Accordo sul compenso dell’avvocato: requisiti formali e invalidità

La determinazione del compenso professionale dell’avvocato è da sempre un tema centrale nel rapporto fiduciario con il cliente, generando spesso contenziosi. La Seconda Sezione Civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 15270/2025, depositata l’8 giugno (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), fa chiarezza sulla forma necessaria per l’accordo sui compensi, ribadendo l’obbligo della forma scritta ad substantiam. L’intervento consolida un orientamento fondamentale per la certezza dei rapporti professionali e per la tutela delle parti.

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Formulario commentato del nuovo processo civile

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Lucilla Nigro
Autrice di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.

 

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Il caso

Dopo l’emissione di un decreto ingiuntivo da parte del Tribunale, un cliente ha proposto opposizione contro l’intimazione al pagamento di € 23.200,00 in favore del proprio avvocato, a titolo di compensi professionali. Il Tribunale ha rigettato l’opposizione, rendendo esecutivo il decreto.

I giudici di merito hanno ritenuto che tra le parti fosse stato raggiunto un accordo sui compensi, non soggetto a forma scritta ai sensi dell’art. 13, comma 3, della legge n. 247/2012. A sostegno di tale tesi, in giudizio sono stati prodotti due documenti, entrambi datati 14 ottobre 2021: uno qualificato come promessa unilaterale di pagamento per € 9.621,00; l’altro come delegazione di pagamento per € 13.579,00.

Contro tale ordinanza il cliente ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi strettamente collegati. Ha denunciato la violazione di numerose disposizioni del codice civile (artt. 2233, 1350, 1418, 2279, 1988, 1269, 1321, 1326), dell’art. 13 della legge n. 247/2012 e dell’art. 1 del d.m. n. 55/2014.

Secondo la ricorrente, i giudici avevano errato nel ritenere che l’accordo sul compenso non necessitasse della forma scritta a pena di nullità. Inoltre, contestava che la promessa unilaterale e la delegazione di pagamento potessero fungere da prova dell’accordo, soprattutto perché quest’ultima era stata successivamente revocata.

A suo avviso, il Tribunale avrebbe dovuto rilevare il venir meno dell’efficacia probatoria della promessa di pagamento (ai sensi dell’art. 1988 c.c.), accertare l’inesistenza del debito e procedere alla liquidazione dei compensi secondo i parametri ministeriali.

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Accoglimento del ricorso e principio di diritto

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo fondati entrambi i motivi. In via preliminare, ha respinto le eccezioni di inammissibilità sollevate dal controricorrente, rilevando che la ricorrente aveva correttamente individuato la ratio decidendi dell’ordinanza impugnata e che le censure erano formulate in modo chiaro e articolato.

La Corte ha ribadito un principio fondamentale: ai sensi dell’art. 2233, ultimo comma, c.c. – nel testo introdotto dal d.l. n. 223/2006, convertito dalla l. n. 248/2006 – l’accordo sul compenso tra avvocato e cliente deve rivestire la forma scritta ad substantiam, a pena di nullità.

Tale previsione, secondo la Cassazione, non è stata abrogata dall’art. 13, comma 2, della l. n. 247/2012, che si limita a stabilire che il compenso debba essere “di regola” pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico. La norma del 2012 ha solo inciso sul quando stipulare l’accordo, ma non ha inciso sull’obbligo della forma scritta a pena di nullità.

L’accordo può quindi formarsi:

  • in un unico documento firmato da entrambe le parti;

  • tramite proposta scritta, seguita da accettazione conforme e anch’essa scritta.

Conseguentemente, trovano applicazione le regole generali in materia di forma scritta ad substantiam. Non sono ammesse prove per testimoni o presunzioni, salvo il caso di perdita incolpevole del documento ex artt. 2725 e 2724 n. 3 c.c.

Gli errori della decisione di merito

Applicando questi principi, la Corte ha ritenuto erroneo il ragionamento dei giudici di merito, che avevano escluso la nullità della convenzione priva di forma scritta e ritenuto sufficiente il contenuto di due scritture private del 14 ottobre 2021 per dimostrare l’accordo.

Tale impostazione, secondo la Cassazione, è viziata su due fronti:

  • da un lato, perché ha ignorato l’obbligo della forma scritta ad substantiam;

  • dall’altro, perché ha utilizzato documenti privi di validità formale senza che fosse stata dedotta o dimostrata la perdita incolpevole dell’accordo originario.

La promessa unilaterale di pagamento

La Corte ha escluso che la promessa unilaterale di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 c.c., potesse costituire una prova idonea dell’accordo sui compensi. Tale promessa, infatti, produce solo un effetto processuale confermativo e non genera, di per sé, un’obbligazione autonoma. Riconosce, semmai, l’esistenza di un debito preesistente, operando una relevatio ab onere probandi. Tuttavia, se il rapporto sottostante – come nel caso di specie – è nullo per mancanza della forma scritta ad substantiam, anche la promessa perde ogni efficacia probatoria. La Cassazione ha dunque ribadito che, in assenza di un accordo valido, la dichiarazione unilaterale di pagamento non può avere valore vincolante e non può essere utilizzata come surrogato del patto mancante.

La delegazione di pagamento

Parimenti, la delegazione di pagamento prodotta in giudizio non può supplire all’assenza di un accordo scritto sul compenso. La Corte ha rilevato che tale delegazione era rivolta non all’avvocato creditore, ma a un terzo soggetto (il custode dei beni), e non costituiva dunque una proposta contrattuale valida da accettare. Inoltre, l’avvenuta revoca della delegazione, prima dell’accettazione da parte dell’obbligato, ha impedito la formazione dell’accordo. Nel caso di contratti soggetti a forma scritta ad substantiam, come quello relativo alla determinazione dei compensi professionali, la proposta e l’accettazione devono entrambe rivestire la forma prescritta, e il contratto si perfeziona solo con la corrispondenza formale delle volontà. Ne consegue che una delegazione priva di tali requisiti non può validamente fondare il diritto al compenso.

Conclusioni

La Corte ha concluso che il ragionamento dei giudici di merito era erroneo nel considerare indicativa di un patto di quota lite la delegazione di pagamento, senza accertare se il creditore fosse parte del rapporto delegatorio o se la delega fosse stata conferita nel solo interesse del delegante, e senza valutare il momento dell’accettazione da parte del delegatario in relazione all’eventuale revoca della delega.  Per queste ragioni, la Corte ha accolto il ricorso, cassato l’ordinanza impugnata e rinviato la causa al Tribunale, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità. Questa decisione riafferma con forza la necessità di una rigorosa applicazione delle norme sulla forma degli accordi professionali, a garanzia della trasparenza e della validità dei patti tra avvocato e cliente.

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