Azione di mero accertamento: presupposti e limiti

in Giuricivile, 2018, 7 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. I civ., sent. n. 28821 del 30/11/2017

Un interrogativo mai sopito in dottrina ed in giurisprudenza riguarda i limiti dell’azione di mero accertamento. L’attualità della controversia è connessa al rispetto dei principi di economia dei giudizi e dell’effettività della tutela giurisdizionale[1].

La funzione giurisdizionale, infatti, è un bene tanto prezioso quanto limitato che rischia di esser compromessa da azioni inutili ed abusive. Il compito dell’interprete, quindi, è individuare i parametri astratti e le condizioni concrete meritevoli di essere tutelate. In altri termini è necessario “stabilire, con un sufficiente grado di approssimazione, quando è che si versa in una situazione d’incertezza tale da legittimare il ricorso alla tutela giurisdizionale[2].

La collocazione sistematica dell’azione di mero accertamento

Nell’ambito della tutela giurisdizionale si è soliti individuare tre tipi di tutela:

  • quella di cognizione,
  • quella esecutiva[3]
  • e quella cautelare[4].

Un ruolo di prim’ordine è ricoperto, indubbiamente, dalla tutela di cognizione. Essa, infatti, consente al giudice di creare una situazione di certezza limitatamente ad una determinata situazione giuridica controversa tra le parti.

La tutale di cognizione può essere suddivisa, a sua volta, in tre species:

  • tutela di accertamento,
  • di condanna[5]
  • e costitutiva[6].

L’azione di mero accertamento è l’azione attraverso la quale si chiede l’accertamento di un proprio diritto (accertamento positivo) o l’accertamento dell’inesistenza di un diritto altrui (accertamento negativo).

Si parla di azione di “mero” accertamento perché la richiesta di accertamento è contenuta in tutte le azioni chi si propongono al giudice, anche in quelle di condanna e in quella costitutiva.

Condivisibile è allora quella dottrina che vede nell’azione di accertamento il fulcro della tutela giurisdizionale[7].

I presupposti e limiti

L’interrogativo che si è posto lungamente è stato quello di capire se l’azione di accertamento fosse da ritenersi a carattere generale o un’azione tipica, cioè proponibile solo nei casi espressamente previsti dalla legge.

L’ordinamento italiano, a differenza di alcuni ordinamenti stranieri[8], non contiene alcuna disposizione dalla quale possa dedursi in modo chiaro l’ammissibilità, in termini generali, dell’azione in analisi.

La risposta potrebbe, in un primo momento, differenziarsi a seconda della natura del diritto controverso.

Con riferimento ai diritti assoluti, in particolar modo, non si sono mai posti significativi problemi per ammettere un respiro generale all’azione di accertamento.

Le argomentazioni a sostengo di tale soluzione possono essere così riassunte.

In primo luogo, sul piano formale, il codice civile riconosce svariate ipotesi di azioni di accertamento di diritti assoluti (ad esempio: azione di rivendica, azione di regolamento di confini, actio negatoria servitutis).

In secondo luogo, sul piano strutturale, la caratteristica del diritto assoluto è propriamente quella di consentire al suo titolare di godere dello stesso nei confronti dell’indistinta collettività (erga omnes), che dovrà sopportare tale godimento.

Ecco che, un godimento assoluto così descritto, verrebbe ad essere limitato laddove soggetti terzi contestassero la titolarità dello stesso. L’ordinamento, dunque, costruisce degli strumenti di tutela che possono essere esperiti al fine di accertare a chi spetti il diritto così da garantire un godimento pieno.

In relazione ai diritti relativi, invece, la risposta non è stata univoca.

In questo caso, infatti, l’ammissibilità di una azione di accertamento con carattere generale pone qualche difficoltà in più[9].

Per ragioni di economia processuale si è ritenuto che l’esperimento della sola azione di accertamento, rispetto all’esistenza o inesistenza di un diritto di credito, sarebbe inutile in quanto non riconoscerebbe al creditore la dovuta utilità. Il creditore, infatti, vedrebbe accertata l’esistenza di un diritto di credito senza la possibilità di esperire una azione esecutiva in quanto carente di un titolo idoneo.

Tale utilità potrebbe essere ottenuta attraverso l’azione di condanna: ecco perché si è ritenuto di dover escludere l’ammissibilità dell’azione di accertamento di un diritto di credito e si è ritenuto ben più utile agire, direttamente, attraverso una azione di condanna.

È tuttavia possibile rintracciare vari argomentazioni che consentono di ammettere, in termini generali, l’azione di mero accertamento anche con riferimento ai diritti relativi.

Un primo argomento, di carattere meramente formale, potrebbe ricavarsi dal fatto che il nostro codice civile non contiene alcuna norma che limita l’esercizio dell’azione di accertamento ai casi previsti dalla legge.

Il legislatore, infatti, laddove ha inteso come tipica una azione lo ha fatto in modo chiaro: si pensi all’azione costitutiva (art. 2908 c.c.).

Un secondo argomento può desumersi dall’art. 24 della Costituzione: tale norma sancisce non solo il diritto ad agire liberamente in giudizio ma anche quello di scegliere la forma di tutela che si ritiene più adeguata[10].

Un terzo argomento, di carattere pratico, sorge dal rilievo per cui, talvolta, l’accertamento di un diritto di credito può risultare sufficiente per ottenere l’adempimento da parte del debitore[11].

Un quarto argomento, infine, di carattere sistematico assume una importanza preponderante. Nel nostro ordinamento, infatti, è presente l’istituto dell’accertamento incidentale (art. 34 c.p.c.) attraverso il quale è possibile che il giudice, per richiesta della parte o per espressa previsione legislativa[12], decida con forza di giudicato su di una questione pregiudiziale.

Per questione pregiudiziale si intende una diversa ed autonoma situazione sostanziale rispetto a quella principale, proposta in giudizio.

Con la domanda di accertamento incidentale, quindi, una parte chiede che venga formulato un giudizio di accertamento sul diritto pregiudiziale avente efficacia di giudicato.

Se, come detto, tale istituto è esperibile solo con riferimento alle questioni pregiudiziali, non può essere utilizzata per le questioni preliminari.

Le questioni preliminari hanno ad oggetto semplici fatti che non potrebbero mai costituire oggetto di un autonomo giudizio.

La conseguenza di quanto fin ora scritto è che se il nostro ordinamento consente di accertare con efficacia di giudicato le questioni pregiudiziali, senza alcuna limitazione, l’azione di accertamento non può non avere un respiro generale.

All’argomentazione appena vista se ne potrebbe affiancare una seconda.

Il n. 1 dell’art. 2635, nell’individuare le domande giudiziali relative a beni immobili soggette a trascrizione, dispone la trascrivibilità sia delle “domande dirette a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su beni immobili”[13], sia “le domande dirette all’accertamento dei diritti stessi”.

La norma sembrerebbe quindi ammettere la possibilità di esperire azioni di mero accertamento con riferimento a diritti reali di godimento su beni immobili, al di là di una espressa previsione legislativa, al di là quindi della proprietà o della servitù.

L’ambito di applicazione oggettivo della disposizione in analisi diviene ancor più ampia se letta in combinato disposto con l’art. 2691 c.c. Quest’ultima norma estende la previsione anche alle domande relative a beni mobili registrati, estendendo di conseguenza la possibilità di esperire l’azione di mero accertamento anche a tutti i diritti reali di godimento, siano essi relativi a beni immobili, mobili registrati, universalità di beni mobili.

La centralità dell’interesse ad agire e i principi costituzionali

 Mentre il problema della tipicità o generalità dell’azione di accertamento è agilmente risolvibile, più controverso è capire quali limiti debbano essere posti all’esperimento di tale azione.

Ciò che può dirsi con certezza è che non è sufficiente l’affermazione della titolarità di un diritto per poter legittimamente pretendere una sentenza che accerti l’esistenza (o l’inesistenza) dello stesso.

Il processo è strumentale alla difesa di un diritto, quindi si presuppone che l’interesse di tutela sorga a seguito di una violazione o contestazione di una posizione giuridica meritevole di tutela.

Il limite, unanimemente riconosciuto, è l’interesse ad agire ex. art. 100 c.p.c.

In mancanza di tale requisito, definito da autorevole dottrina come extra-formale e generalissimo[14], il giudice dovrà emettere una sentenza di rigetto di mero rito, ai sensi dell’art. 279, n. 2 c.p.c.

Se questa considerazione è sicuramente condivisibile vi è da compiere un’ulteriore rilievo.

Proprio in virtù della generalità dell’interesse ad agire si palesa il rischio di limitare in modo eccessivamente generico e discrezionale il perimetro dell’azione in esame[15].

In assenza di un appiglio normativo chiaro all’interno del codice civile di rito è utile interrogarsi se sia possibile rintracciare una risposta efficace in costituzione al fine di delimitare, con certezza ed in concreto, il presupposto dell’interesse ad agire[16].

Partendo dallo studio dell’art. 24 co. II Cost. è possibile rilevare come oggetto della tutela di mero accertamento possano essere solo situazioni giuridiche concrete (latamente intese, ancorché future) e non fatti meri (ancorché connessi a situazioni giuridiche rilevanti)[17].

Tale assunto è condivisibile se si considera come l’articolo sopra richiamato garantisce una tutela sostanziale ed effettiva del diritto di difesa della parte convenuta[18].

L’esercizio di tale diritto sarebbe compresso e non pienamente esercitabile laddove oggetto di un giudizio di accertamento fosse un mero fatto, a cui fosse riconducibile l’esperimento di plurime azioni giudiziarie.

In altri termini, senza una chiara definizione di quale sia il diritto vantato in giudizio non sarebbe possibile l’esercizio di un efficace diritto di difesa.

Considerazioni del tutto analoghe potrebbero essere avanzate laddove oggetto di un giudizio di mero accertamento fosse una semplice norma. Anche in tale ipotesi, infatti, data l’astrattezza e la genericità della disposizione da cui potrebbero derivare plurime applicazioni, il diritto di difesa del convenuto non sarebbe adeguatamente tutelato.

Ciò pare trovare una chiara conferma dalla lettura dell’art. 24 co I, della Costituzione.

Non è un caso, infatti, che il costituente abbia riconosciuto il generale ed atipico diritto di agire in giudizio con riferimento alla tutela di “diritti e interessi legittimi”.

Nel cogliere il significato di tale presupposto processuale è necessario rivolgersi alla giurisprudenza che negli anni, con chiarezza, ne ha definito il contenuto[19].

L’interesse ad agire assolverebbe ad una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l’aspetto di un controllo di meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli artt. 24 e 111 Cost.

La valutazione dell’interesse ad agire, in quest’ottica, diviene efficace antidoto del più ampio divieto di abuso del processo, inteso come esercizio dell’azione in forme eccedenti, rispetto alla tutela attribuita dall’ordinamento.

Adire in giudizio senza un concreto ed attuale interesse ad agire implicherebbe la lesione del principio del giusto processo, secondo una logica che avversi ogni inutile e perdurante appesantimento del giudizio al fine di approdare attraverso la riduzione dei tempi della giustizia ad un processo che risulti anche giusto[20].

La centralità di tale principio può essere rintracciato anche nella giurisprudenza europea.

Si è sostenuto come l’interesse ad agire debba essere inteso come il presupposto essenziale e preliminare di qualsiasi azione giurisdizionale[21].

Ancora attuale, allora, sembra il pensiero di Chiovenda secondo cui l’interesse ad agire “consiste in una situazione di fatto tale che l’attore senza l’accertamento giudiziale soffrirebbe un danno, di modo che la dichiarazione giudiziale si presenta come il modo necessario per evitare il danno”[22]. L’interesse ad agire, in altri termini, sarebbe elemento essenziale sia del diritto soggettivo che dell’azione: non ci sarebbe azione sussistente e fondata senza interesse[23]

L’azione in analisi presuppone un bisogno di certezza legale infranta da una contestazione di un diritto prima certo[24].

La stessa corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’interesse ad agire ricorre in presenza di uno stato di incertezza, pregiudizievole per la parte e risolvibile soltanto con l’intervento del giudice[25]

È ben possibile, dunque, che il diritto di agire si consolidi in un momento antecedente alla violazione del diritto stessa e che si palesi in una c.d. crisi di cooperazione[26].

L’accertamento dell’interesse ex art. 100 non può che compiersi in astratto con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunciata. Indipendentemente dalla fondatezza delle allegazioni e delle argomentazioni addotte a sostegno della domanda giudiziale, l’interesse ad agire sussiste allora quando dall’ipotetico accoglimento delle istanze possa conseguire un vantaggio giuridicamente apprezzabile per l’istante[27].

In altri termini in base ai principi generali in materia di condizioni dell’azione, desumibili dall’art. 24, co. 1, Cost. e dall’art. 100 c.p.c., l’interesse processuale presuppone, nella prospettazione della parte istante, una lesione concreta ed attuale dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio e l’idoneità del provvedimento richiesto al giudice a tutelare e soddisfare il medesimo interesse sostanziale[28]. In mancanza dell’uno o dell’altro requisito, l’azione è inammissibile. Sarebbe infatti del tutto inutile, ai fini giuridici, prendere in esame una domanda giudiziale se nella fattispecie prospettata non fosse affermata una lesione della posizione giuridica vantata nei confronti della controparte, ovvero se il provvedimento chiesto al giudice fosse inadeguato o inidoneo a rimuovere la lesione.

I risvolti giurisprudenziali: Cassazione Sez. I n. 28821/2017

Tra le ultime sentenze che si sono occupate dei limiti strutturali dell’azione di mero accertamento deve essere indicata la sentenza n. 28821 del 30 novembre 2017, emessa dalla prima sezione della Corte di Cassazione Civile.

La Corte di Cassazione ha affrontato una spinosa questione che vedeva dibattuta la paternità artistica di un’opera ad un dato autore.

La Suprema Corte, dopo aver brevemente ricostruito i fatti di causa, rileva come il profilo più controverso da indagare sia quello della ammissibilità di un accertamento di mero fatto, sebbene strumentale all’affermazione di un diritto.

L’attore, infatti, nel giudizio di merito, aveva avanzato la richiesta di accertamento e la dichiarazione di autenticità di un’opera artistica, da lui acquistata, nonché l’accertamento dell’attribuzione dell’opera ad un dato artista. Una tale domanda è ritenuta dalla corte come “radicalmente inammissibile” poiché avente ad oggetto non solo l’accertamento di fatti meramente storici ma anche perché all’accertamento degli stessi dovrebbe conseguire la responsabilità dei convenuti per aver posto in essere uno di tali fatti. La Corte, dunque, si allinea a quella consolidata giurisprudenza che ha più volte[29] affermato come “l’azione di accertamento non può avere ad oggetto, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge, una mera situazione di fatto, ma deve tendere all’accertamento di un diritto che sia già sorto, in presenza di un pregiudizio attuale e non meramente potenziale”.

La soluzione appare pienamente condivisibile.

Nel caso di specie, infatti, l’oggetto dell’accertamento richiesto è stata la veridicità dei fatti, l’autenticità di un’opera d’arte, nonché la sua ‘paternità artistica’.

Da ciò ne consegue che anche la richiesta risarcitoria, che sarebbe dovuta sorgere dall’accertamento dei fatti, non può essere ritenuta ammissibile.

L’errore del giudice di merito che aveva accolto le doglianze attoree è consistito nel dare “ingresso ad un accertamento autonomo di fatti storici che, invece, potevano costituire soltanto la mera premessa, incidentalmente verificata, del prodursi di un effetto giuridico positivo per l’attore”.

Conclusioni

Le ricostruzioni della dottrina e i rilievi giurisprudenziali consentono all’interprete di delineare un quadro chiaro e completo riguardo all’azione di accertamento.

La nozione di interesse ad agire ricopre un ruolo irrinunciabile nell’ambito dell’azione di mero accertamento. L’art. 100 c.p.c., infatti, sembra la norma su cui fondare l’ammissibilità di una azione di mero accertamento in termini generali, seppur con i limiti sopra descritti.

L’azione di mero accertamento, quindi, è ammissibile purché sussiste l’interesse ad agire e una obiettiva incertezza rispetto ad un rapporto giuridico.

L’incertezza dovrà essere obbiettiva e attuale, capace di produrre un danno, anche solo potenziale, ovvero di un pregiudizio concreto e attuale che non sia eliminabile senza l’intervento del giudice.

Senza tali accorgimenti si utilizzerebbe la giurisdizione contenziosa per scopi meramente consultivi, senza una effettiva esigenza di riportare certezza su di un rapporto controverso.

L’interesse ad agire, quindi, ha il merito di consentire la distinzione ‘‘fra le azioni di mera iattanza (vessatorie) e quelle oggettivamente dirette a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto’’[30].


[1] Sull’argomento si rimanda a quanto scritto da I. Pagni, “Note sui limiti di ammissibilità della domanda di mero accertamento”, in Foro It., 2003, 1729.

[2] Queste le parole di G.Verde in “Diritto Processuale Civile, parte generale”, quarta ed. Zanichelli, 2015.

[3] La tutela esecutiva si pone in un momento successivo rispetto alla tutela di cognizione. Essa mira a dare una concreta ed effettiva esecuzione al titolare del diritto che risulta tale, da un provvedimento giudiziale esecutivo o da un documento stragiudiziale, valevole come titolo esecutivo (art. 474 c.p.c.).

[4] La tutela cautelare assume un ruolo di mera strumentalità rispetto a quelle di cognizione in quanto consente alla parte di ottenere una tutela provvisoria rispetto ad una situazione giuridica che rischierebbe di venir compromessa nelle more del giudizio. Il fine, dunque, è quello di evitare che l’attesa della decisione ne pregiudichi in concreto la soddisfazione piena

[5] L’azione di condanna è strumentale ad ottenere non solo un accertamento dell’esistenza del diritto controverso ma anche a far si che il giudice dichiari l’avvenuta lesione dello stesso. A ciò ne conseguirà la possibilità per l’attore di agire in via esecutiva per ottenere piena soddisfazione del suo diritto, se il convenuto-condannato non collaborerà spontaneamente.

[6] L’azione costitutiva consente al giudice di accertare se l’attore è titolare del potere utile ad ottenere una modificazione della situazione giuridica che modifichi, estingua o costituisca una situazione giuridica. Accertato ciò, appunto, il giudice potrà pronunciare il provvedimento costitutivo, incidendo sulla situazione giuridica preesistente.

[7] Così C. Consolo in “Spiegazioni di Diritto processuale civile, Vol I”, G. Giappichelli Editore, 2017.

[8] Il §256 Z.P.O. tedesco, dispone che “può proporsi l’azione per l’accertamento dell’esistenza o della non esistenza d’un rapporto giuridico, per la ricognizione di una scrittura o per l’accertamento della falsità della stessa, quando l’attore ha un interesse giuridico a che il rapporto giuridico o l’autenticità o la falsità della scrittura sua subito accertata con decisione giudiziale”

[9] Anche se, deve essere notato, è possibile individuare, anche al di fuori dei diritti reali, azioni di mero accertamento. Un esempio può essere l’azione di accertamento della nullità del contratto ai sensi dell’art. 1421 c.c. che avviene con sentenza dichiarativa.

[10] Invero, rispetto a tale argomentazione sono stati avanzati dei dubbi. In dottrina si è notato come dall’art. 24 co I, Cost, relativo al diritto di azione, abbia un carattere generale e, riferendosi alla tutela giurisdizionale dei diritti in genere, nulla dica circa il contenuto del provvedimento con cui si conclude un processo di cognizione, e in particolar modo se questo provvedimento si possa limitare ad una sentenza di mero accertamento. Così A. Proto Pisani, in “Lezioni di Diritto Processuale Civile”, Jovene Editore, 2014.

[11] L’accertamento, infatti, può essere sufficiente a ristabilire le condizioni ed i presupposti che rendono possibile la collaborazione delle parti, facendo così svanire la crisi di cooperazione.

[12] L’ipotesi classico è desumibile dall’art. 35 c.p.c.

[13] Il riferimento è alle tipiche azioni di condanna

[14] Così A. Proto Pisani, in opera già citata.

[15] I rischi di un eccessivo soggettivismo del giudice nell’interpretazione dell’art. 100 c.p.c. sono denunciati da A. Panzarola, “Davvero il diritto di azione (art. 24, comma 1,Cost.) dipende dal valore economico della pretesa”, in Corriere Giuridico, 2/2016, 253.

[16] A conferma della complessità di delineare il perimetro dell’interesse ad agire si veda A. Proto Pisani, “Dell’esercizio dell’azione”, in Commentario Allorio, Torino, 1973, I, 2, 1066; M. Marinelli, “La clausola generale dell’art. 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli”, 2005.

[17] Sul punto si veda il paragrafo 5 ed in particolar modo la consolidata posizione giurisprudenziale.

[18] Sul punto si veda quanto scritto da R. Caponi, “In tema di accertamento sulla norma astratta, sui diritti futuri e sui rapporti di durata” in Riv. Dir. Proc., 1991, 1155.

[19] Invero l’aiuto della giurisprudenza si è scoperto di primaria importanza in quanto la distinzione tra norme, fatto e diritto non sempre risulta essere chiara. Nel concreto dipanarsi delle cause, infatti, tale distinzione teoricamente netta diviene evanescente.

[20] In questi termini, da ultimo, si è espresso Cons. Stato Sez. IV, 27/02/2018, n. 1188

[21] In particolar modo così Corte giustizia Unione Europea Sez. IV, 20/12/2017, n. 268/16 si è espressa, precisando che affinché il ricorso di annullamento di un atto (presentato da una persona fisica o giuridica) sia ricevibile, occorre che il ricorrente giustifichi in modo pertinente l’interesse che per esso riveste l’annullamento di tale atto.

[22] Cosí G. Chiovenda in “Istituzioni di Diritto Processuale Civile”, Napoli, 1933.

[23] Redenti, E., Diritto processuale civile, I, Nozioni e regole generali, IV ed. a cura di M. Vellani, 1995, 66 ss.

[24] Questo principio pare desumibile anche dall’art. 949 c.c. che ammette la possibilità al proprietario di agire in giudizio per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa “quando ha motivo di temerne pregiudizio”.

[25] L’interesse ad agire (con l’azione di mero accertamento) sussiste ogni qualvolta ricorra una situazione pregiudizievole d’incertezza, relativa a diritti o rapporti giuridici, che non sia eliminabile senza l’intervento del giudice, così conseguendo un risultato utile e giuridicamente apprezzabile (si vedano in particolar modo Cass. n. 11250/98, n. 5819/97, n. 5207/94, n. 5889/93, n. 12818/91, n. 4208/91 e n. 5743/90).

[26] Riprendendo le parole di autorevole dottrina si può condividere il pensiero secondo cui “il titolare del diritto avrà interesse ad agire in mero accertamento laddove un terzo si affermi titolare dello stesso diritto, di un diritto prevalente, di un diritto reale limitato sullo stesso bene; allo stesso modo sussiste interesse ad agire in mero accertamento nel caso in cui il terzo neghi l’esistenza del diritto, allegando un fatto estintivo del diritto stesso; o quando il titolare della situazione di soggezione contesti l’esistenza di un diritto potestativo negando la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per il legittimo esercizio dello stesso”. Così A. Proto Pisani in opera già citata.

[27] La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisato che l’esistenza di un interesse ad agire del ricorrente presuppone che il ricorso possa, con il suo risultato, procurare un beneficio personale alla parte che l’ha proposto. Al contrario, non sussiste interesse ad agire qualora l’esito favorevole di un ricorso non sia comunque idoneo a dare soddisfazione al ricorrente. Così Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 23/11/2017, n. 596/15

[28] In tal senso si veda quanto già scritto da autorevole dottrina. Su tutti E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi: «l’interesse ad agire è dato dal rapporto tra la situazione antigiuridica che viene denunciata e il provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante l’applicazione del diritto e questo rapporto deve consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per acquisire all’interesse leso la protezione accordata dal diritto».

[29] Tra i precedenti richiamati dalla Corte in sentenza si riportano: Sez. L, Sentenza n. 3905 del 2003; Sez. L, Sentenza n. 10039 del 2002, sez. L, Sentenza n. M42 del 1999; Sez. L, Sentenza n. 1167 del 1998; Sez. L, Sentenza n. 240 del 1988.

[30] Così si è espressa Cass. civ., Sez. lav., 23 novembre 2007, n. 24434. L’idea di immaginare l’interesse ad agire come “uno scudo efficiente per escludere azioni di iattanza” è altresì condiviso dalla dottrina. G. Verde, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in Dir. Proc. Amm., 2010, 800).

Laureato in giurisprudenza presso l’Università 'Federico II' di Napoli con tesi in Diritto processuale civile dal titolo "Il giudizio di Ammissibilità dell'Appello e del ricorso in Cassazione" (relatore Prof. Angelo Scala). Assistente universitario volontario in diritto processuale civile presso l'Università Federico II. Collabora con riviste giuridiche on-line e con la rivista Scientifica “Gazzetta Forense”.

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