I limiti al libero convincimento del giudice nel processo civile e penale

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L’art. 2697 c.c. recita testualmente che «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».

Ad un neofita del diritto questa “massima” potrebbe sembrare scontata, tant’è che, nell’ambiente giuridico si sente dire spesso che “per avvocati e giudici esiste solo ciò che può essere provato”.

Ma come funziona nel concreto questa macchina, chiamata processo, volta a dare il via all’operazione di valutazione di ciò che “esiste” (o che si intende dimostrare “esistente”) nel mondo giuridico?

Come fa un soggetto, chiamato giudice, ad accertare l’esistenza o meno di un diritto?

Sono questi gli interrogativi che qui si vogliono dissipare; ma non solo. Al novizio potrebbe anche sfuggire quello che forse la società “comune” non sa sui processi sia civili che penali, e che a volte risulta oscuro, per i più disparati motivi, anche agli stessi praticanti del diritto: la differenza che esiste tra un giudice civile ed un giudice penale.

L’esistenza di un giudice per la materia civile ed uno per la materia penale sembra scontato per la società odierna, sicché si tende ad equipararli in tutto e per tutto, dagli aspetti prettamente esteriori (indossano comunque una toga e siedono in aula in una posizione sopraelevata rispetto alle parti) a quelli funzionali (entrambi pronunciano delle sentenze).

Ciò che non viene preso in considerazione, invece,  è quello che esiste solo nei retroscena inerente ai poteri attribuiti all’uno od all’altro giudice.

Questa è una differenza che si protrae da secoli nella storia giuridica e che trova la sua espressione odierna nella locuzione “libero convincimento del giudice”.

Come si vedrà, il principio del libero convincimento del giudice nasce nella Francia post rivoluzionaria per permettere ai rivoluzionari neo-governatori di spazzare via gli ultimi residui della vecchia nobiltà tanto odiata utilizzando, comunque, mezzi idonei a dare quella parvenza di giustizia che veniva tanto richiesta dalla massa popolare.

Nonostante la campagna anti-nobiliare, infatti, bisogna ricordare che tra i tre principi osannati dai rivoluzionari (égalité, liberté e fraternité) ve n’era uno che imponeva l’eguaglianza di tutti i soggetti (nobili o borghesi che siano) davanti (o sotto) la legge.

Al fine di “agevolare” l’emissione di sentenze di condanne, si decise di dare spazio ad un convincimento del giudice, contrapposto al sistema della prova legale, in quel periodo predominante. Il temperamento del sistema delle prove legali fu accolto in pieno in Francia e, successivamente, nella maggior parte degli ordinamenti giuridici europei.

Ripercorsa l’evoluzione storica del libero convincimento, ci si occuperà di analizzare la situazione attuale inerente i requisiti di ammissione della prova e la valutazione di questa nel processo penale.

Una volta indicati, infatti, quali requisiti debbano appartenere le prove per essere ammesse, si proseguirà con un’analisi accurata dei principali mezzi di prova e, soprattutto, della loro influenza verso il giudice, chiamato alla risoluzione della causa in oggetto.

Più nel dettaglio, a seguito della distinzione che esiste tra prove tipiche e prove atipiche, si procederà con la trattazione, nel seguente ordine, della prova documentale, della testimonianza, della perizia e della prova scientifica.

Una volta descritto il quadro probatorio (o per meglio dire, parte di esso) tipico del processo penale, si provvederà a descrivere lo stesso nel processo civile, evidenziando, nel particolare, quali siano le differenze che caratterizzano i due sistemi processuali e, di conseguenza, i due giudici chiamati ad operare in questi due ambiti diversi.

Si vedrà come il giudice penale sarà più “libero” nella valutazione delle prove richieste dalle parti, a differenza del giudice civile, il quale dovrà, in determinate occasioni, limitarsi ad accertare la validità della prova, trovandosi costretto a valutarla per come la legge gli impone di fare.

A seguito della descrizione dei due sistemi processuali, come accade in una teoria che segue lo schema hegeliano, i due modelli considerati verranno messi in stretto confronto tra loro, analizzando le due disposizioni che, nei rispettivi sistemi, disciplinano il tema della valutazione delle prove: l’art. 192 c.p.p. e l’art. 116 c.p.c.

Individuati i rispettivi poteri dei giudici, si è voluto porre l’attenzione del lettore in un istituto particolare, conosciuto dalla comunità, la cui disciplina risulta essere l’emblema della differenza che intercorre tra i poteri valutativi dei giudici: la confessione. Si concluderà con una breve analisi dell’influenza esercitata dalle prove nei confronti del giudice nelle rispettive sedi, penale e civile.

Per concludere, ci si occuperà di definire, nel dettaglio, quali siano i limiti, dettati dalla legge o dalla logica, a questi poteri valutativi affidati al giudice penale. In particolare, si vedrà come determinati eventi storici (o comunque di notevole conoscibilità) e determinati istituti previsti dalla legge stessa “costringano” il giudice penale all’adozione di determinate conclusioni piuttosto che di altre.

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Attualmente tirocinante ex art. 73 D. L. 69/2013, convertito in L. 98/2013, presso il Tribunale di Pavia, affiancato al Presidente della II Sezione Civile. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Palermo con il massimo dei voti (110/110) con tesi su "I limiti al libero convincimento del giudice nel processo penale e nel processo civile".

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