Mancata indicazione di prove indispensabili: l’avvocato deve risarcire il cliente salvo che…

Con la sentenza n. 25963 del 23 dicembre 2015, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito che, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato, la mancata indicazione di prove indispensabili per l’accoglimento della domanda costituisce manifestazione di negligenza del difensore, con conseguente obbligo di risarcire il danno all’assistito.

Nel caso di specie, il Tribunale aveva accolto la domanda degli attori riguardo l’accertamento dell’inadempimento dell’avvocato al contratto d’opera professionale, con conseguente risoluzione del contratto stesso e condanna del professionista al risarcimento del danno. Il difensore, nell’ambito di una causa per l’accertamento di un diritto di servitù di acquedotto e passo, era stato ritenuto infatti negligente nell’espletamento del mandato poiché aveva omesso di produrre in giudizio l’estratto tavolare del fondo servente, da cui emergeva l’iscrizione della servitù, e tale omissione aveva avuto rilievo esclusivo nella decisione della causa in senso sfavorevole all’assistito. A seguito di appello, la Corte territoriale accoglieva il gravame limitatamente alla riduzione sul quantum liquidato a titolo di danno. Per la cassazione della sentenza d’appello proponeva ricorso l’avvocato.

Come già accennato, la Suprema Corte ha confermato il principio secondo cui, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato, la mancata indicazione delle prove indispensabili per l’accoglimento della domanda costituisce di per sé manifestazione di negligenza del difensore, salvo che il predetto dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che, nel caso di specie, potevano essergli ragionevolmente richieste.

Rientra infatti nei doveri di diligenza professionale di un avvocato non solo la consapevolezza che la mancata prova degli elementi costitutivi della domanda espone il cliente alla soccombenza, “ma anche che il cliente, normalmente, non è in grado di valutare regole e tempi del processo, né gli elementi che debbano essere sottoposti alla cognizione dei giudice” (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 831.2 del 2010).

A tale principio si è dunque correttamente attenuto il giudice d’appello, il quale, a conferma di quanto già statuito da consolidata giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto che colui che agisce in confessoria servitutis ha l’onere di fornire la prova dell’esistenza del diritto, e che tale onere non viene meno a fronte di ammissioni del convenuto, trattandosi dell’esistenza di un diritto reale, rimanendo salva soltanto la possibilità per il giudice di avvalersi degli elementi che scaturiscono dalle ammissioni del convenuto nella valutazione delle risultanze della prova offerta dall’attore (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 8527 del 1996)

Ebbene, nel caso in esame, l’avvocato convenuto non aveva in effetti svolto tutte le attività che gli potevano essere ragionevolmente richieste, in particolare non avendo prodotto l’iscrizione del titolo nella partita tavolare del fondo servente.

Di conseguenza, la Corte rigettava il ricorso e condannava il difensore ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti.

Leggi la sentenza integrale: Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 25963 del 23 dicembre 2015

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