La presupposizione contrattuale: cos’è, requisiti e orientamenti giurisprudenziali

Nella pratica negoziale, accade, talvolta, che le parti condizionino l’efficacia dell’atto negoziale alla presenza di un evento esterno, di natura certa e oggettiva. Pur non recependolo formalmente nel regolamento negoziale, le parti si danno, reciprocamente, atto che l’esistenza dell’evento condizioni la permanenza del contratto. Si dà luogo, pertanto, ad una specie di rapporto sincronico tra l’atto negoziale e la permanenza dell’evento esterno. L’evento esterno, rappresentato da una situazione di fatto o di diritto, è qualificata giuridicamente come presupposizione.

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1995/2025 (puoi consultare il testo integrale dell’ordinanza cliccando qui), è tornata a pronunciarsi sull’istituto della presupposizione. Nel caso scrutinato dalla Suprema Corte, il ricorrente incentrava il suo gravame sulla sua qualità di socio, il cui venir meno avrebbe caducato anche la fideiussione prestata in favore della società.

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La presupposizione

La presupposizione consiste in una situazione di fatto o di diritto, comune a entrambe le parti, ovvero ad una soltanto di esse, ma con riconoscimento da parte dell’altra, non accolta all’interno delle clausole contrattuali elaborate dai contraenti, dal carattere certo ed oggettivo, che assume per i paciscenti valore determinate al fine del mantenimento del vincolo contrattuale, caducandolo ove essa venga meno.

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La situazione di fatto deve consistere in una circostanza esterna al contenuto negoziale del contratto, dalle parti, tuttavia, ben tenuta presente al fine di condizionare l’efficacia dell’accordo alla sua permanenza, pena il recesso dal vincolo contrattuale.

L’evento deve assumere il carattere di certezza, nel senso, cioè, che deve trattarsi di un evento, passato, presente o futuro, che le parti si son ben rappresentante al momento del perfezionamento del contratto.

Qualora si trattasse di un evento incerto, giammai di presupposizione si dovrebbe parlare, bensì di condizione, essendo assodato che quest’ultima, ex art. 1353, c.c., consiste nella volontà dei contraenti di subordinare, esplicitamente, l’efficacia del contratto a un evento futuro il cui accadimento, però, non è certo.

Deve trattarsi, inoltre, di un evento dal carattere oggettivo, il cui accadimento è indipendente dall’attività o dalla volontà delle parti.

L’orientamento giurisprudenziale sulla presupposizione contrattuale

La definizione della Suprema Corte

La nozione giuridica di presupposizione è stata ribadita dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 1995 del 28 gennaio 2025.
Secondo i giudici, la presupposizione consiste in:

“…una determinata situazione di fatto o di diritto, comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo (essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività), e certo, che sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo da assurgere a fondamento, pur in mancanza di un espresso riferimento, dell’esistenza ed efficacia del contratto…”.

I requisiti della presupposizione secondo la giurisprudenza

L’orientamento consolidato conferma che la presupposizione:

  • Deve essere comune a tutti i contraenti;

  • Deve riguardare un evento assunto come certo nella rappresentazione delle parti (differenziandosi così dalla condizione);

  • Deve essere un presupposto oggettivo, indipendente dalla volontà e attività delle parti.

Questo viene confermato anche dalla Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 12235 del 25 maggio 2007.

Il ribadimento del concetto nelle sentenze successive

Ulteriori pronunce, come la Cass., Sez. Un., Sentenza n. 9909 del 20 aprile 2018, hanno affermato che la presupposizione si ha quando:

“…una determinata situazione di fatto comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo […] sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto comune in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto…”.

Anche la Cass., Sez. III, Ord. n. 17615 del 24 agosto 2020, ha confermato che il venir meno della situazione presupposta determina la caducazione del contratto, anche se non espressamente richiamata nelle clausole contrattuali.

Differenze tra presupposizione e condizione

La giurisprudenza chiarisce che la presupposizione non deve essere confusa con la condizione:

  • La condizione, ex art. 1353 c.c., rappresenta un elemento eventuale del contratto e riguarda l’efficacia di una prestazione futura e incerta.

  • La presupposizione, invece, riguarda una circostanza esterna e certa al momento della stipula, non menzionata nelle clausole ma ben presente nella volontà delle parti.

La condizione incide sul contenuto del contratto; la presupposizione riguarda un evento che, se viene meno, comporta la caducazione del vincolo negoziale, senza che questo incida direttamente sull’oggetto o sulla causa del contratto.

La natura autonoma della presupposizione

La presupposizione si configura come un istituto giuridico autonomo, finalizzato a raccogliere fatti e circostanze esterne che:

“…pur senza essere dedotte specificamente quale condizione del contratto, ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di efficacia…”.
(Cass. Civ., Sez. III, Ord. n. 17615/2020)

Se il presupposto viene meno, il contratto non può più essere mantenuto in vita e si considera caducato.

Il rimedio applicabile in caso di venir meno della presupposizione

La problematica dell’individuazione del rimedio

La pronuncia oggetto di commento consente di affrontare, sia pure nei limiti della presente trattazione, il tema del rimedio invocabile quando una delle parti intenda ottenere la caducazione del contratto per il venir meno del fatto esterno assunto a presupposto dell’efficacia del vincolo negoziale.

Nel tempo, diverse soluzioni sono state proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Esclusione della risoluzione per inadempimento

Non può trovare applicazione il rimedio della risoluzione per inadempimento previsto dall’art. 1453 c.c., anche nei contratti a prestazioni corrispettive, di durata o a esecuzione periodica.

La risoluzione per inadempimento presuppone infatti l’omessa esecuzione di una prestazione contrattuale e attiene al contenuto stesso dell’obbligazione. La presupposizione, invece, riguarda una situazione esterna al contenuto negoziale, senza incidere direttamente sull’oggetto dell’obbligazione.

Il profilo della nullità del contratto

Valorizzando la tesi della causa concreta (Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 10490/2006), il venir meno del fatto presupposto può comportare la nullità del contratto per mancanza di un elemento essenziale.

La perdita dell’interesse concreto perseguito dalle parti, quale profilo causale dell’operazione negoziale, può quindi incidere sulla validità stessa del vincolo.

Esclusione della risoluzione per impossibilità sopravvenuta

Neppure il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) è idoneo.

L’impossibilità sopravvenuta riguarda, infatti, la prestazione oggetto del contratto, mentre la presupposizione concerne un elemento estraneo al contenuto del negozio. La caducazione deriva non dall’impossibilità materiale di eseguire una prestazione, ma dall’insussistenza del presupposto esterno che giustificava il mantenimento del vincolo.

Inapplicabilità della risoluzione per risultato utile mancato

Non si può, infine, applicare la risoluzione per mancato raggiungimento del risultato utile, la quale sarebbe invece riferibile a una qualità specifica del bene oggetto della prestazione e rientrerebbe nell’ambito dell’inadempimento inesatto.

La presupposizione si muove su un piano diverso, esterno al contratto stesso.

La differenza tra risoluzione e nullità

La risoluzione tende a riequilibrare il valore economico delle prestazioni nella fase esecutiva del contratto.
La nullità, invece, colpisce un contratto privo di elementi essenziali sin dall’origine.

Nel caso di venir meno della presupposizione, si è più vicini al tema della nullità o allo scioglimento per ragioni di buona fede, piuttosto che alla mera risoluzione.

Il ruolo della buona fede nella risoluzione del vincolo

La presupposizione, in assenza di una disciplina legislativa ad hoc, si ancora ai principi di buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.).

La buona fede può giustificare lo scioglimento del vincolo contrattuale quando la situazione di fatto, assunta dalle parti come condizione esterna, venga meno per cause indipendenti dalla loro volontà.

Applicabilità della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta

Il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) potrebbe trovare applicazione solo se l’evento sopravvenuto incidesse direttamente sulla condizione inespressa tenuta presente dalle parti al momento della stipula.

Se, invece, l’evento incidesse solo sull’interesse individuale del creditore, tale rimedio non sarebbe applicabile (Cass. Civ., Sez. VI, Ord. n. 8867/2015).

Il recesso come soluzione al venir meno della presupposizione

Secondo la pronuncia in commento, il venir meno della presupposizione, pur non attinendo all’oggetto o alla causa del contratto, giustifica l’esercizio del recesso, fondato sulla sopravvenuta impossibilità di mantenere il vincolo negoziale nei termini voluti dalle parti.

La presupposizione, pur essendo esterna al contratto, rappresenta un elemento di equilibrio essenziale per la volontà negoziale.

Conclusioni

Sulla base delle superiori argomentazioni giuridiche possiamo giungere alle seguenti riflessioni.

La presupposizione è, ormai, un istituto giuridico autonomo riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, consistente, pertanto, nella volontà delle parti di subordinare l’efficacia del contratto ad una situazione di fatto o giuridica, esterna al contratto, certa, in quanto comune ad entrambe, ovvero posta nell’interesse d’una soltanto, ma nella piena consapevolezza dell’altra,  il cui verificarsi è estraneo alla volontà delle medesime.

Si tratta di un interesse specifico, cui le parti fanno espresso riferimento nella conclusione del negozio contrattuale, ma che, tuttavia, non è declinato espressamente nelle clausole negoziali, e, pertanto, non entra nell’oggetto del contratto, né penetra la causa concreta di quest’ultimo, rimanendo estrano al perimetro interno contrattuale.

La buona fede, quale canone generale contrattuale, impone alle parti di salvaguardare l’interesse dell’altra, nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio, e ciò anche nella fase di esecuzione del contratto, ex art. 1376, c.c.

Venendo meno il presupposto esterno al contratto, qualora non ricorrano i presupposti per invocare l’applicabilità di altri istituti giuridici volti allo scioglimento negoziale, la prestazione di una parte diverrebbe inutilizzabile, non potendo realizzarsi quell’interesse che esse hanno tenuto in considerazione al momento del perfezionamento del vincolo, abilitando, alla luce del canone generale di buona fede, il recesso dal vincolo contrattuale.

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