di sostanziale equilibrio delle posizioni degli ormai ex coniugi nel senso di evitare illegittime locupletazioni e rendite di posizione derivanti dallo scioglimento del rapporto coniugale.

Successivamente, però, la Cassazione è addivenuta ad un’altra importante sentenza resa a SS.UU. n. 18287 dell’11 luglio del 2018 ed è su quest’ultima che vuole concentrarsi il presente lavoro di studio per gli spunti critici interessanti che ha ispirato chi ha voluto leggerla con la necessaria ed usuale deferenza che meritano i provvedimenti della Suprema Corte ma con altrettanto necessario spirito critico[5].

2. Il cambio di rotta nella recente decisione della Suprema Corte

In primo luogo, essa stravolge tutto ciò che si era detto e che si era scritto sulla bipartizione dei criteri necessari alla verifica della spettanza del diritto e sulla loro natura bifasica e cronologicamente subordinata, privilegiando una nuova visione operativa ed etero integrata degli stessi.

Il criterio per la verifica della spettanza del diritto al mantenimento diventa quindi unico, dicotomico e dalla natura composita assistenziale – compensativa con una spiccata attenzione per lo squilibrio necessariamente derivante a ciascuno dei coniugi dallo scioglimento del matrimonio.

Il divorzio cambia le cose, sembra dire la Cassazione, e questo cambiamento, questo necessario depauperamento di entrambi i coniugi deve sottostare all’intervento equilibratore che si sostanzia nella quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge che più sia stato penalizzato dalla fine del rapporto.

L’assistenza e la dazione dell’assegno sono funzione dello squilibrio, del cambiamento peggiorativo,  e hanno la finalità di ricostituire l’equilibrio in nome del principio di eguaglianza e pari dignità dei coniugi.

Se il coniuge ha contribuito alla formazione del patrimonio comune familiare nonché all’agevolazione della formazione di quello dell’altro, allora è necessario procedere ad una compensazione-perequazione.

La Corte tiene a ribadire che se da una parte bisogna prendere le distanze da una visione “criptoindissolubilista”[6] cioè da una incapacità di accettare la perenzione del vincolo matrimoniale anche dopo il suo scioglimento, nonché quindi svincolarsi da una funzione equilibratrice dell’assegno che sia parametrato sul tenore di vita endoconiugale, dall’altra afferma che le scelte coniugali hanno necessari riflessi sulla vita dei coniugi potendone limitare e condizionare le scelte relative alla costruzione del “profilo personale ed economico dei singoli coniugi non potendosi trascurare che l’impegno all’interno della famiglia può condurre all’esclusione o limitazione di quello diretto alla costruzione di un percorso professionale reddituale”.

In  sintesi la sentenza sembra voler dare rilievo e risalto al ruolo ed al “contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale”.

Come accennato più sopra, dal matrimonio si esce diversi, con patrimoni diversi, con occasioni lavorative diverse, si esce banalmente più anziani e quindi più difficilmente collocabili sul mercato del lavoro ove, in costanza di matrimonio, si siano trascurati i propri profili personali per il benessere familiare e per la contribuzione all’organizzazione della famiglia.

Il passaggio più eloquente della sentenza risulta tuttavia essere il seguente: “(…) ne consegue che la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto, ma in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente”.

La sentenza continua nel passo immediatamente successivo, focalizzandosi sul valore prognostico che il giudizio di adeguatezza deve avere, guardando “alla concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso, quello matrimoniale”.

Prima di procedere a delle necessarie notazioni su ciò che di sconcertante ci sia in quanto più sopra riportato e che forse è passato troppo sotto traccia nelle reazioni immediatamente successive alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza suddetta, è necessario fare un passo indietro, recuperando il dettato di un’altra famosa sentenza, stavolta di merito, e cioè la n. 4793 del 16/11/2017 della Corte di Appello di Milano sul caso dell’assegno divorzile Berlusconi-Bartolini (Lario).

3. La Corte di Appello di Milano apre la strada al cambiamento

Ebbene, questa pronuncia sembra essere stata l’antesignana del ripensamento della Corte di Cassazione giunto nel luglio del 2018 in quanto, seppure accertando sinteticamente l’autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno, tuttavia opera delle precisazioni che sono state poi riprese nella sentenza della Suprema Corte in commento quanto alla concretizzazione del giudizio di idoneità dei mezzi.[7]

Infatti testualmente così si esprimeva la Sez. V Civile della Corte di Appello milanese: “Certamente il riferimento alla indipendenza o autosufficienza economica appare un parametro a sua volta relativo, che andrà pertanto ancorato a diversi indici che saranno soprattutto i casi concreti a suggerire.”  Successivamente il Giudice lombardo ha individuato gli indici in base ai quali i casi concreti debbano essere valutati, circoscrivendoli sostanzialmente in quelli previsti nella prima parte dell’art. 5 Legge sul divorzio, infatti così ha stabilito :“Massima attenzione dovrà dunque essere prestata alle variabili dei casi concreti, con maggiore onere probatorio per le parti e di motivazione delle decisioni adottate da parte dei giudici. Mutano, peraltro, l’angolo visuale e la prospettiva, con la conseguenza che l’attenzione dovrà anzitutto rivolgersi alla posizione dell’ex coniuge debole richiedente l’assegno, alle sue effettive condizioni di vita, ai suoi progetti come singolo individuo, alla sua età e alle sue condizioni di salute e altro, valutando la natura e qualità della sua posizione debole”.[8]

Già questa decisione evocava un non trascurabile rimescolamento delle idee sulla natura dell’assegno di mantenimento e soprattutto sull’utilizzo, sulla cronologia e sui rapporti di subordinazione, dei requisiti sull’an e sul quantum previsti dalla L.898/70.

E’ con la previsione della necessaria concretizzazione di ciò che è astratto che la Corte d’Appello rinviene l’opportunità di vagliare “anzitutto” la condizione dell’ex coniuge, i suoi progetti come singolo individuo nonché una imprecisata “natura e qualità” della sua posizione debole, per evitare pericolosi automatismi nell’identificazione del coniuge debole non economicamente autosufficiente che potevano essere (e sono stati talvolta) individuati in soglie fisse come quella di povertà fornita dagli organismi di statistica oppure quella che dà diritto al gratuito patrocinio a spese dello Stato.

Pertanto, la autosufficienza viene qualificata come un concetto astratto che deve necessariamente essere calato nella realtà del caso contingente attraverso gli indici messi a disposizione dalla norma.

Ma relativizzare guardando comunque ai progetti di vita, alle condizioni, alla natura e alla qualità della posizione sembra in contrasto con la visione dell’ex coniuge uti singulus che la stessa Corte d’Appello ha avuto modo di confermare[9].

Una contraddizione in termini quella di poter pensare di svincolare la situazione attuale del coniuge dal suo trascorso matrimoniale, dal tempo speso nel rapporto, dal suo svolgimento e dai ruoli avuti nel rapporto di coniugio.

Ed infatti nell’evoluzione del concetto portato avanti dalla Corte di Cassazione questa visione del coniuge come singolo del tutto svincolato dal precedente rapporto viene superata in quanto evidentemente inconferente e capace di far crollare tutta la costruzione interpretativa sotto giustificate accuse di incoerenza.

4. Punti critici e nodi interpretativi

Detto ciò e compiuto questo excursus, da qui ritengo si debba partire per formulare alcune notazioni, altri interrogativi e tentare di dare altrettante spiegazioni e abbozzare risposte quantomeno sensate.

La recente sentenza della Corte di Cassazione, infatti, oltrepassata la suggestione di poter guardare al coniuge senza riferimenti al suo passato matrimoniale, nella valutazione sulla concessione dell’assegno e sul suo ammontare, sembra guardare di nuovo al matrimonio ed a quanto avvenuto in costanza del rapporto, recuperando una visione che parrebbe ripercorrere sentieri già battuti.

Tuttavia lo sguardo è completamente diverso rispetto alle precedenti tendenze giurisprudenziali: se già le storiche sentenze del 1990 si riferivano a ciò che di altro si è ricevuto, si è avuto, in costanza di matrimonio, al contrario la recente sentenza guarda a ciò che si è dato e soprattutto a quello che si è perso di proprio.

Ma in questo mare di affermazioni che ciclicamente si contraddicono sorge spontaneo chiedersi  dove sia finita l’adeguatezza! Proprio quella richiesta dalla lettera della legge, l’unica dalla quale dovrebbe partire ogni indagine di tipo ermeneutico riguardo la materia del diritto al mantenimento post divorzile.

E’ possibile, dunque, che l’adeguatezza si riferisca al reddito, parametrata però secondo un presunto equilibrio patrimoniale-reddituale dei coniugi?

Ammesso che una tale visione sia concretamente accoglibile, e si vedrà nel prosieguo che lo si ritiene quantomento complicato, ci si chiede come è possibile valutare (per il giudice) e, prima, provare (per la parte), attraverso una prognosi postuma, che effettivamente negli anni del matrimonio il coniuge avrebbe o meno investito tempo e denaro sul proprio profilo professionale ed economico ove non avesse avuto questo “gravoso peso” costituito dalla vita endoconiugale.

Se sì, quanto e come? La prognosi può spingersi così a largo nelle insidiose acque delle probabilità o addirittura delle possibilità dove neppure i giganti del diritto toccano saldamente il fondo?

Nonché, soprattutto, è legittimo domandarsi se da una tale prova, così complessa, possa derivare la completa ammissione o, al contrario, la totale negazione del diritto all’assegno di mantenimento.

Ancora, se il criterio assistenziale deve necessariamente coniugarsi con quello compensativo, si arriverebbe alla conseguenza estrema che, ove uno dei due coniugi versi in condizioni di inadeguatezza di mezzi e tuttavia non si riscontri uno squilibrio derivante dalla cesura del rapporto matrimoniale (ove il richiedente non abbia sostanzialmente operato rinunce significative e non abbia contribuito alla formazione del patrimonio familiare o dell’altro coniuge in via diretta o indiretta) allora il mantenimento non sarebbe dovuto. Secondo quanto si comprende del dettato della pronuncia delle SS.UU., calando il requisito astratto dell’adeguatezza nei mezzi nel concreto della suddetta situazione particolare, allora non si rinverrebbe un, di nuovo, concreto squilibrio tale da giustificare il mantenimento.

Che il legislatore abbia previsto una presunzione di arricchimento reciproco, non solo economico, derivante dalla comunione di vita insieme è un assunto che pare incontrovertibile anche alla luce del valore dato all’istituzione della famiglia nel codice del 1942. Da ciò non può desumersi, però, che l’equilibrio da ristabilire sia l’unico valore da privilegiare facendo propendere decisamente la componente compensativa del contributo economico da versare a titolo di mantenimento a discapito della componente assistenziale.

5. Ricorso ai princìpi ed alla ratio della norma per rinvenire una soluzione coerente.

Risalendo i percorsi dell’esegesi fino ai principi, ci si trova di fronte a quelli dell’autoderminazione e della solidarietà e viene spontaneo chiedersi se siano in questo caso effettivamente coniugabili, nonché se la scelta della prevalenza dell’uno o dell’altro sia ragionevolmente giustificabile.

Fin dove la libertà di autodeterminazione e l’altra faccia della sua stessa medaglia, l’autoresponsabilità, possono operare? E quando deve intervenire il principio di solidarietà a moderarne gli effetti?

L’astratto contemperamento di così alti principi che permeano tutto il diritto nostrano, civile e non solo, risulta compito talmente alto ed arduo da spingere lo scrivente a sottrarvisi con umiltà e con un non dissimulato sollievo. Tuttavia, nel concreto della materia trattanda, possono accennarsi delle sommesse notazioni a margine di un così complesso problema.

Come è necessario dinanzi a temi di così diffuso interesse generale e che, volente o nolente, aleggiano su innumerevoli istituti del diritto civile, bisogna fare, almeno per un attimo, tabula rasa di tutto quanto detto e scritto a riguardo e tornare alla littera legis.

I mezzi adeguati di cui tanto si discute evocano necessariamente, anche in relazione alla collocazione nella norma, al contesto in cui è stata emanata, alla propria ratio originaria[10] e alla struttura sociale della famiglia italiana degli anni ‘70, un concetto di solidarietà che deve permanere tra i coniugi anche successivamente allo scioglimento del vincolo che li lega.

Non è sconosciuto a chi scrive che le norme, una volta licenziate dai propri compilatori, entrano a far parte dell’ordinamento e si svincolano dall’interpretazione e dal fine che essi volevano dar loro, evolvono insieme alla coscienza sociale nella loro interpretazione più calzante rispetto ai principi costituzionali, soggetti anch’essi a loro volta ad una evoluzione che si sostanzia nel riconoscimento di una Costituzione sostanziale (o materiale) capace di superare dai propri formalismi e, così,  di emanciparsi dagli stessi. Infatti, secondo l’insegnamento di uno dei Padri della Teoria generale del Diritto,  quest’ultimo “non è ma si fa”[11], o come ha affermato Radbruch, la legge, una volta emanata, sarebbe eguagliabile ad “una nave che giunta in alto mare cerca, sotto la guida del capitano, la propria rotta”[12].

Pertanto, l’evoluzione normativa e sociale non può che allontanare l’interprete da quell’ordine, quasi gerarchico, della famiglia che vedeva il marito e padre egemone e la moglie, quasi sempre la parte economicamente debole del rapporto, come a lui sottoposta, costretta in casa o ad occupazioni di minore responsabilità in quanto deputata unica della cura del focolare domestico, nonché dotata di minori diritti anche in tema di diritto successorio.

La solidarietà consistente nell’aiuto economico necessario da dare al coniuge debole in quanto quasi totalmente estraniato dalla propria crescita personale e professionale, quindi anche economica, pertanto, deve trovare limitazione nei principi di libertà di cui all’art. 2 Cost, quindi nelle sue esplicazioni dell’autoderminazione ed autoresponsabilità. L’attuale configurazione della famiglia vede ormai in posizione pressoché paritaria uomo e donna, quindi non pare più necessario riconoscere un così ampio ambito di applicazione al principio di solidarietà che vada oltre l’effettivo bisogno relativo all’incapacità oggettiva di raggiungere l’autosufficienza economica consistente nell’assicurarsi una vita libera e dignitosa. E ciò, ovviamente, sia che il coniuge debole sia l’uomo, sia che si individui nella donna.

La soppressione del principio di autoresponsabilità a favore di un pietismo, spesso comodo, scambiato per solidarietà non fa che svilire la condizione del coniuge debole, rendendolo destinatario di una dazione che lo rende definitivamente e psicologicamente schiavo del contributo altrui, non lo spinge a migliorare la sua posizione e lo rende prigioniero di un ruolo parassitario nei confronti dell’altro.

E’ bene ricordare che il sacro principio di libertà, spesso evocato a sproposito e con impudente leggerezza, implica diritti fondamentali ma, spesso lo si dimentica, anche oneri più o meno gravosi e tra questi quello di preoccuparsi ed attivarsi per rendere, da sé, migliore o confacente ai propri bisogni, la propria esistenza, senza attendere da nessuno, se non dallo Stato attraverso l’erogazione di sussidi e contributi rientranti nel novero dei c.d. ammortizzatori sociali, la contribuzione al proprio sostentamento, anche minimo.

6. Puntualizzazioni sulla natura dell’assegno di mantenimento dell’ex coniuge.

Pertanto, deve giungersi alla conclusione che è sì il principio di solidarietà a farla da padrone nel contesto dell’assegno di mantenimento, valorizzando la componente assistenziale dello stesso così come del resto vuole la tradizionale interpretazione[13], ma la norma deve essere intesa evolutivamente mitigando tale principio attraverso l’autodeterminazione che è riconosciuta a ciascun individuo con i propri pro e i propri contro (o “contra” come ama scrivere qualcuno).

Tale interpretazione non deve, quindi, spingersi troppo oltre fino a sbilanciare i difficili equilibri a favore di un esagerato uso della solidarietà tra coniugi.

Sembra, così, più equilibrata la conclusione cui era giunta la Cassazione a SS.UU. del 2017 che semplificava la materia individuando l’adeguatezza dei mezzi nel suo significato meno esteso, senza inafferrabili collegamenti con il tenore di vita precedentemente goduto oppure con imprecisati equilibri da ristabilire.

Si individuava così un metro di valutazione che teneva conto delle condizioni di vita, del contributo dato alla famiglia, delle ragioni della decisione e degli altri indici di cui alla prima parte del comma 6, art. 5 della c.d. Legge sul divorzio. Tuttavia, mantenendo in vita la concezione bifasica della stessa, escludeva, certo in maniera rigida e netta ma ragionevole e chiara, dalla valutazione sull’an della spettanza i suddetti indici, evitando di incorrere in infiniti rimandi alla situazione goduta in costanza di matrimonio, alle velleità represse del coniuge, alla prognosi sul suo reinserimento nel mercato del lavoro o magari alle perdite subite in termini di relazioni sociali.

Tutte queste ragioni sopravvengono in un secondo momento. Se c’è assenza di mezzi adeguati a garantire una vita libera e dignitosa, solo allora sarà necessario andare ad indagare quanto è dovuto in relazione ai suddetti indici. Se sussiste tale squilibrio, questo sì evidentemente rilevante in quanto non consente la libera espressione della propria personalità ed il sereno godimento della propria esistenza, allora sarà imprescindibile guardare indietro, volgersi al passato, agli indici più volte menzionati perché solo in tal caso è giustificato l’intervento del principio di solidarietà a colmare i differenziali che si presume, ancora una volta, sono stati causati dal matrimonio.

E’ evidente che il diritto all’assegno di mantenimento abbia quale parente più prossimo il diritto derivante dalle obbligazioni alimentari, piuttosto che quelli che scaturiscono da obbligazioni risarcitorie. Meno incisive, seppure esistenti, sembrano anche le connessioni con le obbligazioni che fanno riferimento ad un diritto alla compensazione, come quelle che si riferiscono al “valore” dei beni e che sovente si incontrano nel codice civile[14], quasi che il coniuge abbia perso negli anni, appunto, il proprio “valore” di essere umano, portatogli via dal suo ineluttabile destino di parte matrimoniale e trovi, quindi, nell’assegno di mantenimento una forma di tutela in extremis.

7. Note conclusive

Tirando le fila del discorso, la ricostruzione più equilibrata sembra, quindi, da rinvenire nel mantenimento del valore forte di assistenza dato al contributo dell’ex coniuge il quale però si distingue dall’obbligazione alimentare, la supera, perché calcolato attraverso una congrua parametrazione del quantum che deve “tener conto”, una volta accertato il bisogno e attivatasi l’assistenza, di una componente compensativa.

Se le parole sono davvero importanti, deve evidenziarsi proprio che la lettera della norma stabilisce di tenere in conto, quindi di far pesare nella quantificazione dell’assegno, gli indici più volte menzionati e cioè “le condizioni dei coniugi, […] ragioni della decisione, [….] il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, […] il reddito di entrambi […])”, e “valutare” “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

Solo a chi vuole necessariamente forzare una lettura pseudo evolutiva non parrebbe che si tratti di operazioni da effettuare solo in seguito all’accertamento sulla spettanza.

Pertanto, il coniuge (ex) più forte economicamente restituirà a quello in difficoltà un aiuto (limitato fino al momento in cui non sarà capace di provvedere da solo alle proprie esigenze di vita) che tenga conto di quanto quest’ultimo ha dato, di proprio, al ménage familiare, in termini di tempo, di lavoro, di cura, di accrescimento patrimoniale e reddituale della stessa famiglia e del coniuge economicamente indipendente.

Per inciso, deve chiedersi se tali indici debbano ritenersi idonei a ridurre il quantum fino ad azzerarlo, ad esempio a causa della esigua durata del matrimonio, e quindi finiscano per riflettersi sull’an. Inoltre è da riscontrare un vulnus nella summenzionata teoria la quale pure, evidentemente, non va esente da critiche e problemi:  rimane più complicato individuare fino a dove si spinga la mediazione della necessaria componente compensativa che opera nel momento della quantificazione dell’assegno. Neppure la citata decisione della Cassazione del 2017 si è pronunciata sul punto.

Non si rinviene, cioè, la individuazione di un tetto massimo all’assegno divorzile che si ponga nella posizione mediana tra i due estremi del contributo alimentare minimo e del mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Entrambi devono ritenersi, infatti, inaccettabili: il primo in quanto allora non avrebbe senso la parametrazione sul quantum dell’assegno ove esso dovesse essere limitato a garantire il sostentamento minimo all’ex coniuge, salvo incorrere in interpretazioni talmente restrittive che vedano nei parametri di cui alla prima parte del comma 6, art. 5 della legge sul divorzio dei criteri idonei solo a diminuire il contributo alimentare che funge da limite massimo, estremo confine di una solidarietà post coniugale, se così intesa, forse davvero troppo affievolita; l’altro in quanto superato per evitare ingiuste rendite di posizione derivanti dalla passata vita coniugale.

Sebbene si ritenga lineare la tesi di chi ritiene la dazione di un assegno capace di garantire un’esistenza dignitosa all’ex coniuge quale limite minimo da cui partire per aumentare il quantum in base agli indici di legge, la questione rimane aperta, tenendo conto che almeno un altro limite soccorre l’interprete nella ricerca della giusta cornice nella quantificazione dell’assegno divorzile: ci si riferisce alla necessità che il contributo versato dal coniuge considerato più forte economicamente, o meramente non in difficoltà finanziarie, non comporti l’effetto di privare lui stesso del denaro necessario a condurre una vita libera e dignitosa.

Ebbene, però, la Cassazione del 2017 ha avuto l’accortezza, o forse l’imprudenza, di limitare ancora tale dazione al limite del necessario, senza voler indulgere in compensazioni esagerate e non fondate su alcun assunto di legge. Ha fatto ciò ribadendo e puntualizzando che l’ormai ex coniuge deve essere trattato come un singolo, non più parte di un rapporto che non esiste più, per non degenerare in quel “criptoindissolubilismo” di cui si accennava più sopra. A tale risultato è giunta, però, spinta unicamente dalla volontà di prendere le distanze dalla giurisprudenza che si ispirava alle decisioni del 1990 e quindi dal mantenimento del tenore goduto durante il rapporto di coniugio, forse con una reazione troppo forte che ha trovato poi lo sfavore e la critica delle pronunce successive.

Ecco, la seconda pecca che può rimproverarsi a quella sentenza è quella di aver indugiato sul concetto di coniuge come singolo, ormai estraneo al rapporto, e pertanto non autorizzato a godere di vantaggi che non gli spettano più.  Quella di considerare l’ex partner come monade chiusa in sé e ormai non avente più legami con il pregresso matrimonio è una chimera, una illusione irrealizzabile. Non fosse altro perché ciascuno è il riassunto del proprio passato e la sintesi delle esperienze avute nel tempo pregresso, in termini umani, patrimoniali, economici.

Nel passato c’è anche il matrimonio naufragato ed il contributo che si è o meno dato al ménage familiare nonché le scelte che si sono (liberamente) compiute. E’ naturale, quindi, e ragionevole che si guardi anche a quel passato trascorso all’interno del rapporto coniugale, così come prescrive la norma. Ma, se non si è di nuovo in errore, il primo ed imprescindibile requisito rimane sempre quello della necessarietà dell’assistenza, la quale non può dare rilevanza alle ragioni del bisogno, alle colpe (salvo l’addebito), alle pretese di una vita diversa che si era liberi di scegliere ma che non si è scelta.

O si ha bisogno o non lo si ha, e se sì la solidarietà deve essere parametrata sui rapporti avuti tra i coniugi, sul tempo di durata del legame, sulle condizioni del coniuge debole per ricondurlo, con la dazione monetaria, alla soglia reddituale che gli permetta di vivere liberamente, e probabilmente anche oltre. In ciò sta la parametrazione ed in ciò trova giustificazione proprio il trasferimento patrimoniale che non avrebbe altra ragione di esistere ove travalicasse tale limite o prescindesse da tale presupposto.

Non può che essere la gravità oggettiva della situazione del coniuge debole a giustificare la dazione e non la sproporzione. Ove si utilizzasse quest’ultima a parametro, ci si ritroverebbe ad utilizzare in maniera del tutto inconferente un approccio contrattuale per il matrimonio alla fine del quale non nascono certamente obbligazioni paracontrattuali che devono sottostare al solito equilibrio tipico delle negoziazioni, stabilito dall’ordinamento, che è riluttante rispetto alla presenza di ingiustificate sproporzioni.

In questo caso il disequilibrio è giustificato, lo è in base alla scelta operata dal coniuge nel momento in cui si stipula il matrimonio e si conoscono diritti e doveri in base anche alla lettura da parte dell’ufficiale celebrante degli artt. 143, 144 e 147 c.c. .

Si vuole recuperare forse ex post il difetto di ponderazione che hanno avuto i coniugi od uno soltanto di loro nel pronunciare il fatidico “sì”?

La libertà dei coniugi esiste prima, durante e dopo il matrimonio, ne conseguono però effetti che non consentono una modulazione tale da accettare le sopravvenienze attive o positive e di scartare in maniera “choosy”, come si usa dire, le negatività o più semplicemente le responsabilità.

Inoltre, è necessario tornare sulle affermazioni che in precedenza si sono definite oggetto di malcelato sconcerto.

Nella decisione si utilizzano espressioni e termini quali appunto “esclusione”, “limitazioni”,  “sacrificio” e “pregiudizio” derivanti dal matrimonio cui è necessario porre rimedio attraverso una perequazione necessaria giustificabile solo alla luce di una presunzione di esistenza di un vero e proprio affidamento sulla stabilità del matrimonio.

Si dubita fortemente della presenza di un tale affidamento legittimo in capo ai coniugi.

Se le scelte sono coscienti, libere e se magari è la parte richiedente che senza particolari motivi abbia agito in giudizio per lo scioglimento del matrimonio, è davvero possibile attribuirgli una compensazione la quale sarà sopportata dall’altro coniuge il quale allo stesso modo abbia fatto tale (presunto) affidamento sulla stabilità del vincolo?

Non è forse questa una rendita di posizione o una illegittima locupletazione, non più basata sul tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, bensì su un altrettanto discutibile e di fatto inesistente diritto alla compensazione di scelte errate? Una sorta di assicurazione sui danni che possono discendere dal matrimonio, un vero e proprio potere che nel diritto contrattuale verrebbe chiamato di “exit” dal rapporto così come previsto nel caso di contratti tra diseguali. Come se moglie e marito avessero delle posizioni diverse nel contesto prematrimoniale caratterizzato da asimmetrie informative. Un vincolo della cui centralità sociale il codice civile certamente non dubita, trattato alla stregua di una vendita di prodotti di consumo a distanza! Per giunta, in tale ultimo caso, normalmente, il venditore si vede solo restituita la merce ma non sopporta, come vorrebbe la tesi suddetta nel caso del matrimonio naufragato, il peso economico delle occasioni perse dall’altra parte del rapporto che consistono nel godere di un bene (la vita) alternativo.

Una sorta di win/win come direbbero oltreoceano, una scommessa già vinta, da ritenersi nulla per assenza di profili di aleatorietà, una scelta che comporta comunque esiti favorevoli. Si sceglie di sposarsi, se il matrimonio è gradito al coniuge bene, sennò egli, ma solo se è considerato “debole”, ha il vero e proprio diritto quasi divino di riavvolgere il nastro del tempo, di immaginare come sarebbe stata la sua vita se il suo contributo naturale alla gestione della famiglia e al benessere della stessa fosse stato direzionato verso altri interessi più egoistici, addossando questa perdita sul coniuge più forte il quale non può fare altro che continuare a chiedersi il perché di tale ingiusta punizione…divina.

Tutto ciò è irragionevole perché si utilizzano palesemente delle vecchie concezioni e ancor più risalenti argomenti per fondare nuove interpretazioni anche alla luce dell’evoluzione sociale della famiglia e dei nuovi istituti che prevedono meccanismi di scioglimento rapido del vincolo matrimoniale di cui alla L. n. 162/14 anche senza intervento del Giudice. Si ricorre alla narrazione quasi mitologica della vecchia e consunta storia del matrimonio come legame indissolubile per giustificare un affidamento che non si comprende da dove tragga il proprio fondamento.

Non fosse che qui voglia riemergere in maniera sotterranea quel diritto ad essere felici che ultimamente proprio la giurisprudenza Costituzionale ha ritenuto non esistere in relazione alle ben più dolorose vicende del c.d. diritto a nascere se non sani?[15]

Non è che in tal modo si voglia far passare per solidarietà una ricerca edonistica del proprio bene a tutti i costi e che si voglia penalizzare per forza il soggetto, uomo o donna che sia, che magari per propri meriti sia uscito dal matrimonio meno penalizzato dell’altro, che abbia scelto di frequentare meno la propria casa per garantire un reddito più alto a tutta la propria famiglia, che magari abbia sacrificato i rapporti affettivi per accrescere sì il proprio reddito ma ai fini di beneficiare (anche) tutti i componenti della famiglia stessa?

Perché? E se è il bene a tutti i costi quello che si vuole perseguire, se si vuole annullare la responsabilità della scelta matrimoniale dando una seconda chance al coniuge debole, perché al coniuge più forte questo non è concesso? Che forse il maggiore reddito rende meno rilevanti le proprie aspirazioni personali e il proprio diritto ad autodeterminarsi così inteso? Magari anche le scelte di quest’ultimo sono state influenzate dalla costanza di un matrimonio che naturalmente distorce ogni tipo di decisione. Magari il proprio reddito, la propria posizione sociale, il proprio “profilo personale” sarebbero stati ancora migliori se si accede alla triste visione della famiglia e del matrimonio come impedimento limitativo della propria esistenza.

Se le suddette scelte sono quelle al centro della valutazione comparativa degli squilibri, non possono essere ritenute meno importanti quelle assunte dal coniuge non richiedente, le quali non assurgono certo a minore dignità.

Se si prescinde dal contenuto assistenziale, se lo si valica, si giunge in terreni impervi in cui si discute di diritti di autodeterminazione personale la cui rilevanza non può essere sottoposta al discrimine della (in)adeguatezza dei mezzi.

Se anche non si voglia accedere a tale interpretazione, contestandone le ragioni in punto di interpretazione, tuttavia non può negarsi che essa sia la più coerente col sistema e la meno produttiva di aporie.

Per riportare ad equità e ragionevolezza il criterio, dovrebbe pertanto procedersi ad un difficoltoso calcolo differenziale di quanto rispettivamente ciascun coniuge ha perso a causa del matrimonio per stabilire l’effettiva somma che il richiedente dovrà ricevere.

La sentenza sembra superare, quindi, l’orientamento restrittivo della pronuncia del 2017, sembra aprire ad una maggiore considerazione del coniuge debole. Avanza però ad occhi chiusi o forse con i paraocchi, incosciente di condurre a delle aporie tali che in alcuni casi una simile tendenza può risultare ancora più dannosa per gli interessi del coniuge in difficoltà, come nell’ipotesi sopra considerata del coniuge non particolarmente attivo nella contribuzione al ménage matrimoniale ma che si trovi davvero in stato di bisogno al momento di scioglimento del matrimonio.

L’analisi e la valutazione “in concreto” su cui si fonda la decisione in commento, volta alla maggiore personalizzazione delle vicende, pone dei problemi che risultano insuperabili perché in tal modo si inquina da subito il requisito assistenziale con criteri che, se valutati, come vuole la sentenza, anche riguardo all’an della spettanza, provocano effetti distorsivi sulla lettera stessa della norma la quale menziona solo i mezzi adeguati e non lo squilibrio.

Una tale interpretazione conduce, per altre vie, alle stesse incongruenze di cui si è macchiato l’orientamento giurisprudenziale che prendeva le mosse dalla sentenza del 1990 e che sono sfociate, con un colpevole ritardo trentennale, nel dibattito giurisprudenziale attuale. Si tara la valutazione su requisiti che non sono previsti dalla norma e che parlano stavolta la sconosciuta lingua dell’equilibrio da ristabilire per compensare il coniuge delle rinunce e dei pregiudizi patiti per essere stato coinvolto, sembra quasi costretto, nel matrimonio.

Sembra, perciò, che nel nome della enucleazione di un canone più aderente al caso concreto, si sia tornati indietro nel percorso di individuazione di un saldo indice cui fare riferimento nella valutazione de quo.

E forse sembra doversi rimpiangere l’approdo più scarno e semplicistico che avevano, in maniera dirompente, previsto le SS.UU. del 2017, pur tenendo conto delle contraddizioni che reca con sé e della attuale impossibilità di quantificare, attraverso i suoi dettami, un tetto massimo all’assegno di mantenimento.

Il problema da cui tutto discende sembra, pertanto, essere quello della applicazione congiunta dei criteri attributivi e determinativi nel processo di adeguamento al caso concreto.

In assenza di una modificazione de iure condendo della norma che specifichi definitivamente l’adeguatezza dei mezzi a cosa si riferisca, sopendo così un dibattito che dura da decenni, forse sarebbe stato necessario un intervento più netto e tranchant, più semplice e lineare, piuttosto che la continua ricerca di una giustificazione alle teorie complesse che tendono, per natura, ad allontanarsi troppo dal dettato letterale della norma, tanto da risultare scazonti, zoppicanti, sempre in cerca di nuove e più solide stampelle interpretative, di correttivi, aggiustamenti, precisazioni, astruse ricostruzioni tecniche.

L’augurio, quello tipico dei commiati, è che la giurisprudenza della Suprema Corte, ove il legislatore tardi ancora a svegliarsi dal suo torpore, si guardi indietro e recuperi quanto di buono e saldo aveva prodotto il suo approdo del 2017 emendandolo dai propri, pure non trascurabili, problemi. Che guardi indietro per andare avanti.

Fino a che ciò accada, ci si dovrà piegare a quella abitudine, tipicamente italiana, di dover  scegliere il minore tra due mali.


[1] Si veda Corriere Giuridico 1991,3,305 con nota di A Ceccherini; in Foro it., 1991,1,67, con note di E. Quadri – di V. Carbone;  Nuova giur. civ. comm., 1991,1,112 con nota di E. Quadri;  Giust. civ., 1990,1,2789 e 1991,1, 1223 con nota di A Spadafora; Giur. it., 1991,1, 1,536 con nota di G. M. Pellegrini. Si sono accodate a tale indirizzo, tra le altre, le seguenti decisioni: Cass. 12 ottobre 2014, n. 21597, in Fam. e dir., 2014, 1136; Cass. 3 luglio 2013, n. 16597, in Fam. e dir., 2013, 1079, con nota di F. Acaro; Cass. 27 dicembre 2011, n. 28892, in Fam. e dir., 2012,304; Cass. 24 marzo 2010, n. 7145, in Fam. e dir., 2010,606 e in Fam. pers. e succ., 2010,832, con nota di F. Zauli; Cass. 12 luglio 2007, n. 15611, in Fam. e dir., 2007,1092; Cass. 2 luglio 2007, n. 14965, in Guida al dir., 2007,38, 54.

[2] In realtà le storiche pronunce della Corte di Cassazione dell’anno 1990 si erano poste come reazione ad una dura critica della dottrina agli interventi giurisprudenziali immediatamente successivi alla riforma del 1987: A Luminoso, La riforma del divorzio: profili di diritto sostanziale (prime riflessioni sulla legge 6 marzo 1987, it 74), in Dir. fam., 1988,455; F. Macario, in Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del mafrimonio a cura di Lipari, Padova, 1988, sub art. 10,103; nonché ad  una sentenza eversiva dell’interpretazione prevalente, Cass. 2 marzo 1990, n. 1652, la quale a sua volta aveva incontrato le eminenti critiche di C. M. Bianca, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. dir. civ., 100, II, 536 e ss.

[3] Su Cass. 10 maggio 2017, n. 11504, si vedano:M. Sesta, Assegno di divorzio: dal tenore di vita all’indipendenza economica alla luce di Cass. 10. 5. 2017, n. 11504, Relazione al convegno organizzato a Roma l’8 novembre 2017 dalla Scuola Superiore della Magistratura; E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Fam. e dir., 2017,645; C. M. Bianca, L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa, in Giustizia civile.com, Editoriale del 9 giugno 2017; F. Danovi, Assegno di divorzio e irrilevanza a del tenore di vita matrimoniale: il valore del precedente per i giudizi futuri e l’impatto sui divorzi già definiti, in Fam. e dir., 2017, 657; A di Majo, Assistenza o riequilibrio negli effetti del divorzio?, in Giur. it., 2017,1299; C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017,1274 e  Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, in Giur. it., 2017,1799; A Spadafora, 77 ”nuovo” assegno di divorzio e la misura della responsabilità postaffettiva, in www.giustiziacivile.com, 25 luglio 2017; V. Barba, Assegno divorzile e indipendenza economica del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, in www.giustiziacivile.com, 27 novembre 2017; D. Piantanida, L’assegno di divorzio dopo la svolta della Cassazione: orientamenti (e disorientamenti) nella giurisprudenza di merito, in Fam. e dir. 2018, 65; C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017,1274 e  Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, in Giur. it., 2017,1799.

[4] La sentenza aveva, tuttavia, provocato un effetto tale da scompaginare le certezze giurisprudenziali che erano rimaste salde per molti anni, già la Sent. Cass. 11 maggio 2017, n. 11538, denota un certo imbarazzo nel vedersi costretta ad utilizzare criteri nuovi, evidentemente non ancora ben accettati, quanto alla qualificazione del singolo coniuge “uti singulus”, esercitandosi in una motivazione alquanto sibillina la quale da un lato faceva riferimento all’incapacità della parte destinataria dell’assegno a garantirgli la conduzione di un’esistenza libera e dignitosa, ma dall’altra operava una limitazione la cui estensione è più che complicato individuare (“e deve essere contenuto nella misura che permette il raggiungimento dello scopo senza provocare illegittime locupletazioni; Allo stesso modo Cass. 26 gennaio 2018, n. 2043. La giurisprudenza di merito si è invece mostrata più serena nell’individuare il raggiungimento dell’indipendenza economica del coniuge debole come limite massimo nella determinazione della misura dell’assegno, tra le altre Trib. Palermo 12 maggio 2017.

[5] Si veda Monica Bombelli,Matteo Iato,Elisabetta Lombi, L’ evoluzione dell’assegno di divorzio nella giurisprudenza, Key Editore 2018; Manuela Rinaldi, Assegno divorzile: i parametri dopo le Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018, Maggioli Editore, 2018; Tommaso Ferruccio – Scalera Antonio, ne Il quotidiano giuridico, Assegno di divorzio: le nuove regole delle Sezioni Unite, nonché Come si calcola l’assegno di divorzio dopo la sentenza della Cassazione n. 18287/2018?.

[6] Così definita nell’ordinanza di rimessione (Trib. Firenze 22 marzo 2014),  che ha condotto alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 11/15 sul tema. statuiva la non manifesta infondatezza dell’eccezione di incostituzionalità dell’art. 5, comma 6,1. div. Poiché, nella accezione datane dalla giurisprudenza, prolungherebbe oltre il matrimonio, in modo irragionevole e contraddittorio, l’obbligo di assistenza reciproca fra i coniugi, rendendo “eccessiva” la tutela del coniuge economicamente più debole.

[7] A tal riguardo si veda l’approfondito contributo di Cario Rimini, Assegno di divorzio: non è solidarietà, non è assistenza ciò che l’ex coniuge va cercando, in Corriere giuridico 2018, 3, 319.

[8]  Anche, Trib. Roma 11 settembre 2017, mostrava di aderire a tale visione integrante una necessaria concretizzazione dei parametri astratti in relazione alla contingente situazione del coniuge debole: “Nella valutazione dell’assegno, nel considerare le esigenze minime che possono e devono essere salvaguardate, in virtù della solidarietà postconiugale, occorre avere riguardo anche alla posizione sociale dell’avente diritto”. Nonché successivamente, Cass. 7 febbraio 2018, n. 3015.

[9]  A tal riguardo si è espresso in maniera del tutto condivisibile E. Quadri, in I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, cit., 885,  evidenziando che “il divorzio non trasforma i coniugi in persone singole senza passato”.

[10] Così puntualizza la summenzionata Cass. Civ. n. 11504 del 2017 sulla ratio della norma :”non v’è dubbio che chiara era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla “adeguatezza dei mezzi” fosse riferito «alle condizioni del soggetto pagante» anziché «alle necessità del soggetto creditore»: ciò costituiva «un profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della Commissione» (cfr. intervento del relatore, sen. N. Lipari, in Assemblea del Senato, 17 febbraio 1987, 561 sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23). Nel giudizio sull’an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno successivamente al divorzio.”

[11] A tal riguardo E. Betti, Die Problemarik, secondo il quale “L’ordine giuridico non è qualcosa di bell’e fatto, né un organismo che si sviluppi da sé, per mera legge naturale”, nonché E. Betti, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, 1940.

[12] G. Radbruch, edizione italiana Introduzione alla scienza del diritto, Giappichelli (1960), citato anche da Fiandaca-Musco, Manuale di Diritto Processuale Civile, 101.

[13] Si riportano le eminenti posizioni dissenzienti di E. Quadri, Definizione degli assetti economici postconiugali ed esigenze perequative, in Dir. fam., 2005,1307; Id, Brevissima durata del matrimonio e assegno di divorzio, in Corriere Giuridico, 2009,4,474; allo stesso modo risulta fautore di una visione più improntata sulla componente compensativa M. Sesta, Negoziazione assistita e obblighi di mantenimento mila crisi della coppia, in ss. nonché  Assegno di divorzio: dal tenore di vita all’indipendenza economica alla luce di Cass. 10. 5. 2017, n. 11504, relazione convegno SSM – Roma, 8 novembre 2017; inoltre, seppure più risalente si veda C. M Bianca, La famiglia, 2.1, in Diritto civile, V ed., 2014,298: “Il riconoscimento di questa funzione dell’assegno [la funzione assistenziale] contrasta con la tendenza volta a ravvisare nel divorzio lo strumento di liberazione totale dal matrimonio e da ogni peso che direttamente o indirettamente gli si riconnette. Questa tendenza ha trovato un limite nell’esigenza, alla quale la nostra società è ancora sensibile, di non lasciare al singolo l’arbitrio di cancellare senza tracce l’impegno di vita assunto con un matrimonio e di abbandonare alla sua sorte chi su tale impegno aveva costruito la propria famiglia”.

[14] Si veda, su tutti, il dettato dell’art. 948 c.c. che fa riferimento al valore distinguendolo dal risarcimento.

[15] Si veda Cass. SS.UU., n. 25767 del 22 dicembre 2015; in precedenza, tra le altre, già Cass., sez. III, sentenza 14/07/2006 n. 16123. Per un approfondimento comparatistico, nel senso della impossibilità di riconoscere al nascituro il diritto a non nascere se non sano e quindi in generale un ipotetico diritto alla vita felice, si vedano le seguenti decisioni: Usa, New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan, Germania, BGH, 18 gennaio 1983, Inghilterra, London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority.

Laureato presso l’Università degli Studi Roma Tre, in data 24/09/15, con tesi in Diritto Amministrativo e correlazione in Diritto Privato e Diritto Commerciale dal titolo “Il riparto di giurisdizione e atti amministrativi incidenti su rapporti negoziali” (relatore Prof.ssa Sandulli, correlatori Prof.ri Clarizia e Fortunato). Ha concluso tirocinio formativo di 18 mesi, di cui all’ art. 73 D.L. 69/13, con magistrato presso il tribunale di Frosinone, sezione Civile.

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