Il codice civile dedica il Titolo II del Libro IV alla disciplina del contratto in generale, con tale locuzione intendendosi, ai sensi dell’art. 1321 c.c., “l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale”. Si valorizza, dunque, l’incontro della volontà di due o più soggetti che intendono porre in essere dei comportamenti giuridicamente rilevanti e suscettibili di valutazione economica. In tal senso, l’impianto codicistico si premura di assicurare efficaci presidi volti a garantire la formazione di una piena, libera e consapevole determinazione delle parti.
Ciò in ragione di un duplice ordine di motivazioni. Innanzitutto, l’essenza dell’accordo risiede nel componimento di un conflitto di interessi tra i contraenti: di talché non sarebbe possibile predisporre un regolamento contrattuale “conveniente” laddove i reciproci vantaggi e le rispettive concessioni non venissero fatte sulla base di scelte coscienti.
In secondo luogo, bisogna tenere a mente che lo stesso codice civile, all’art. 1322, prevede che il contratto sia espressione dell’autonomia negoziale delle parti che si esplica nella facoltà di determinare liberamente il contenuto del contratto stesso, ferma restando l’osservanza dei limiti imposti dalla legge, e di stipulare negozi non espressamente tipizzati dalla legge che perseguano interessi meritevoli di tutela.
La disciplina così ricostruita fa riferimento al cosiddetto primo contratto caratterizzato, peraltro, da una presunzione di simmetria tra le parti. In altre parole, il legislatore pone sullo stesso piano i due o più contraenti, riconoscendo loro analoga forza contrattuale qualificata dal medesimo bagaglio conoscitivo ed informativo.
Da qui discende che il regolamento negoziale, avendo come fine ultimo quello di soddisfare le preferenze delle parti, non possa essere oggetto di interferenza da parte dell’ordinamento. L’assetto di interessi che si consolida mediante il contratto costituisce, perciò, merito insindacabile per il giudice.
È ben possibile, tuttavia, che l’equilibrio contrattuale sia viziato venendo a configurarsi, piuttosto, un’ipotesi di squilibrio.
La questione dello squilibrio contrattuale
È pacifico che nel linguaggio comune il concetto di squilibrio evochi una situazione di sbilanciamento, di sproporzione che, in ambito contrattuale, può atteggiarsi nei seguenti modi.
Lo squilibrio, difatti, potrà avere natura originaria ove attenga alla dimensione del contratto quale atto e, quindi, si manifesti al momento della relativa formazione ed avere connotazione economica ovvero normativa. Con la prima categoria deve intendersi l’alterazione relativa al valore economico delle prestazioni considerate nella globalità dell’operazione in cui si inseriscono. Tipico esempio è dato dalla sproporzione ultra dimidium rilevante ex art. 1448 ai fini della rescissione del contratto concluso in stato di bisogno.
Lo squilibrio normativo, invece, si configura qualora ad essere adulterata sia la sintesi dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto facenti capo alle parti. Ciò si verifica, ad esempio, nel caso in cui vengano predisposte clausole vessatorie per una parte.
Per completezza espositiva, deve, peraltro, chiarirsi come l’alterazione dell’equilibrio possa manifestarsi successivamente alla stipulazione riguardando, perciò, il momento esecutivo del rapporto negoziale. Si parlerà, in questi casi, di squilibrio sopravvenuto.
Punto di contatto tra le due categorie è dato dal fatto che in entrambe le ipotesi, seppur per vie diverse, si possa ottenere la caducazione del contratto.
Peraltro, è ben possibile che la sproporzione trovi una causa espressamente disciplinata dalla legge come nel caso summenzionato di contratto concluso in stato di bisogno. Parimenti può accadere che l’operazione negoziale sia affetta da uno squilibrio atipico perché esulante da quelli tassativamente previsti.
Il sindacato giudiziale e i rimedi esistenti
Invero in tutte queste ipotesi si impone l’analisi di varie problematiche. Esse attengono, principalmente, alla possibilità per il giudice di sindacare l’equilibrio del contratto ed all’individuazione dei rimedi esperibili unitamente alle relative conseguenze. All’uopo è, però, necessaria, una precisazione: a ben vedere nelle situazioni di squilibrio originario tipico la questione circa il potere di sindacato del giudice più che porsi in chiave di ammissibilità/inammissibilità, si risolve, piuttosto, nel comprendere se questi sia autorizzato ad effettuare interventi manutentivi/conservativi sul contratto. Nei casi, invece, di sproporzione originaria atipica ci si dovrà chiedere, anzitutto, se l’interprete possa effettivamente accertarla per poi individuare gli strumenti deputati a farvi fronte. Ideale filo rosso tra le due fattispecie si rinviene nell’indagine relativa all’individuazione del fondamento di siffatto tipo di potere.
Procedendo con ordine, la risposta a questi interrogativi può essere fornita, in primo luogo, da un’analisi dell’impianto ordinamentale. Infatti, il legislatore sembra esprimere un favor per i rimedi avverso le vicende squilibranti del contratto che abbiano natura caducatoria. In realtà, questa predilezione viene ridimensionata se si considerano i seguenti istituti.
Innanzitutto la nullità parziale, come si evince dalla stessa scelta linguistica, determina la caducazione esclusivamente della parte difettosa del contratto: la restante parte, infatti, rimane valida ed efficace. Si può, dunque, sostenere che la nullità parziale sia un rimedio legale formalmente caducatorio con effetto manutentivo.
Discorso analogo vale per l’annullamento, anch’esso caratterizzato da effetto caducante. Tuttavia, l’articolo 1432 c.c. disciplina la rettifica del contratto che ha natura conservativa e che, ove possibile, prevale sull’annullamento. Infatti la norma in questione dispone che non possa essere spiegata azione di annullamento qualora una delle parti, sub specie la parte che non sia caduta in errore, offre di eseguire il contratto nelle modalità e nel contenuto rispondenti alla volontà che la controparte avrebbe espresso ove non fosse intervenuto l’errore. In altre parole l’ordinamento, mediante lo strumento negoziale, tutela l’interesse all’esecuzione del contratto.
La medesima logica si rinviene nell’ipotesi disciplinata dal secondo comma dell’art. 1467 c.c. La disposizione si occupa di regolare la fattispecie di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Sebbene si discuta, in questo caso, di un tipo di sopravvenienza che incide sulla fase esecutiva del rapporto, il comma 2 della norma prevede che la parte che trae vantaggio dall’eccessiva onerosità possa mantenere in vita il contratto mediante un’offerta di modifica del contenuto negoziale.
Ancora, l’articolo 1450 c.c., in tema di rescissione, introduce la possibilità, per la parte avverso la quale sia domandata la rescissione, di promuovere una proposta di modifica del contratto riconducendolo ad equità. Anche qui trattasi di rimedio negoziale manutentivo che viene posto in relazione al concetto di equità.
Ad ogni modo, il nostro sistema codicistico ammette altresì dei casi in cui il meccanismo remediale abbia natura giudiziale e, quindi, sia il giudice ad intervenire sullo squilibrio economico del contratto.
Si fa riferimento, a titolo esemplificativo, all’art. 1492 c.c. che, in materia di compravendita di una cosa viziata, riconosce al compratore la facoltà di scegliere tra la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo del bene. Tale seconda evenienza implica l’ingerenza dell’interprete sul contenuto del contratto, dovendo questi procedere alla rideterminazione del corrispettivo dovuto dall’acquirente.
Sempre in relazione ai singoli contratti, sub specie all’appalto, l’art. 1660 c.c. concernente le variazioni necessarie al progetto prevede che, in mancanza di accordo tra le parti, spetti al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo.
Infine, analogo potere di intervento viene riconosciuto al giudicante che, ai sensi dell’art. 1384 c.c., può ridurre equamente la clausola penale laddove risulti manifestamente eccessiva ovvero l’obbligazione principale venga parzialmente adempiuta.
Dato anche in questo caso il richiamo all’equità, si potrebbe, peraltro, indagare sulla possibilità per il giudice di utilizzare l’equità non già in chiave integrativa, al fine di completare un contratto volutamente lacunoso, bensì con una connotazione correttiva, volta ad incidere su di un regolamento negoziale completo ma squilibrato. In caso di risposta affermativa sarebbe possibile, inoltre, discutere dell’ammissibilità generalizzata di questo intervento ovvero della sua eccezionalità.
In questa direzione va inquadrato il penetrante potere di intervento riconosciuto al giudice in caso di rescissione: invero, in questi casi, egli potrà sindacare lo squilibrio sostanziale del contratto in ragione della presenza di un’ingiustizia procedurale. Infatti, la parte che versi in stato di pericolo o di bisogno non può né esprimere né perseguire le proprie reali preferenze. Utilizzando un linguaggio familiare agli economisti, la sua curva d’indifferenza si presenta alterata. Dunque, il vizio del procedimento di formazione del contratto dà la stura all’operato del giudice che sarà, pertanto, orientato in senso correttivo.
Invece, nell’ipotesi in cui la sproporzione abbia natura atipica dovrà comprendersi se, in assenza di una puntuale disciplina normativa, le norme summenzionate che ammettono l’operato del giudice sul contenuto negoziale possano essere ritenute attuative di un principio generale e, per questo, applicabili in via analogica ai casi non disciplinati dalla legge, ovvero se costituiscano norme eccezionali.
Alla stregua dell’orientamento prevalente si propende per quest’ultima soluzione con l’inevitabile conseguenza di assoggettare tali regole ad un regime di stretta interpretazione. Siffatta impostazione sarebbe, peraltro, più in linea con i principi di non interferenza e di insindacabilità del contratto di cui si è parlato in precedenza. Si assicurerebbe, peraltro, che l’operatore del diritto non vada mai a sostituirsi ai soggetti vincolati dal negozio attuando, piuttosto, le rispettive volontà.
Alla luce di quanto fin qui considerato, quindi, può affermarsi che il sindacato del giudice sull’equilibrio economico originario del contratto possa configurarsi nei soli casi previsti dalla legge.
Secondo e terzo contratto
È possibile, tra l’altro, trovare dei punti di contatto tra la disciplina così ricostruita e quella propria dei cosiddetti secondo e terzo contratto. A differenza della figura codicistica, questi rappresentano in maniera maggiormente dinamica lo svolgimento dei rapporti giuridici. Essi sono, inoltre, caratterizzati da una presunzione opposta rispetto a quella operante per il primo contratto: si ritiene, infatti, che tra le parti contrattuali vi sia un’asimmetria, informativa od economica, a causa della quale una delle due risulti “indebolita”. Tipico esempio di secondo contratto è costituito da quello stipulato tra consumatore e professionista; alla categoria del terzo contratto appartengono, invece, i negozi business to business conclusi tra imprese di cui una versi in uno stato di dipendenza economica nei confronti dell’altra.
Nei casi suddetti, perciò, la disparità tra i contraenti si ripercuote negativamente sull’equilibrio del contratto. Si badi, tuttavia, che qui ciò che viene in rilievo è uno squilibrio normativo che, come precedentemente accennato, si configura ove vi sia una sproporzione dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento negoziale.
Con riferimento alle questioni che ci occupano, appare utile rilevare una convergenza, in punto di disciplina, tra il I ed il II contratto. Infatti anche queste in queste ultime ipotesi il giudice è abilitato a sindacare lo squilibrio contrattuale come riflesso di un’ingiustizia procedurale che, nello specifico, si tradurrà nell’errata formazione del contratto dovuta alla debolezza negoziale di una delle parti. Tuttavia, come già anticipato, la cognizione dell’interprete avrà ad oggetto l’alterazione normativa, non già quella relativa al valore delle prestazioni.
Esemplificativi di quanto sostenuto appaiono gli art. 33 e 34.2 del dlgs 206/2005 (codice del consumo). La prima norma, occupandosi di qualificare ed elencare le clausole vessatorie, pone in rilievo l’attenzione della disciplina consumeristica ad evitare sproporzioni tra professionista e consumatore che si ripercuotano sulla sintesi di facoltà e doveri scaturenti dal contratto.
L’art. 34.2, invece, statuendo che il controllo di vessatorietà della clausola attenga alla “natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende” ed, in seconda battuta, che questo non riguardi la “determinazione dell’oggetto del contratto, nè all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile” delimita, in positivo ed in negativo, l’ambito di operatività del sindacato del giudice.
Chiarito ciò appare utile affrontare la seguente correlata e consequenziale questione. E’ necessario, difatti, individuare quale tipo di rimedio sia esperibile nel caso in cui venga accertato uno squilibrio normativo originario del contratto.
Orbene, gettando lo sguardo al codice del consumo, ai sensi del combinato disposto tra gli articoli 33, 34 e 36, lo si individua nell’istituto della nullità di protezione. L’articolo 36.1 del cod.cons., infatti, commina la nullità per le clausole considerate vessatorie ex articoli 33 e 34, mantenendo in vita la parte del contratto non viziata.
La natura della nullità di protezione
A prescindere dal dibattito concernente la natura ibrida della nullità di protezione, la quale incarna per taluni aspetti la nullità in senso stretto e per altri, invece, l’annullabilità, occorre soffermarsi sulla natura di siffatto tipo di rimedio. Se si ritiene prevalente l’impostazione che ricomprende la nullità di protezione nel novero della nullità pura e semplice, si dovrebbe concludere nel senso di considerarla uno strumento caducatorio. Dalla lettera delle norme, tuttavia, emerge la volontà legislativa di dare attuazione al principio di conservazione degli atti: la nullità, infatti, affligge esclusivamente le clausole negoziali affette da patologia e, quindi, in sostanza, si produce un effetto conservativo della parte sana del contratto.
Appare interessante notare come, anche nell’ambito della disciplina consumeristica, al pari di quella del codice civile, operi il principio di non interferenza. Invero, se da una parte è riconosciuta al giudice la possibilità di vagliare lo squilibrio normativo del contratto; dall’altra il rimedio per farvi fronte ha natura legale, sub specie la nullità di protezione. Si riscontra ancora una volta una similitudine tra I e II contratto. Nel primo caso lo strumento manutentivo è negoziale, salvi i casi di intervento giudiziale espressamente previsti dalla legge; nel secondo l’effetto manutentivo/conservativo proviene da un rimedio legale.
Simili argomentazioni possono essere mosse se si prende in considerazione la normativa in materia di terzo contratto. A titolo esemplificativo l’articolo 9 della legge 192/98 (legge sulla subfornitura) prevede la nullità del patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica che si sostanzia ove tra due imprese si verifichi un significativo squilibrio di diritti ed obblighi derivanti dal contratto di subfornitura. Anche in queste circostanze, dunque, opera un rimedio legale, essendo preclusa al giudice la possibilità di porre in essere interventi conservativi sul contratto.
La giurisprudenza
Sennonchè, l’impianto fin qui considerato è stato messo in crisi dalla giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità.
Si fa riferimento, rispettivamente, all’intervento della Corte costituzionale in materia di caparra confirmatoria manifestamente eccessiva e della Corte di Cassazione in ordine ai contratti di assicurazione con clausole claims made. Orbene, in entrambe le ipotesi i giudici hanno adottato un approccio sostanzialistico in ordine all’individuazione del fondamento del potere giudiziale di sindacato sullo squilibrio economico originario del contratto. All’uopo l’operazione ermeneutica valorizza la clausola di buona fede, considerandola alla stregua non già di regola di responsabilità, bensì di validità. In questi casi la buona fede acquista una connotazione precettiva- imperativa il cui contenuto è dato dall’equilibrio del contratto.
Per tal via, quindi, si riconosce la suscettibilità della buona fede di incidere sull’assetto negoziale, limitando l’autonomia privata. Si ritiene, infatti, che questa non abbia lo scopo di preservare l’integrità del consenso bensì coincida con la giustizia sostanziale del contratto. Viene riconosciuta, pertanto, la possibilità per il giudice di porre in essere una sorta di sindacato generalizzato sul contratto, a prescindere dall’ingiustizia procedimentale. Ad ogni modo la giurisprudenza conferma che il rimedio allo squilibrio avrà natura legale, concretantesi nella nullità, e, conseguentemente, ribadisce l’eccezionalità dello strumento giudiziale conservativo.
Per completezza espositiva si deve, tuttavia, prendere atto che in diversi contesti ordinamentali non sono presenti siffatte preclusioni. Infatti, in tema di commercio internazionale, l’articolo 3.10 dei principi unidroit prevede che il giudice, chiamato a pronunciarsi sull’annullamento di un contratto squilibrato concluso tra parti con diversa forza negoziale, possa adattare il contenuto o le clausole del contratto stesso.
Osservazioni conclusive
A questo punto si impongono le seguenti osservazioni. Con particolare riferimento alla ricostruzione di buona fede poc’anzi esposta, si può rilevare come, ove si discuta di equilibrio/squilibrio contrattuale, essa si presenti vicina all’equità.
Tuttavia, bisogna specificare che la buona fede precettiva- imperativa non si risolve nell’equità correttiva applicata, ad esempio, nella già menzionata ipotesi di riduzione della clausola penale ex art. 1384 c.c. Perciò, riprendendo le fila del discorso precedentemente accennato, è possibile che il giudice intervenga in chiave correttiva sull’assetto negoziale purchè si riconosca l’operatività di tale evenienza esclusivamente nei casi previsti dalla legge. Appare preferibile, invece, l’impostazione che mette in correlazione la clausola di buona fede con un concetto di equità che postula la proporzionalità del contratto.
Concludendo, infine, può affermarsi che, specie in ambito contrattuale, sia pacifico lo sforzo della giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, di reinterpretare in chiabve evolutiva le clausole generali di buona fede e correttezza in ossequio al principio di solidarietà sociale ex art. 2 della Costituzione.