Dopo quasi ventisette anni di assegni divorzili determinati in base al tenore di vita matrimoniale, con una sentenza destinata a diventare storica, la Cassazione rivoluziona il suo orientamento.
Ecco la motivazione della sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 e un riepilogo dei passaggi fondamentali che hanno portato la Suprema Corte ad individuare nella “autosufficienza economica” il nuovo criterio per la determinazione dell’assegno di divorzio.
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Premessa: gli effetti del divorzio e il diritto all’assegno divorzile
In primo luogo, la Corte ha inteso chiarire gli effetti del divorzio, anche al fine di individuare i presupposti per il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile.
Si tratta di passaggi piuttosto teorici e apparentemente tralasciabili, ma decisivi per la comprensione dell’articolato ragionamento della Cassazione.
Con lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi.
Secondo la Corte, questi ultimi devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191, comma 1, c.c.) sia del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, c.c.).
Fermo restando, ovviamente, in presenza di figli, l’esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi.
Quanto al diritto all’assegno di divorzio[1] , esso è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di «mezzi adeguati» dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso «di procurarseli per ragioni oggettive».
Tale giudizio è distinto in due fasi:
- la fase dell’an debeatur, relativa all’eventuale riconoscimento del diritto a cui segue, solo in caso di esito positivo
- la fase del quantum debeatur, riguardante la determinazione quantitativa dell’assegno.
Tuttavia, il quantum dell’assegno non è determinato “in ragione” del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, bensì “in considerazione” di esso.
Il rapporto, ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, ha infatti caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della vita in comune («la comunione spirituale e materiale») degli ex coniugi.
Ma se fossero assenti le ragioni di solidarietà economica, l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una “locupletazione illegittima“, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della “mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die.
L’interpretazione dei “mezzi adeguati”
Ai fini del riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio all’ex coniuge richiedente è dunque decisiva l’interpretazione del sintagma normativo «mezzi adeguati» e della disposizione “impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive”.
E ciò in modo da individuare l’indispensabile “parametro di riferimento” al quale rapportare l’”adeguatezza-inadeguatezza” dei «mezzi» del richiedente l’assegno alla “possibilità-impossibilità” dello stesso di procurarseli.
Come noto, sino ad oggi la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite[2], ha sempre individuato come parametro di riferimento – al quale rapportare l’adeguatezza-inadeguatezza” dei «mezzi» del richiedente – il “tenore di vita matrimoniale”.
Più in particolare, «un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio».
Ebbene, il Collegio ha ritenuto non più attuale tale orientamento.
Stop al criterio del tenore di vita matrimoniale
Secondo la Corte, il parametro del «tenore di vita» – se applicato anche nella fase dell’an debeatur – collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici.
Infatti, ogni riferimento al rapporto matrimoniale estinto (come nel caso del “tenore di vita matrimoniale”) finisce illegittimamente con il ripristinarlo in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale”.
L’errore secondo la Corte è evidente: il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale.
Inoltre, la “necessaria considerazione”, da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l’eventuale fase del quantum debeatur, e cioè dopo l’esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi con il riconoscimento del diritto all’assegno.
Al contrario, il parametro del «tenore di vita» induce inevitabilmente ma inammissibilmente, una indebita commistione tra le predette due “fasi” del giudizio e tra i relativi accertamenti.
Non solo. Secondo la Corte, il superamento del criterio del “tenore di vita” sarebbe giustificato anche dal cambiamento della tradizione e della morale collettiva.
In passato, anche le Sezioni Unite, avevano fondato la scelta di tale parametro sull’esigenza di non turbare il costume sociale di chi, nonostante la diffusione del divorzio, era ancora radicato all’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, in modo da favorire una rottura con la tradizione meno traumatica possibile.
Al contrario, attualmente, tale esigenza si sarebbe ormai attenuata: sarebbe infatti opinione comune intendere il matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, e in quanto tale dissolubile.
Allo stesso modo, la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, a cui consegue l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto nonchè l’esclusione di ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge.
Con l’utilizzo del parametro del “tenore di vita matrimoniale”, si produrrebbe invece l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale.
E ciò costituirebbe un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo.
Non è dunque configurabile, a parere della Suprema Corte, un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale.
L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è infatti il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica.
Viceversa, il giudizio sulla “adeguatezza dei mezzi” basato sul criterio finora utilizzato, è riferito «alle condizioni del soggetto pagante» anziché «alle necessità del soggetto creditore».
Il nuovo parametro: l’autosufficienza economica
Dopo aver motivato le critiche al parametro del «tenore di vita», la Corte ha pertanto individuato il nuovo parametro nel raggiungimento della ” indipendenza economica” del richiedente.
Di conseguenza, se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Tale parametro avrebbe, innanzitutto, una espressa base normativa.
È infatti tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, c.c.[3] ai sensi del quale «il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico».
La legittimità del richiamo di questo parametro – e della sua applicazione alla fattispecie in esame – sta, innanzitutto, nell’analogia legis[4] tra tale disciplina e quella dell’assegno di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di “adeguatezza dei mezzi”: si tratta infatti in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni economiche regolate nell’ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti.
Il parametro della “indipendenza economica” sarebbe inoltre preferibile per la particolare situazione giuridica, connotata dalla perdita definitiva dello status di coniuge, dalla piena riacquisizione dello status individuale di “persona singola” nonché dalla mancanza di una garanzia costituzionale specifica volta all’assistenza dell’ex coniuge come tale.
In terzo luogo, a ben vedere, anche la ratio dell’art. 337-septies, primo comma, cod. civ è ispirata al principio della “autoresponsabilità economica”, applicabile anche all’istituto del divorzio.
Il divorzio segue infatti normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche.
In questa prospettiva, il parametro della “indipendenza economica” è normativamente equivalente a quello di “autosufficienza economica”.
I criteri per la valutazione della sussistenza dell’autosufficienza economica
Ciò chiarito, quali saranno gli indici per accertare la sussistenza, o no, dell'”indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio?
Questi i criteri individuati dalla Corte di legittimità:
- il possesso di redditi di qualsiasi specie;
- il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza («dimora abituale»: art. 43, secondo comma, cod. civ.) della persona che richiede l’assegno;
- le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;
- la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Regime della prova della non indipendenza economica dell’ex coniuge
Quanto al regime della prova della non “indipendenza economica” dell’ex coniuge che fa valere il diritto all’assegno di divorzio, allo stesso spetta allegare, dedurre e dimostrare di “non avere mezzi adeguati” e di “non poterseli procurare per ragioni oggettive”.
Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali e presuppone tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, fermo restando ovviamente il diritto all’eccezione e alla prova contraria dell’altro.[5]
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali[6], soprattutto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale” formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva.[7]
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[1] Previsto dall’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987.
[2] Cass. SS.UU. nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990 (cfr. ex plurimis, rispettivamente, le sentenze nn. 3341 del 1978 e 4955 del 1989, e nn. 11686 del 2013 e 11870 del 2015).
[3] Ma era già previsto dal primo comma dell’art. 155-quinquies, inserito dall’art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54.
[4] art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale
[5] cfr. art. 4, comma 10, della legge n. 898 del 1970
[6] Salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo -indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria (art. 5, comma 9, della legge n. 898 del 1970).
[7] Fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative