Compensazione delle spese legali alla luce delle recenti evoluzioni giurisprudenziali

in Giuricivile, 2018, 12 (ISSN 2532-201X), nota a Cort. Cost., sent. n. 77 del 19/04/2018

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018 [1], ha dichiarato incostituzionale l’art. 92 co.2 del codice di procedura civile nel testo modificato dal D.lgs 132/2014, nella parte in cui non prevede che il Giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre “analoghe gravi ed eccezionali ragioni”, derivando l’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, sia nelle due ipotesi nominate, sia ove ricorrano tali analoghe gravi ed eccezionali ragioni, dalla generale prescrizione dell’art. 111 co.6 Cost., secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

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L’evoluzione storica del principio di compensazione delle spese di lite

A partire dalla novella del 1950, l’art. 92 c.p.c. è stato, nel corso degli anni, rivisitato per limitare la possibilità del giudicante di addebitare o compensare le spese secondo un criterio di massima discrezionalità.

È, infatti, ben vero che se la norma prevedeva la possibilità di operare la predetta compensazione per “giusti motivi” la prassi dell’uso di tale potere aveva portato la stessa giurisprudenza di legittimità a porre ben poche delimitazioni a tale potere.

Uno dei principi conclamati nel nostro ordinamento giuridico è quello per il quale, in linea di massima, le spese di lite debbano seguire il c.d. principio della soccombenza.

Si è ritenuto, infatti, che il costo del processo non potesse, in alcun modo, gravare sulla parte risultante vittoriosa in giudizio.

La ratio di fondo sottesa a tale principio ha una duplice natura:

  • da un lato trova espresso riconoscimento nel disposto normativo di cui all’art. 91 co.1. c.p.c. a mente del quale “il giudice, con la sentenza che chiude il processo dinanzi a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa
  • e, dall’altro, invece, viene pacificamente desunta dalla semplice interpretazione di quanto previsto dall’art. 24 Cost.

Tale principio, riconoscendo il diritto alla pienezza ed effettività della difesa, costituzionalizza il precetto della soccombenza quale tecnica per la corretta ripartizione delle spese di giudizio.

A tal riguardo, pertanto, non ci si potrà esimere dal menzionare quanto espressamente previsto dall’art. 92 c.p.c. e, ad effetto del quale, il giudice “nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue”.

L’alea processuale grava sulla parte soccombente poiché è quest’ultima che ha dato causa alla lite non riconoscendo o, addirittura,  contestando il diritto della parte vittoriosa o azionando una pretesa rivelatasi insussistente.

Ad effetto di quanto sopra detto, quindi, è lecito ritenere che ogniqualvolta il soggetto risulti soccombente, di norma si debba fare anche carico delle spese di lite.

Ciò nonostante, il legislatore ha preveduto – al co. 2 dell’art. 92 – la c.d. compensazione, ossia la possibilità per il Giudice di non applicare il criterio di ripartizione dettato dall’art. 91 c.p.c., in ossequio al principio del victus victori, e di compensare le spese di ambedue le parti.

La compensazione delle spese processuali come strumento defatigatorio delle controversie lavorative

Un tempo, la piena libertà del Giudice di compensazione delle spese di giustizia determinava, in particolar modo nel campo del lavoro, un vero e proprio abuso del processo.

Il lavoratore, infatti, certo della copertura sindacale e della certezza di non venire , quasi mai, condannato al risarcimento, in capo al datore di lavoro, delle spese sostenute per resistere vittoriosamente alle pretese del dipendente, poteva esperire l’azione legale a costi decisamente ridotti.

L’articolo 92, pertanto, è stato oggetti numerosi e ripetuti interventi legislativi i quali hanno evidenziato, con indiscussa evidenza, la ratio di restringere, sempre maggiormente, la discrezionalità del giudice della controversia sino a definire due e sole ipotesi che facoltizzano l’organo giudicante, in caso di soccombenza totale, a compensare, in toto o in parte, le spese di lite.

Esse sono l’assoluta novità della questione trattata e il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

La ratio di fondo sottesa a questo principio era la “consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera[2]

L’altro lato della medaglia

Quanto sopra asserito ha incontrato una profondo contrasto con la quotidiana pratica giudiziaria.

Ciò in quanto, le cause di lavoro (nella maggior parte dei casi introdotte dal prestatore di lavoro) risultano a prova contraria (basti pensare, ad esempio, alla cassa integrazione, alle cause di trasferimento, mutamento mansioni, cessione di ramo azienda, sanzioni disciplinari e via dicendo).

Il lavoratore, quindi, si trova costretto ad azionare le proprie istanze non disponendo e né, tantomeno, potendo disporre di tutti i dati che incidono sulla legittimità o meno del provvedimento datoriale, che egli ha già subito e di cui chiede al Giudice il controllo di legittimità, da operare, appunto all’esito dell’assolvimento della prova da parte del datore.

Il tutto pone l’attore nell’assoluta impossibilità di valutare compiutamente e a priori la possibilità che la propria domanda trovi accoglimento.

Questi, infatti, vedendosi limitato ai soli due casi evidenziati la compensazione delle spese, si trova disincentivato a ricorrere alla giustizia, anche in relazione agli oneri concretamente ipotizzabili per l’instaurazione di un ipotetico contenzioso.

Trattasi, infatti, di un discorso prettamente economico.

Egli, infatti, già gravato dagli oneri relativi ai costi vivi della causa (contributo unificato) e, magari, trovandosi altresì privo di lavoro (si pensi ad un licenziamento ingiustificato) o di una retribuzione (quando vi sia, ad esempio, inadempimento datoriale in punto di stipendi) dovrà preventivare il rischio oggettivo che, anche introducendo una causa  a controprova (e quindi senza disporre di elementi idonei a dargli piena cognizione della legittimità o meno del provvedimento datoriale che lo ha riguardato), sia condannato a pagare le ingenti spese di soccombenza ex art. 91 c.p.c.

Il meccanismo della soccombenza, quindi, privato del correttivo della compensazione, finisce per riversare, soprattutto nel primo grado del processo del lavoro, i propri effetti su una parte incolpevole che non ha abusato del processo o, tantomeno, invocato presunti diritti che, a priori, sapeva essere inesistenti, ma che è solo stata “costretta” ad adire l’organo giudicante per verificare la legittimità del provvedimento già posto in esecuzione dal datore di lavoro, senza spesso poterne conoscere i presupposti di fatto.

L’illegittimità costituzionale e la pronuncia della Corte

La Corte Costituzionale, quindi, con la sentenza in oggetto ha riammesso la possibilità di compensazione delle spese di lite per “gravi ed eccezionali ragioni” e ne ha indicato, in via esemplificativa, una casistica.

La questione in esame originava da un’Ordinanza del 30.01.2016, del Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, che aveva sollevato – con riferimento agli artt. 3 co. 1, 24 co.1, 111 co. 1 Cost., una questione di legittimità costituzionale dell’art. 92 co.2 c.p.c., nel testo modificato dall’art. 13 co.1 D.L. 12.09.2014 n. 132, conv. Con modif. dalla L.10.11.2014 n. 162 (rubricato “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”) nella parte in cui non consentiva, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite, oltre che nelle ipotesi indicate in modo tassativo di assoluta novità della questione trattata e di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, anche in altre ipotesi in cui ricorrano analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

Veniva, infatti, evidenziato come la limitazione, riferita a sole due ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, fosse contraria al principio di ragionevolezza.

Si dichiara, quindi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 co.2 c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

Rimane fermo l’obbligo di motivare la decisione di compensare le spese di lite, sia nelle due ipotesi nominate, sia qualora ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, onere discendente dalla generale prescrizione dell’art. 111 co. 6 Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.

Il giudice costituzionale, infatti, ha osservato che la qualità di “lavoratore” della parte che agisce o più raramente resiste nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dalla prestazione, non costituisce, di per sé sola ragione sufficiente – seppur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3 co.3 Cost) – per derogare al principio generale della par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente.

In conclusione, quindi, può lecitamente affermarsi che la pronuncia in esame, così come risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, riconosce una maggiore libertà in capo al giudice del lavoro.

Infatti, la circostanza che il lavoratore, per la tutela dei suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter riconoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro, costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite.


[1]L’art. 92 comma 2 c.p.c., nel testo modificato dall’art. 13 comma 1 d.l. n. 132/2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella l. n. 162/2014, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti parzialmente o per intero anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.” C.Cost. n. 77 del 19.04.2018.

[2] C.Cost. n 77 del 19.04.2018

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