Danno tanatologico: non giova invocare CEDU e Corte di Giustizia per chiederne la risarcibilità

Corte di Cassazione, sez. IV civile, sentenza n. 14940 del 20 luglio 2016

Con la sentenza n. 14940 del 20 luglio 2016, la Corte di Cassazione ha chiarito che, in materia di danno tanatologico, non giova invocare la CEDU e le sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per chiedere la risarcibilità del danno da perdita della vita.

Il danno tanatologico non è risarcibile

In primo luogo, la Corte ha richiamato quanto recentemente affermato dalle Sezioni Unite in materia di danno tanatologico, che cioè non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis nel caso di morte del congiunto immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni.

Si ribadisce infatti che il bene giuridico “vita” costituisce un bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e pertanto insuscettibile di essere reintegrato per equivalente. Di conseguenza, la morte non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte.

E, poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessariamente rapportata ad un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, ma) dall’assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

La nuova questione: il danno tanatologico, la CEDU e la Corte UE

Nel caso in esame, i ricorrenti hanno invocato la “diretta applicazione della giurisprudenza” della Corte europea dei diritti dell’uomo, assumendo che l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte è in contrasto con l’art. 2 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, “Diritto alla vita”, secondo cui “il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge“.

Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che l’art. 2 Cedu è una norma di carattere generale diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, in modo che la stessa possa svolgersi in modo dignitoso e riceva adeguata tutela dagli stati membri. Essa tuttavia non detta specifiche prescrizioni in ordine all’ambito ed ai modi in cui tale tutela debba esplicarsi, e “meno che mai impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria in caso di perdita della vita immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito“.

Invero, lo stesso Stato italiano tutela il bene “vita” in numerosissimi settori, prevedendo anche leggi speciali (in tema ad esempio di danno da emotrasfusioni, di tutela delle vittime del terrorismo, o di altri eventi catastrofali ritenuti di particolare gravità) che impongono, spesso proprio in relazione alla irrisarcibilità del danno secondo il nostro sistema della responsabilità civile, un intervento sostitutivo o solidaristico dello Stato attraverso la previsione di un equo indennizzo che ristori il sacrificio del privato.

Ma, come precisa la Corte di legittimità, si tratta di interventi settoriali che non consentono, proprio per la loro specialità e tassatività, di sovvertire in modo generico il nostro sistema della responsabilità civile, legato ai concetto di perdita-conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non invece all’evento lesivo in sé considerato, o di prevedere obblighi alla riparazione per equivalente di ogni perdita derivante dal reato, anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferita.

Peraltro, la Cassazione ha infine voluto ricordare che i diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea, entrati nel diritto comunitario grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sono vigenti solo nei limiti del diritto materiale del diritto comunitario, e oggi dell’Unione europea. In altre parole, essi “obbligano gli Stati membri (nonché le istituzioni, organi e organismi dell’Unione) solo per quanto riguarda il loro operato nelle materie che rientrano già nell’ambito di tale diritto, come la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi, o le regole sulla concorrenza ecc. Al di fuori di tali materie, per esempio rispetto a certe situazioni esclusivamente interne agli Stati membri (e sulle quali non sussiste una normativa dell’Unione), i diritti fondamentali, compresi quelli contemplati dalla Convenzione europea, restano estranei al diritto dell’Unione e alle competenze di quest’ultima“.

In conclusione, la Corte ha dunque rigettato il ricorso, compensando le spese del giudizio di legittimità.

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