Trasferimento di partecipazioni societarie e gestione dell’impresa durante il periodo intermedio: dottrina e prassi negoziale a confronto

in Giuricivile, 2019, 5 (ISSN 2532-201X)

La discrasia temporale che spesso sussiste tra il momento del signing e quello del closing, finalizzata ad una corretta gestione dei profili economico-finanziari, societari e lavoristici[1] determinati dall’alienazione delle partecipazioni e dal conseguente cambio di controllo, implica la necessità di regolare con molta attenzione tale periodo intermedio, scongiurando sin da principio l’insorgere di qualsiasi controversia tra le parti.

In tale contesto, infatti, si rileva come gli atti posti in essere da chi ancora esercita concretamente il controllo della target potrebbero, potenzialmente, influire negativamente e, nella peggiore delle ipotesi addirittura compromettere, gli interessi economici del buyer posto che, trattandosi di un trasferimento (rectius di una vendita) avente ad oggetto un bene dinamico quale è l’impresa, il valore delle partecipazioni oggetto del contratto risulterà funzionale nonché direttamente dipendente dai risultati economici e dalla sua corretta gestione, in ogni momento.[2]

A ben vedere, le problematiche gestorie concernenti il cd. interim period (o periodo interinale) implicano la necessaria previsione di clausole ad hoc aventi la specifica finalità di fornire all’acquirente –  ancora sostanzialmente estraneo all’amministrazione della target – una forma di garanzia (sebbene si ritenga erroneo l’utilizzo di tale accezione a causa della possibile sovrapposizione con il tema delle Representation and Warranties) circa la situazione patrimoniale e/o finanziaria della target posto che il venditore, a seguito della sottoscrizione del contratto avrà di sicuro minore interesse ad una gestione oculata della stessa ed in linea con le past practices.

Sulla base delle predette considerazioni si assiste, nella prassi, alla predisposizione di clausole mediante le quali il seller garantisce, durante il corso del periodo interinale, il compimento o l’astensione dal compimento di uno o più atti da parte degli organi societari, in modo tale da prevenire qualsiasi ipotesi di gestione pregiudizievole della società in relazione agli obblighi pattuiti e dedotti in contratto; sulla natura giuridica di tali clausole si riscontrano molteplici opinioni.

Parte della dottrina sostiene che gli accordi aventi ad oggetto l’esercizio dei poteri attribuiti all’assemblea o al consiglio di amministrazione, configurino dei veri e propri patti parasociali stipulati direttamente tra il socio di controllo ed il buyer, prevedendosi, ad esempio, l’obbligo di astenersi dall’adozione di determinate delibere potenzialmente lesive dei diritti dell’acquirente (tra le quali, a titolo esemplificativo, quelle concernenti la distribuzione dei dividendi, la modifica dell’oggetto sociale, l’autorizzazione al compimento di operazioni straordinarie, aumenti o riduzioni del capitale).[3]

Altra dottrina, prendendo le mosse dall’analisi di clausole recanti particolari disposizioni circa le modalità di esercizio del voto in assemblea ed in linea con quanto appena sostenuto, ha ritenuto pienamente valide tali pattuizioni configurandole, in buona sostanza, come convenzioni di voto[4].

In tale scenario, sebbene risulti peculiare la circostanza della partecipazione di un non socio al patto, si rileva come la particolare posizione di interesse e di aspettativa ricoperta dalla parte acquirente valga ad escludere a priori qualsiasi contrasto con l’interesse sociale.[5]

Da ultimo, invece, occorre dare atto di coloro i quali sostengono l’assoluta irrilevanza di clausole specifiche poste a tutela dell’acquirente essendo, a tal proposito, già sufficiente quanto previsto dalle disposizioni codicistiche in tema.[6]

Infatti, secondo quanto previsto rispettivamente dagli Artt. 1375 (Esecuzione di buona fede) e 1477 (Consegna della cosa[7]) cod. civ. il seller avrebbe – in ogni caso – l’obbligo di comportarsi in modo leale e conforme alle aspettative del buyer preservando l’integrità della società, scongiurando fuoriuscite patrimoniali ingiustificate (cd. fenomeni di leakage) e, soprattutto, astenendosi dal compimento di qualsiasi atto contrario a quanto dedotto in contratto.

Tuttavia, l’eccessiva vaghezza del dettato normativo si risolve, sul piano fattuale, in un’assunzione di rischio particolarmente elevata per il buyer posto che gli obblighi previsti in via generale dal diritto dei contratti risultano concretamente inidonei a garantire un’adeguata tutela nelle more di articolate operazioni che implicano il trasferimento di ingenti quantità di capitale all’interno delle quali nulla può essere lasciato al caso.

Esaurito l’esame delle principali posizioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema e, avendo appurato la generale ammissibilità di siffatte clausole, occorre procedere all’analisi di un altro tema ampiamente discusso, ovvero quello concernente le conseguenze derivanti dalla violazione di tali accordi.

A tale proposito, si rileva come parte della dottrina abbia inquadrato le clausole di interim management alla stregua di obbligazioni di mezzi; nello specifico, si è parlato di pattuizioni di “best effort”, concretantesi nell’impegno assunto da parte del venditore di fare tutto quanto in suo potere per realizzare la circostanza promessa ovvero, nel caso di specie, di far sì, nei limiti dell’ordinaria diligenza, che gli organi societari tengano quel determinato contegno, in linea con quanto pattuito in sede contrattuale.

Il venditore, in questo caso, non assumerà alcun obbligo di garanzia nei confronti della controparte, essendo la sua attività limitata a sollecitare gli amministratori o gli altri soci – a seconda delle ipotesi – ad esercitare il proprio diritto di voto in conformità agli obiettivi ed agli interessi dall’acquirente; evidente, pertanto, è il conseguente esonero da responsabilità qualora il venditore dimostri di aver fatto tutto il possibile per assolvere a quanto pattuito.[8]

Altra dottrina[9], invece, muove dall’assunto che vede nelle clausole di amministrazione un’obbligazione di risultato, precisamente un’ipotesi di promessa del fatto del terzo; in tal caso, infatti, il venditore promette il verificarsi di una circostanza avente ad oggetto soggetti terzi ed estranei rispetto alla pattuizione prestando, in definitiva, una garanzia circa l’effettiva realizzazione della stessa.

E’ stato opportunamente rilevato come – accogliendo tale orientamento – l’acquirente potrà, a differenza di quanto precedentemente affermato in relazione alle obbligazioni di mezzi, esercitare un’influenza di notevole rilievo sull’operato del venditore il quale, in assenza di specifici obblighi contrattuali, non avrà particolare interesse a garantire il mantenimento dello status quo durante l’interim period e, dunque, in un momento in cui il socio uscente non ha più ragioni pratiche per sollecitare una crescita della società ma che semmai avrà l’interesse opposto consentendo, ad esempio, la fuoriuscita di beni e/o capitali dalla stessa.

Pertanto, in ipotesi di violazione di quanto dedotto all’interno della clausola di amministrazione, l’acquirente sarà tutelato dall’erogazione di un indennizzo in suo favore, operante a prescindere dalla causa concreta che ha dato luogo alla mancata realizzazione di quanto pattuito.[10]

D’altro canto, si rileva come la corresponsione di un indennizzo possa, nel caso di operazioni di ingenti dimensioni, rappresentare un rimedio inidoneo per la tutela degli interessi economici dell’acquirente il quale, di fronte ad ipotesi di radicale mutamento dello status quo relativo alla target, si troverebbe a sopportare un danno di gran lunga superiore all’effettivo ammontare dell’indennizzo stesso.

Per tali ordini di ragioni, all’interno dei contratti di compravendita di partecipazioni, si ritengono particolarmente utili quelle particolari clausole che elencano e definiscono nello specifico tutti gli impegni e/o le attività che il seller si obbliga a compiere o dalle quali deve astenersi; tali clausole denominate undertakings of the seller presentano l’indubbio vantaggio di individuare in maniera precisa gli obblighi finalizzati alla garanzia di una corretta amministrazione della società, in linea i precedenti esercizi.[11]

 

Da ultimo, si rilevano divergenti opinioni circa le conseguenze derivanti dalla violazione delle clausole di interim management nei riguardi della target; in buona sostanza, trattasi della questione afferente gli effetti sulla società di patti parasociali cui partecipa anche un soggetto che, a tutti gli effetti, non riveste ancora la qualità di socio.

In un simile contesto, avendo già chiarito in precedenza la generale ammissibilità nonché la validità di un patto parasociale tra il socio di controllo ed un non-socio, si esclude espressamente – in questa sede – qualsiasi possibile influenza di detti accordi sugli assetti organizzativi della società principalmente per due ordini di ragioni.

In primo luogo, si fa leva sulla natura meramente obbligatoria ed extra-sociale dei patti, orientamento confermato peraltro a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità[12] la quale ha avuto modo di precisare l’assunto secondo il quale la conseguenza della loro violazione non incide sulla validità degli atti posti in essere, ma comporta soltanto l’obbligo di risarcimento del danno nei confronti degli altri paciscenti.[13]

In secondo luogo, si rileva come la violazione delle clausole di amministrazione non possa in alcun caso condurre ad un giudizio di invalidità della deliberazione assembleare difforme da quanto previsto dall’accordo precedentemente sottoscritto; infatti, si tende ad escludere l’attribuzione ad un terzo – il buyer che, come detto, non è ancora socio – venga attribuito il diritto ad impugnare una delibera assembleare, sebbene sia comunque palese la posizione di interesse che vanta il buyer nel voler preservare l’enterprise value e la struttura organizzativa della società.


[1] Molto spesso tali operazioni di trasferimento di partecipazioni riguardano complessi imprenditoriali di ingenti dimensioni con il conseguente coinvolgimento di tutti i soggetti che svolgono la propria attività lavorativa per conto della target.

[2] Si pensi, ad esempio, all’adozione di delibere assembleari modificative dello statuto sociale o modificative (al rialzo) della remunerazione degli amministratori, dei sindaci, dei dipendenti della società, oppure ancora si consideri il notevole impatto di una decisione autorizzativa di ulteriori investimenti implicanti l’incremento dell’esposizione debitoria della società e il conseguente detrimento della situazione patrimoniale attesa dal compratore.

[3] Sostiene tale orientamento M. RUBINO DE RITIS Trasferimento di pacchetti azionari di controllo: clausole contrattuali e limiti all’autonomia privata in Giurisprudenza Commerciale I/1997 pp. 879 e ss.

[4] Si rileva come, essendo le convenzioni di voto degli accordi tra due o più soci mediante i quali gli stessi si obbligano a votare in assemblea conformemente a quanto stabilito in precedenza, ai fini della validità di simili accordi sarà necessaria la qualifica di socio in capo ad ogni aderente, rendendosi quantomai articolata tale ricostruzione operata da parte della dottrina.

[5] Sul punto si consideri quanto sostenuto da G. OPPO Patti parasociali: ancora una svolta legislativa in Rivista di Diritto Civile II/1998 pp. 221 e ss.

[6] Secondo G. ACERBI., Gli amministratori di società per azioni di fronte al trasferimento del controllo: problemi e proposte di soluzione in Rivista delle Società 1997, pp. 281 e ss. gli amministratori della target, in vista del cambio di controllo, risultano comunque tenuti all’adozione di un comportamento ‘conservativo’ e conforme alle circostanze di fatto, astenendosi dall’assunzione di nuovi impegni o dalla programmazione di nuovi investimenti eccedenti quanto strettamente necessario a garantire la conservazione della situazione patrimoniale attesa dall’acquirente. A ben vedere, il dovere di diligenza imposto agli amministratori per il tramite dell’Art. 2392 cod. civ. sembrerebbe ricomprendere anche la corretta e prudente valutazione del mutamento in atto conseguente all’ingresso nella compagine sociale di un diverso socio di controllo.

In tale contesto si è ampiamente discusso circa la validità delle pattuizioni aventi ad oggetto competenze riservate in via esclusiva agli amministratori o, a seconda del modello prescelto, al consiglio di amministrazione.

A tal proposito, infatti, si rileva come l’imposizione di direttive all’organo amministrativo da parte del socio di controllo non trovi giustificazione in alcuna disposizione, risultando considerevolmente alto il rischio di esercizio di un’indebita ingerenza sull’operato dello stesso. Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario, si propende per una sostanziale legittimità delle pattuizioni in tal senso, non realizzando le stesse alcuna forma di illecita influenza sull’operato degli amministratori, i quali rimangono liberi di effettuare scelte diverse. Ampiamente sul punto cfr. M. SPERANZIN, Vendita della partecipazione di “controllo” e garanzie contrattuali in Il Diritto della Banca e della Borsa, Giuffrè Editore, Milano (2006);

[7] «La cosa deve essere consegnata nello stato in cui si trovava al momento della vendita».

[8] Sul punto M. SPERANZIN in op.cit. pp. 206 – 207; l’Autore, inoltre, sostiene che il venditore, essendo il socio di controllo della target, risulterà il destinatario di un’accurata valutazione circa la sua diligenza, sulla base dell’assunto secondo cui, ai sensi del comma secondo dell’Art. 1176 cod. civ. «Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata».

[9] In particolare G. DE NOVA in op.cit. pp. 23 e ss. sostiene che «Per il diritto italiano, il mezzo a disposizione del buyer è dato dall’Art. 1381 cod. civ. (…). Il seller non promette né si obbliga in proprio ma promette l’obbligazione di un fatto della target; se quel fatto non viene realizzato dalla target, egli è obbligato ad indennizzare l’acquirente».

[10] Sul punto v. Corte di Cassazione Sentenza n. 1137/2003. La S.C., con riferimento alla fattispecie di promessa del fatto del terzo, ha statuito che con essa il promittente assume, in prima istanza, una obbligazione di “facere”, avente ad oggetto l’adoperarsi affinché il terzo adotti il comportamento promesso, finalizzato alla soddisfazione dell’interesse del promissario.

Quest’ultimo assume, inoltre, una seconda obbligazione di “dare”, ovvero di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi.

Di conseguenza, qualora il promittente risulti adempiente rispetto all’ obbligazione di “facere” e, ciononostante, il promissario non ottenga il risultato oggetto della promessa a causa del rifiuto del terzo, il promissario sarà garantito dall’obbligo del promittente di erogare l’indennizzo in suo favore.

Tuttavia, secondo quanto sostenuto da M. SPERANZIN in op.cit. p. 208 «(…) l’alienante potrà legittimamente rifiutare di eseguire (o di far eseguire) quelle operazioni da cui potrebbe subire un pregiudizio per la società in caso di mancato perfezionamento dell’accordo».

[11] Nello specifico, G. DE NOVA in op cit. sostiene che «(…) il venditore deve fare sì che la target non faccia cose che possano peggiorarne la situazione e cioè causare un Material Adverse Effect» secondo quanto concordato durante le negoziazioni.

[12] In particolare, Corte di Cassazione Sentenza n. 14629/2001 in tema di aumento del capitale ha affermato che «il patto cosiddetto parasociale con il quale alcuni soci concordino tra loro condizioni e modalità di sottoscrizione di un aumento del capitale sociale vincola, per definizione, esclusivamente i soci contraenti, e non anche la società che è, rispetto al patto stesso, terza”; sulla validità dei sindacati di voto Corte di Cassazione Sentenza n.14865/2001 che li definisce come “accordi atipici volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il loro esercizio di voto il assemblea».

[13] Sul punto M. CAMPOBASSO, Diritto commerciale vol.II: Il diritto delle società, Edizione IX, UTET (2015) pp. 339 e ss.

Laureato con lode presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre, ha recentemente conseguito un Master di Secondo Livello in Business and Company Law presso la Luiss School of Law. Svolge la pratica forense presso primario studio legale internazionale, occupandosi di temi afferenti al diritto societario, fallimentare e dei mercati finanziari. Collabora, inoltre, con la cattedra di Diritto Commerciale del Prof S. Fortunato presso l'Università Roma Tre.

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