Danno cagionato da cose in custodia ex art 2051 cc: la giurisprudenza

in Giuricivile, 2018, 2 (ISSN 2532-201X)

L’art. 2051 c.c. dispone che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Pur essendo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie orientate nel senso di ritenere che la norma in esame sancisca un caso di responsabilità oggettiva, una parte della dottrina e della giurisprudenza più tradizionale, ritengono che si tratti di una presunzione di colpa del custode[1].

A sostegno di questa seconda impostazione grava il fatto che l’art. 2051 richiede, per essere esenti da responsabilità, non la prova dell’assenza di colpa – ossia la prova di aver custodito la cosa con diligenza, prudenza, perizia – ma la prova positiva del caso fortuito, ovverosia di un evento che ha interrotto il rapporto causale tra cosa e danno, di tal guisa che non vi sarà esonero da responsabilità se la causa del danno sia rimasta ignota[2].

Tale orientamento è fondato sulla premessa che il custode ha l’obbligo di vigilare sulla cosa in modo da impedire che questa possa arrecare danni a terzi. Tuttavia, ed è qui il rilievo critico che ha portato ad un cambio di rotta, la prova di una diligente vigilanza del custode sulla cosa, non lo libera da responsabilità, essendo liberatoria solo la prova del caso fortuito ovvero del fatto del terzo o dello stesso soggetto danneggiato.

Come già accennato, la giurisprudenza dominante e la dottrina quasi all’unanimità sostengono che l’art. 2051 c.c. introduca una ipotesi di responsabilità oggettiva [3], fondata sul solo nesso di causalità tra la cosa in custodia e l’evento dannoso[4] e dunque a prescindere dalla colpa o dal dolo[5].

Presupposti di applicazione dell’art. 2051 c.c.

Prima di analizzare il criterio di imputazione della responsabilità e, conseguentemente, della prova liberatoria, è opportuno soffermarsi sui presupposti per l’applicazione dell’art. 2051 c.c.

In primo luogo emerge la figura del custode che, secondo parte della dottrina, è da identificare in chi ha una effettiva e non occasionale disponibilità non solo materiale, ma giuridica[6] della cosa ed è in grado di controllare i rischi ad essa inerenti[7].

Prescinde il titolo sul quale si fonda questo potere (proprietà o altro diritto reale) potendo anche trattarsi di un rapporto con la cosa fondato anche su un semplice potere di fatto (possesso o detenzione)[8].

Alla luce di siffatta definizione, si ritiene comunemente che entrino nel raggio di applicazione della norma in esame:

  • il Condominio, quale custode dei beni condominiali[9];
  • il titolare del pubblico esercizio, in relazione al pavimento scivoloso sul quale sono caduti i clienti[10];
  • l’armatore della nave che causa danni alle installazioni portuali in fase di ormeggio[11];
  • il gestore della pista da sci, per i danni subiti dallo sciatore a causa della presenza di ostacoli nella pista[12];
  • il gestore del campo da tennis, per la presenza di una buca sul campo che ha causato un danno al giocatore che vi è inciampato[13].

Il secondo presupposto è costituito dalla cosa che ha cagionato il danno. Può trattarsi di una cosa inerte, priva di un proprio dinamismo – come le insidie e i trabocchetti presenti nel manto stradale – oppure una cosa che, una volta attivata dall’uomo, cagioni un danno.

Naturalmente la cosa deve costituire causa del danno e non mera occasione dello stesso. A tal proposito è utile specificare che il danno deve essere cagionato “dalla cosa” e non “con la cosa” ai fini dell’applicazione dell’art. 2051.

Più precisamente, per l’applicazione dell’articolo in questione è indispensabile che sia direttamente la cosa in custodia a produrre l’evento dannoso in quanto deve esserci una relazione diretta tra la cosa in custodia e il danno. Tale impostazione è giustificata – oltre che dallo stesso tenore letterale della disposizione – anche dal fatto che colui obbligato a risarcire il danno è il custode, ovverosia colui che ha il governo della cosa e che è posto in condizione di controllare i rischi ad essa inerenti[14].

Si considerano cose in custodia anche i beni pubblici. A tal proposito, un orientamento della dottrina e della giurisprudenza ritiene applicabile l’art. 2051 nei confronti dell’ente, custode della pubblica strada, per i danni cagionati a causa delle insidie o trabocchetti[15] presenti (come le buche o altre irregolarità del manto stradale).

Inoltre, questo stesso orientamento ritiene l’art. 2051 applicabile solo per le strade interne ed abitati, oltre che per le autostrade. Le prime perché, per la loro limitata estensione, sono suscettibili di una vigilanza costante ed adeguata; le seconde perché, essendo destinate alla percorrenza veloce ed in condizioni di sicurezza, sono sottoposte ad una particolare vigilanza da parte dell’ente gestore[16]. Invece, le strade extraurbane, essendo beni molto estesi e soggetti ad un generale utilizzo, non possono essere ritenuti suscettibili della qualificazione di cose in custodia.

Più genericamente, evitando classificazioni del tutto arbitrarie, può dirsi che l’art. 2051 si applica nei casi in cui si accerti che, per le caratteristiche del bene, era possibile esercitare la custodia dello stesso; invece, si configura il caso fortuito quando l’evento dannoso era imprevedibile e inevitabile.

Se la custodia della cosa si rivela impossibile, si ritiene applicabile l’art. 2043 c.c., con la conseguenza che incombe sul danneggiato l’onere della prova circa l’esistenza di una situazione insidiosa, non visibile e non prevedibile[17].

Il terzo presupposto di applicazione dell’art. 2051 è costituito dal nesso di causalità tra la cosa e il danno. Qualche pronuncia della giurisprudenza tradizionale[18] ha disposto che il criterio da adottare è quello della normalità statistica (se è prevedibile che da quella cosa possa derivare un danno a terzi, allora sussiste il nesso di causalità tra la cosa e il danno cagionato ad un determinato soggetto). Orientamento, tuttavia, superato da una giurisprudenza più moderna, che ha adottato il criterio della credibilità razionale o della probabilità logica[19].

Sul tema del nesso di causalità si è espressa, di recente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2482/2018. La S.C. ha specificato che non è sufficiente una relazione causale fondata sul modello della conditio sine qua non per determinare una causalità giuridicamente rilevante. Piuttosto, deve darsi rilievo – all’interno delle serie causali così determinate – a quelle soltanto che appaiono ex ante idonee a determinare l’evento secondo il modello della causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale[20].

I principi espressi dalla sentenza in esame inducono a concludere che solo ciò che non sia prevedibile oggettivamente – che, quindi, rappresenti un’eccezione alla normale sequenza causale – secondo una valutazione ex ante o in astratto, integra il caso fortuito, in quanto l’imprevedibilità comporta anche la non evitabilità dell’evento[21].

Prova liberatoria

Una volta che sono presenti tutti e tre i presupposti sopra menzionati (presenza di un custode, della cosa che ha cagionato il danno e del nesso di causalità tra cosa ed evento dannoso), colui che ha in custodia la cosa può essere esente da responsabilità solo provando l’esistenza di un caso fortuito, idoneo – secondo recente giurisprudenza[22]a interrompere il nesso di causalità tra cosa e danno, oppure la colpa esclusiva del danneggiato[23] o, se la cosa è inerte, la sua non pericolosità in relazione allo stato dei luoghi[24].

Secondo una parte della dottrina, per caso fortuito si intende ogni avvenimento, inevitabile dal custode (ed estraneo sia alla cosa che alla sfera del custode stesso), che abbia, da solo, determinato le condizioni dell’evento dannoso[25]. Più precisamente, questa stessa dottrina distingue tra

  • caso fortuito autonomo, consistente in un fattore esterno, estraneo alla sfera di controllo del custode, che abbia interrotto il rapporto causale tra cosa e danno;
  • e caso fortuito incidentale, che si ha quando la cosa che ha provocato il danno è stata attivata da un terzo o dallo stesso danneggiato, ad esempio con un uso improprio della stessa[26].

Caso fortuito, secondo una più precisa definizione, tuttavia, può dirsi quel fatto né prevedibile né prevenibile con l’ordinaria diligenza, cui sia specificamente imputabile l’evento dannoso.

Il custode, pertanto, per essere esente da responsabilità, deve provare non di averla custodita e sorvegliata con la diligenza del buon padre di famiglia, ma dovrà dimostrare quale sia stata la causa del cattivo funzionamento della cosa e che tale causa non era prevedibile, né prevenibile con la diligenza del buon padre di famiglia. È vero che questa definizione avvicina il criterio di responsabilità più nell’area della colpa, ma è anche più coerente con il sistema del codice[27].

Il danneggiato, secondo la Cassazione[28], ha l’onere di provare il nesso causale tra la cosa e il danno. Il custode, come già detto, deve invece provare la mancanza di tale nesso ovvero dare la prova che il nesso causale sussiste tra l’evento e un fatto che non era prevedibile e prevenibile (cioè il caso fortuito).

La Suprema Corte precisa, inoltre, che anche la condotta del danneggiato può integrare il caso fortuito, ma solo se colposa e non prevedibile[29].

Più precisamente, nel caso di compresenza della condotta del danneggiato, possono prospettarsi due ipotesi.

La prima si ha quando il danneggiato utilizza la cosa non con la normale diligenza e con la sua condotta integra un concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.).

La seconda si ha quando la condotta colposa del danneggiato recide totalmente il nesso di causalità tra cosa e danno – integrando gli estremi del caso fortuito – ed esclude, così, la responsabilità del custode.

La Cassazione specifica, quindi, che (in ordine al comportamento del danneggiato) quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’uso della normale diligenza, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento del danneggiato nel dinamismo causale del danno, fino a interrompere il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso[30], quando questo comportamento “benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale” [31].


[1]    Cass. n. 522/1987. E’ vero, tuttavia, che anche alcune recenti pronunce della Cassazione sono orientate verso una presunzione di colpa. V. Cass. n. 13222/2016. e Cass. n. 11802/2016.

[2]    F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. III, Padova, CEDAM, 2015, p. 221. Cass. n. 522/1987 ha ritenuto che “la presunzione legale di colpa posta dall’art. 2051 cod. civ. a carico del custode, importa che questi, per andare esente da responsabilità, debba fornire la prova positiva del fortuito, senza potersi giovare dell’ignoranza dello stato della cosa o della incertezza circa la causa dell’evento dannoso“. Si v. ancora Cass. n. 3129/1987, secondo la quale la responsabilità ex art. 2051 c.c. è fondata “non sul principio della responsabilità oggettiva ma sul dovere di custodia che incombe al soggetto che, a qualsiasi titolo, ha un effettivo e non occasionale potere fisico sulla cosa, in relazione all’obbligo di vigilare in modo da impedire che arrechi danni ai terzi”.

[3]    Responsabilità oggettiva che, a differenza del diritto penale, è ammessa nell’ordinamento civile a fronte dell’evoluzione della moderna società industriale, basata sull’impiego di mezzi di produzione e di vita che costituiscono di per sé fonti di pericolo. Questo ha fatto nascere l’esigenza di fondare il presupposto del risarcimento del danno sulla base di un criterio di responsabilità diverso dal dolo e dalla colpa. Infatti, chi subisce un danno – in certi casi – è giusto che riceva un risarcimento a prescindere dal fatto che gli sia stato cagionato con colpa o con dolo. D’altra parte, chi impiega – sia nelle attività produttive, che nella vita privata – mezzi che costituiscono fonti di pericolo, accetta la possibilità che possa essere cagionato un danno a terzi. In altri termini, chi governa le fonti di pericolo assume il rischio della realizzazione di un evento dannoso. Assunzione del rischio che, di conseguenza, viene mitigata dall’assicurazione per responsabilità civile (che infatti, in alcuni settori è divenuta obbligatoria), di modo tale che sarà l’assicuratore a dover risarcire il danno. Metodo, questo, che serve a ripartire il rischio di dover risarcire il danno cagionato a terzi, per piccole quote (i premi di assicurazione), tra tutti coloro che usano fonti di pericolo.

[4]    Ex multis, Cass. n. 2563/2007; F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, pp. 729-730.

[5]    F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, cit., p. 726. L’Autore precisa che, quindi, il legislatore nei casi di responsabilità oggettiva non ha concesso la facoltà di provare la non colpevolezza di chi si assume il rischio del danno, ma solo la sussistenza di circostanze diverse di carattere oggettivo che finiscono per risolversi nel caso fortuito, purché non si tratti di danno provocato dal comportamento di un terzo. In questo caso, infatti, il caso fortuito è escluso per definizione e la prova contraria o è in radice esclusa dal legislatore (come nell’art. 2049 e nell’art. 2054, comma 3) oppure è difficilmente configurabile (come nella culpa in educando).

[6]    Quindi resta esclusa la detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità.

[7]    In termini sostanzialmente analoghi Cass. n. 2482/2018 e Cass. n. 22832/2017 la quale ha statuito che la custodia deve consistere in una “situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res, tale da rendere attuale e diretto l’anzidetto potere attraverso una signoria di fatto sulla cosa stessa, di cui se ne abbia la disponibilità materiale”.

[8]    F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., p. 222.

[9]    Celebre la sentenza delle S.U. n. 9449/2016, che ha attribuito la responsabilità per i danni da infiltrazione provenienti dal lastrico solare sia al proprietario dello stesso (o dell’usuario), che a carico del condominio; Cass. n. 3695/2016; Cass. n. 25243/2006.

[10]  App. Genova, 17 febbraio 1977, in Giur. merito, 1978, I, p. 20.

[11]  App. Trieste, 12 febbraio 1985, in Dir. maritt., 1986, p. 187.

[12]  Cass. n. 832/2006.

[13]  Cass. n. 11264/1995.

[14]  Si v., Cass. n. 1682/2000. Tuttavia, un’attenta dottrina [TRIMARCHI] ha cercato di meglio precisare l’ambito di applicazione dell’art. 2051. Secondo l’Autore è ovvio che non vi può essere <<fatto della cosa>> ogni qualvolta una cosa abbia costituito un antecedente causale del danno, altrimenti si avrebbe una eccessiva dilatazione della norma in questione. Naturalmente, non può nemmeno ravvisarsi sempre l’azione o l’omissione dell’uomo che ha fabbricato la cosa, che la usa, che l’ha posta ovvero che l’ha lasciata dove si trova, altrimenti l’art. 2051 verrebbe svuotato del suo contenuto. Tale disposizione, invero, deve applicarsi quando la cosa agisca mentre non è azionata dal custode o, se azionata, si sottrae al suo controllo (a causa di un guasto o di cause accidentali) e sprigioni la propria energia distruttiva in un momento, in una direzione e in una misura diverse da quelle che il controllo dell’uomo era idoneo a determinare. Se, invece, la cosa resta sotto il controllo dell’uomo – oltrepassando, però, ciò che l’agente ha voluto e previsto – si applicherà l’art. 2043 c.c. nel caso di attività non pericolosa e l’art. 2050 in caso di attività pericolosa. In altri termini, per aversi applicazione dell’art. 2051 deve esserci una disfunzione della cosa, e non dell’uomo che ne ha la custodia. Quindi, se Tizio lancia un accendino e colpisce Caio in un occhio provocandogli una lesione, Tizio risponderà ai sensi dell’art. 2043. Se invece Tizio tiene in mano l’accendino e questo improvvisamente e inavvertitamente esplode ferendo Caio che si trova a lui vicino, Tizio risponderà ai sensi dell’art. 2051.

[15]  Per tali intendendosi le fonti di pericolo non visibili e non evitabili da parte dell’utente della strada pubblica. Pertanto, nel caso di una buca stradale ben visibile e facilmente evitabile si imputa il danno al fatto della stessa vittima, ritenuta disattenta o imprudente (per ultimo, Cass. n. 17377/2007).

[16]  Cass. n. 15383/2006; Cass. n. 2208/2007.

[17]  Cass. n. 8147/2014; Cass. n. 26997/2005.

[18]  Cass. n. 6407/1987.

[19]  Cass. n. 21684/2005.

[20]  Quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza imputabile quella che, secondo l’id quod plerumque accidit, integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario, che ne costituisce l’antecedente necessario. Sequenza costante che deve essere prevedibile non dal punto di vista soggettivo dell’agente, ma deve essere oggettivizzato sulla base di regole statistiche o scientifiche.

[21]  La Corte di legittimità precisa, quindi, che l’art. 2051 contempla un caso di responsabilità oggettiva, essendo irrilevante la presenza o l’assenza di colpa in capo al custode.

[22]  Cass. n. 2482/2018 (cit.) ha ritenuto che le precipitazioni atmosferiche possono integrare il caso fortuito solo se assumono i caratteri della imprevedibilità oggettiva e della eccezionalità, da accertarsi con dati statistici e scientifici riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia. V. anche, Cass. n. 8229/2010; Cass. n. 4279/2008.

[23]  Ex multis, Cass. n. 22807/2009.

[24]  Ex multis, Cass. n. 12744/2016.

[25]  F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., p. 227. Ma v. anche Cass. n. 2284/2006. Tuttavia, non c’è unanimità di vedute circa la definizione di caso fortuito. Trimarchi ritiene che si tratti di un evento così raro, e straordinario nelle sue conseguenze, da essere estraneo al rischio tipico della cosa.

[26]  V. anche Cass. n. 20317/2005.

[27]  Premesso che il caso fortuito è presente anche in altre disposizioni dell’ordinamento, questo non può non avere lo stesso significato, a meno che non lo si voglia interpretare arbitrariamente a seconda di ciò che più “conviene” dimostrare. Ad esempio, se anche l’art. 1963 c.c. lo intendiamo come caratterizzato da responsabilità oggettiva, si renderà incoerente la disciplina del contratto di trasporto, perché nella suddetta norma (relativa al trasporto di cose) i valori patrimoniali riceveranno una tutela maggiore di quella riconosciuta ai valori personali dall’art. 1681 c.c. Infatti, col riferimento al trasporto di persone, quest’ultima disposizione – chiedendo la prova, in capo al vettore, di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno – prevede un criterio di responsabilità che si disloca nell’area della colpa. Quindi, delle due l’una: o l’art. 1963 (e come questo, anche le altre disposizioni che contemplano il caso fortuito) è basato su una responsabilità colposa, oppure i beni personali godono di una tutela minore dei beni patrimoniali.

[28]  Cass. n. 2482/2018 (cit.).

[29]  La Cassazione, aderendo alla tesi secondo la quale il caso fortuito è idoneo a recidere il nesso causale, precisa che deve essere imprevedibile (inteso come obiettivamente inverosimile) ed eccezionale (inteso come evento che si discosta sensibilmente dalla frequenza statistica accettata come “normale”) – secondo una valutazione oggettiva – e deve avere efficacia determinante dell’evento dannoso.

[30]  Così anche Cass. n. 9009/2015. Tra l’altro, la Cassazione si preoccupa altresì di precisare che, quindi, un dovere di cautela incombe sul danneggiato e segue le logiche (anch’essa) della causalità adeguata. Dovere di cautela che si fonda sull’art. 2 Cost., che impone un dovere di solidarietà che porta ad adottare condotte finalizzate a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi che derivano dalla convivenza civile. Pertanto, il danneggiato ha l’obbligo di regolare la propria condotta in rapporto alle diverse contingenze nelle quali si viene in contatto con la cosa. Naturalmente si tratta di considerazioni che devono essere affrontate dal giudice di merito e, se adeguatamente motivate, sono insuscettibili di impugnazione.

[31]  Cass. n. 2482/2018 (cit.).

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