
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3607/2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), è tornata ad affrontare il delicato tema dei limiti del potere di controllo del datore di lavoro, in particolare nella sua espressione più invasiva: quella del ricorso ad agenzie investigative per monitorare la condotta del dipendente.
Il caso in esame riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore accusato di aver utilizzato ripetutamente l’autovettura aziendale per fini privati e in modo difforme dalle prescrizioni aziendali. Tali circostanze erano emerse a seguito di un’indagine privata commissionata dal datore di lavoro a un investigatore professionista. Il dipendente aveva impugnato il recesso, sostenendo l’illiceità del controllo investigativo e l’assenza di proporzionalità della sanzione espulsiva.
La Corte di cassazione, in continuità con il proprio consolidato orientamento, ha ritenuto legittimo il controllo difensivo posto in essere dal datore di lavoro e, di conseguenza, ha confermato la sussistenza della giusta causa di licenziamento. Il pronunciamento si inserisce nel solco delle decisioni che, pur nel rispetto delle garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori e dal diritto alla riservatezza, riconoscono al datore di lavoro il potere di attivare meccanismi di verifica a fini difensivi, purché finalizzati all’accertamento di condotte illecite e non al generico monitoraggio della prestazione.
La vicenda di fatto: il licenziamento e il controllo investigativo
La vicenda trae origine dalla decisione del datore di lavoro di licenziare per giusta causa un dipendente al quale era stato contestato l’utilizzo improprio dell’autovettura aziendale. Dall’istruttoria emergeva che il lavoratore, impiegato con qualifica di tecnico specializzato in un’azienda operante nel settore dell’assistenza elettromedicale, aveva in più occasioni effettuato deviazioni non autorizzate durante l’orario di servizio, utilizzando il veicolo aziendale per recarsi presso la propria abitazione o comunque per fini estranei all’attività lavorativa. Il comportamento era stato documentato da una società investigativa incaricata dall’azienda, la quale, a seguito di sospetti maturati nel tempo, aveva deciso di avvalersi di tale mezzo di controllo per verificare la fondatezza delle proprie perplessità.
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Il lavoro subordinato
Il volume analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni).
L’opera è stata realizzata pensando al direttore del personale, al consulente del lavoro, all’avvocato e al giudice che si trovano all’inizio della loro vita professionale o che si avvicinano alla materia per ragioni professionali provenendo da altri ambiti, ma ha l’ambizione di essere utile anche all’esperto, offrendo una sistematica esposizione dello stato dell’arte in merito alle tante questioni che si incontrano nelle aule del Tribunale del lavoro e nella vita professionale di ogni giorno.
L’opera si colloca nell’ambito di una collana nella quale, oltre all’opera dedicata alla cessazione del rapporto di lavoro (a cura di C. Colosimo), sono già apparsi i volumi che seguono: Il processo del lavoro (a cura di D. Paliaga); Lavoro e crisi d’impresa (di M. Belviso); Il Lavoro pubblico (a cura di A. Boscati); Diritto sindacale (a cura di G. Perone e M.C. Cataudella).
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Università Cattolica di Milano;
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Università di Cagliari;
Maria Giovanna Greco
Università di Parma;
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Università di Brescia;
Marco Novella
Università di Genova;
Fabio Pantano
Università di Parma;
Roberto Pettinelli
Università del Piemonte orientale;
Flavio Vincenzo Ponte
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Fabio Ravelli
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Il datore di lavoro, sulla base del rapporto investigativo, aveva quindi proceduto al licenziamento del lavoratore, il quale, impugnato l’atto espulsivo, si era rivolto all’autorità giudiziaria, contestando – tra le altre cose – l’illegittimità dell’attività investigativa svolta e la violazione dei limiti imposti dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
I precedenti gradi di giudizio: il rigetto della domanda del lavoratore
Sia il Tribunale che la Corte d’appello avevano rigettato le domande del lavoratore. I giudici di merito avevano ritenuto che il controllo effettuato dal datore di lavoro fosse pienamente legittimo, in quanto finalizzato non già alla verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa in senso stretto, ma all’accertamento di condotte potenzialmente illecite, lesive del patrimonio e del rapporto fiduciario tra le parti. In particolare, la Corte territoriale aveva evidenziato che l’attività di controllo non aveva ad oggetto l’osservanza dell’orario di lavoro o la verifica della produttività, bensì l’utilizzo dell’automezzo aziendale per finalità non autorizzate, dunque un comportamento estraneo alla prestazione in sé.
Secondo i giudici d’appello, tali modalità di controllo dovevano essere qualificate come “difensive” e, in quanto tali, non soggette alle restrizioni previste dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal d.lgs. n. 151/2015. La sanzione espulsiva, inoltre, era stata considerata proporzionata alla gravità del comportamento del dipendente, tenuto conto della reiterazione delle condotte, del loro carattere fraudolento e della lesione del vincolo fiduciario che costituisce elemento essenziale del rapporto di lavoro.
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Il giudizio della Corte di cassazione: il controllo difensivo è legittimo se volto ad accertare illeciti
La Corte di cassazione, investita del ricorso del lavoratore, ha confermato le conclusioni dei giudici di merito, richiamando un principio già consolidato nella propria giurisprudenza: i controlli difensivi disposti dal datore di lavoro sono leciti anche se occulti, purché non siano finalizzati alla mera verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa e siano invece diretti ad accertare comportamenti illeciti, potenzialmente lesivi del patrimonio o dell’organizzazione aziendale.
La Corte ha precisato che “non sussiste la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori quando l’indagine non è diretta al controllo dell’esatto adempimento della prestazione, bensì all’accertamento di comportamenti che, se accertati, possono assumere rilievo disciplinare, in quanto lesivi dei beni dell’impresa”. In tal senso, la natura e la finalità del controllo investigativo assumono rilievo decisivo. Se il datore di lavoro dispone un controllo mirato, fondato su elementi oggettivi e su sospetti circostanziati, e se l’attività svolta non si traduce in una sorveglianza generalizzata ma si limita ad accertare specifiche ipotesi di scorrettezza, allora tale controllo può ritenersi legittimo.
Nel caso di specie, il controllo si era limitato a un periodo circoscritto e non risultava in alcun modo invasivo o lesivo della dignità del lavoratore. Le risultanze dell’indagine avevano confermato la fondatezza delle preoccupazioni del datore di lavoro, evidenziando un comportamento sistematico e reiterato da parte del dipendente, in contrasto con le regole aziendali.
La nozione di giusta causa alla luce della condotta accertata
La Corte ha quindi confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa, sottolineando come la condotta del lavoratore avesse determinato una rottura irrimediabile del vincolo fiduciario. In materia di licenziamento disciplinare, è noto che la giusta causa – ai sensi dell’art. 2119 c.c. – si configura ogniqualvolta il comportamento del lavoratore risulti talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Nel caso in esame, l’uso reiterato dell’autovettura aziendale per finalità personali, in violazione delle direttive datoriali e in orario di lavoro, aveva fatto venire meno il presupposto essenziale della fiducia. A nulla rilevava, secondo la Corte, che le deviazioni rispetto ai tragitti autorizzati non fossero eclatanti: ciò che assume rilievo è il fatto che esse fossero consapevolmente poste in essere e reiterate nel tempo.
In tal senso, la Corte ha ribadito che, ai fini della legittimità del licenziamento, non è necessario che il danno arrecato sia economicamente rilevante, ma è sufficiente che la condotta sia tale da compromettere irreversibilmente la fiducia del datore di lavoro. È proprio la lesione di tale elemento fiduciario, infatti, a costituire il fulcro della giusta causa di licenziamento.
Conclusione
La sentenza n. 3607/2025 conferma l’orientamento della Corte di cassazione in materia di controlli difensivi e ne ribadisce la piena legittimità, purché esercitati nel rispetto dei limiti tracciati dalla giurisprudenza. Essa chiarisce, con puntualità, che il controllo investigativo disposto dal datore di lavoro non è soggetto alle cautele dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori quando è finalizzato ad accertare fatti illeciti e non si traduce in una sorveglianza dell’ordinario svolgimento della prestazione.
Il provvedimento costituisce dunque un ulteriore tassello nel progressivo affinamento dell’equilibrio tra il diritto alla riservatezza del lavoratore e l’interesse del datore alla tutela del patrimonio aziendale e al rispetto delle regole interne. In particolare, riafferma con decisione che, in presenza di fondati sospetti, l’azienda può ricorrere a strumenti investigativi mirati per verificare condotte potenzialmente illecite, senza per questo violare la normativa statutaria. La legittimità di tali controlli resta però subordinata a un criterio di stretta proporzionalità: tanto nell’an quanto nel quomodo, la misura deve essere giustificata, circoscritta e coerente con il fine perseguito.
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