
Le Sezioni Unite Civili della Cassazione, con la sentenza n. 17876/2025, pubblicata il 2 luglio (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), hanno affrontato una questione rilevante e tutt’altro che infrequente nella prassi processuale: la validità della procura alle liti redatta in lingua straniera, rilasciata all’estero e priva di traduzione in italiano.
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Formulario commentato del nuovo processo civile
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Lucilla Nigro
Autrice di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.
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Lucilla Nigro, 2025, Maggioli Editore
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Il caso concreto: un giudizio di impugnazione con profili internazionali
La vicenda processuale origina da un giudizio di impugnazione proposto avverso una sentenza resa in materia successoria. Nel corso del procedimento, uno dei convenuti si è costituito in giudizio mediante procuratore, producendo una procura speciale alle liti rilasciata all’estero, redatta in lingua inglese, autenticata da notaio straniero e corredata da apostille ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961.
La parte appellante ha eccepito la nullità della procura, deducendo l’invalidità dell’atto per la mancanza della traduzione in lingua italiana e per l’asserita incomprensibilità della certificazione notarile estera. La corte d’appello ha accolto l’eccezione, ritenendo insanabile la nullità per violazione dell’art. 122 c.p.c. e per l’inidoneità della procura a documentare validamente il conferimento del potere di rappresentanza processuale.
In sede di ricorso per cassazione, la Seconda Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria del 22 marzo 2024, n. 7757, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, stante il rilievo sistematico e la divergenza degli approdi giurisprudenziali in materia.
Il contrasto giurisprudenziale: formalismo linguistico e validità degli atti
La giurisprudenza di legittimità aveva, nel tempo, espresso orientamenti non univoci in ordine all’obbligo di traduzione degli atti redatti in lingua straniera e alla sanzione processuale derivante dalla sua omissione.
- Un primo indirizzo – maggiormente formalista – riteneva che l’art. 122 c.p.c. imponesse l’uso esclusivo della lingua italiana per ogni atto destinato a produrre effetti nel processo, compresi quelli prodromici, come la procura alle liti, con conseguente nullità in caso di inadempimento.
- Un opposto orientamento, invece, aveva evidenziato la natura extraprocessuale della procura, valorizzando l’art. 123 c.p.c., che disciplina la possibilità di traduzione su istanza o per iniziativa del giudice, in assenza di un obbligo generalizzato e inderogabile. Tale impostazione, attenta alla finalizzazione dell’atto e alla sua concreta idoneità a rendere conoscibile la volontà del conferente, aveva progressivamente guadagnato consenso, ma senza che il contrasto fosse definitivamente composto.
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La decisione delle Sezioni Unite: atto prodromico e poteri del giudice
Le Sezioni Unite, con un’articolata motivazione, hanno qualificato la procura alle liti quale atto unilaterale di natura sostanziale ma funzionalmente collegato al processo, da ritenersi “estraneo al processo in senso stretto”. Ne consegue, secondo la Corte, che l’art. 122 c.p.c. – il quale prescrive l’uso della lingua italiana “in tutto il processo” – non trova applicazione diretta nei confronti della procura rilasciata all’estero.
La disposizione di riferimento è, piuttosto, l’art. 123 c.p.c., il quale consente al giudice, ove lo ritenga necessario, di ordinare la traduzione degli atti redatti in lingua straniera, anche mediante nomina di un traduttore. Il potere di richiedere la traduzione non può essere inteso come imposizione automatica o condizione di validità dell’atto.
Inoltre, secondo la Corte, in assenza di un’espressa previsione normativa, non è ipotizzabile una nullità processuale, in ossequio al principio di tassatività delle invalidità (art. 156, comma 2, c.p.c.). La comprensibilità dell’atto, accertata anche officiosamente dal giudice, costituisce il solo parametro rilevante ai fini della sua validità. L’eventuale incomprensibilità, inoltre, legittima il giudice a ordinare la traduzione, senza che ciò infici la validità originaria dell’atto.
I principi di diritto enunciati
A conclusione della motivazione, la Corte ha enunciato due principi di diritto di sicura rilevanza:
- «in materia di atti prodromici al processo, quale, nella specie, la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana di quest’ultima e dell’attività certificativa, sia nelle ipotesi di legalizzazione, sia ai sensi della Convenzione di L’Aja del 5 ottobre 1961, sia ai sensi della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, non integra un requisito di validità dell’atto, sicché la sua carenza non dà luogo ad alcuna nullità»;
- «ai sensi degli artt. 122 e 123 cod. proc. civ., la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per gli atti prodromici al processo (quali, in particolare, gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), che, se redatti in lingua straniera, devono pertanto ritenersi prodotti validamente, avendo il giudice la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte».
Tali affermazioni si fondano su un impianto argomentativo coerente con il principio della strumentalità delle forme processuali, con la funzione di garanzia della procura alle liti (art. 83 c.p.c.) e con l’obiettivo di evitare paralisi processuali fondate su pretestuose eccezioni formali.
Conclusioni: una pronuncia di sistema
La sentenza n. 17876/2025 delle Sezioni Unite si colloca nel solco di una giurisprudenza sempre più attenta all’effettività della tutela giurisdizionale, alla proporzionalità delle regole processuali e alla dimensione internazionale delle relazioni giuridiche. La Corte ha chiarito che l’utilizzo della lingua italiana nel processo non può tradursi in un vincolo assoluto e formalistico per gli atti prodromici, soprattutto quando questi provengano da ordinamenti stranieri.
L’intervento delle Sezioni Unite risponde all’esigenza di certezza e semplificazione, tutelando l’equilibrio tra forma e sostanza, tra legalità formale e giustizia sostanziale. Una pronuncia destinata ad incidere in maniera significativa sulla prassi forense, evitando inutili invalidazioni e rafforzando la coerenza del sistema processuale civile.