Il Principio di Autosufficienza nel Ricorso per Cassazione civile

in Giuricivile, 2018, 10 (ISSN 2532-201X)

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Il sistema delle impugnazioni civili è vario e articolato. Si articola in mezzi specifici cioè procedure volte a denunciare l’erroneità, l’illegittimità ovvero l’ingiustizia delle sentenze, con conseguente trasmigratio iudicii ad un grado successivo, nel quale si esercita il controllo del provvedimento. Ovviamente, l’apparato processuale improntato al principio dispositivo riflette tale carattere anche nel sistema impugnatorio. La relativa scelta è rimessa alla volontà della parte che può accettare la statuizione, ovvero non accettarla parzialmente o tout cour, reagendo con l’impugnazione. Nel passaggio da un grado all’altro, si ha una continuazione del processo originariamente sorto dall’iniziale domanda.

L’impugnazione, quindi, è un episodio eventuale del processo, quale manifestazione ulteriore dell’esercizio dei diritti di azione e difesa, garantiti dall’art. 24 Cost.

Il regime processuale dei mezzi di impugnazione delle statuizioni civili viene descritto in prima battuta dall’art. 323 c.p.c. Questa disposizione menziona i singoli mezzi di impugnazione, quali il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo.

In base alla teoria generale del diritto, si distingue in macro-categorie i mezzi di impugnazione: la prima categoria è quella delle cc.dd. «impugnazioni in senso stretto», ove l’ambito cognitivo del giudice dell’impugnazione è limitato ai vizi della sentenza e agli errori del giudice del grado precedente; la seconda è composta dai cc.dd. «gravami», con i quali si chiede al giudice ad quem di assumere, ex se, la responsabilità di decidere ex novo la controversia, non limitandosi a giudicare su specifici errori del giudice del grado precedente.

Si suole ulteriormente distinguere tra «impugnazioni a critica vincolata» e «impugnazioni a critica libera». Nelle prime, le impugnazioni vanno costruite riconducendo gli eventuali vizi nell’elencazione dei vizi tipizzati dal legislatore. Nelle seconde, le impugnazioni vanno costruite denunciando l’ingiustizia o invalidità del provvedimento impugnato, senza ricondurre il vizio entro motivi specifici e tassativamente individuati ex lege.

Tutto ciò, al di là da sterili categorizzazioni, cospirano e condensano un diverso modo di atteggiarsi degli effetti, cc.dd. devolutivo e sostitutivo.

Tra i mezzi di impugnazione enucleati dall’art. 323 c.p.c. spicca il ricorso per cassazione, sussumibile tra le impugnazioni in senso stretto ed a critica vincolata. L’importanza è dovuta per il riconoscimento verbis directis contenuto nella Carta Costituzionale ex art. 111 Cost.

L’incisione a chiare lettere nell’art. 111 Cost. impone numerose riflessioni sulla Corte di Cassazione, tra la storia, funzione, struttura e poteri; nonché sul ricorso per cassazione, da intendersi con ciò sia l’atto introduttivo sia l’intero giudizio innanzi la Corte. Calamandrei, il massimo giurista e teorico del «centro gravitazionale della vita giuridica» (la Cassazione), la definiva come «un istituto giudiziario consistente in uno organo unico dello Stato che, per mantenere l’esatta osservanza e l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale data dai tribunali al diritto obiettivo, riesamina nella sola decisione delle questioni di diritto le sentenze dei giudici inferiori».

Inoltre, la configurazione a critica vincolata dell’atto introduttivo è sintomatica di una simmetria tra l’assetto predeterminato dei motivi di doglianza e i poteri cognitori nel giudizio ad quem: infatti, l’ambito dei poteri della Corte di cassazione subisce significative limitazioni funzionali quale conseguenza diretta del precedente assunto.

Benché l’idea di impugnazione, comunque, almeno nella sua configurazione ideale, non presuppone delle soluzioni di continuità con il giudizio a quo, vi sono, invece, soluzioni di continuità strutturali sul piano del giudizio specifico in Cassazione. Tali discontinuità, che risentono dell’assetto normativo del ricorso per cassazione, impongono all’interprete uno sforzo ermeneutico, operando tramite la costruzione di «ponti» tra i vari gradi: merito e legittimità. Massimo D’Antona riteneva che il giurista non fosse chiamato «ad erigere grattacieli o cattedrali superbe, bensì “ponti”. Ci sono ponti superbi che conducono nel deserto, o che crollano perché il progettista era un buon politico ma un cattivo ingegnere, e ponti di discutibile fattura sui quali tutti finiscono per passare perché fanno risparmiare strada. Esattamente lo stesso accade con le interpretazioni».

Un ponte è, appunto, il principio di autosufficienza. Nonostante il sintagma «principio di autosufficienza» è stato coniato di recente dalla giurisprudenza pretoria della Corte, quale tecnica redazionale dell’«astuzia dell’ordinamento», Rusciano, sottolineava come «sotto il vigore del codice del 1865, nonostante l’espressione autosufficienza fosse del tutto sconosciuta, sorprende che il suo contenuto fosse già applicato dagli avvocati più sagaci i quali, nel redigere i ricorsi per cassazione agli inizi del ‘900 elevavano 1’autosufficienza a criterio da seguire nella tecnica di preparazione ricorso: Chiovenda, nel censurare una pronuncia della Corte di appello Catania del 1930 per difetto di motivazione, riportava l’intero ragionamento del giudice di merito spesso ricorrendo, non solo alla puntuale e specifica indicazione del numero delle pagine ma, anche, alla sua trascrizione integrale». Ciò imporrà la ricerca del fondamento del principio di autosufficienza con la comparazione dello stesso nelle regole codificate dal legislatore processuale. Non è un qualunquismo evanescente colorare di contenuto il nucleo significativo dell’autosufficienza, per trovare la rotta tra gli orientamenti incostanti della giurisprudenza di legittimità. In altre parole e senza voler anticipare troppo, non sempre la Corte ha fatto un uso ortodosso di tale principio. Giova premettere sin da subito, quindi, che l’«eterogenesi dei fini», immediatamente consequenziale all’aleatorietà di un principio di origine giurisprudenziale, è stata irresistibile a fronte di un carico della giustizia civile esponenziale. Perfino l’intervento del legislatore, seppur blando, non è riuscito ad arginare tale deriva interpretativa, profilandosi tra la giurisprudenza di legittimità un certo fenomeno: il «gattopardismo». Proprio per reagire a ciò, pertanto, si impone la ricerca degli elementi costitutivi del nucleo essenziale del principio in oggetto. In seguito, tali conclusioni preliminari dovranno essere vagliate tramite falsificazioni, secondo la teoria epistemologica di Popper, all’interno del singolare Protocollo Suprema Corte ed il Consiglio Nazionale Forense: «la scienza (in tal caso giuridica) è un cimitero di teorie inesatte. Il progresso scientifico non avanza per conferme, ma per smentite».

Infine, l’attenzione verrà spostata all’interno di una stagione specifica della Corte: tra il 1990 e il 2006, con riflessi sin ad oggi. Si allude alla novella apportata dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, sull’art. 384, comma 2 c.p.c.: «[…] ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto». Potrebbe sembrare, ad un’istantanea impressione, in netta rottura con la tradizione giuridica e l’architettura datane da Calamandrei affidare alla Corte il potere di statuere de actio iuris. Eppure, anche quel giurista tanto ancorato al sentimento romantico-ideale non può chiudere gli occhi. Dovrà, al più, cercare di leggere il fenomeno e rapportarlo, non estraniarlo, alla realtà dei valori costituzionali, quali limiti rigidi insuperabili.

Insomma, se i cambiamenti climatici comportano l’affievolirsi del limite delle stagioni di transizione tra l’inverno e l’estate, non è revocabile in dubbio che alla stessa conclusione porta la novità della cassazione sostitutiva di rinvio: infatti, può ben dirsi ridotta la distanza tra la tradizionale configurazione del giudizio di Legittimità e un ulteriore grado di merito. Non sempre, però, la distanza tra due punti presuppone l’inconciliabilità degli stessi.

In tal senso, senza anticipare ulteriormente, può porsi il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, appalesando una seconda anima del principio.

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