Trattamento di fine rapporto. Genesi ed evoluzione
È possibile rinvenire i prodromi del trattamento di fine rapporto nel disposto dell’articolo 10 del r.d.l. n. 1825/1924 (Disposizioni concernenti il contratto d’impiego privato), in ragione del quale “oltre al preavviso nei termini come sopra stabiliti, o in difetto, oltre all’indennità corrispondente, è in ogni caso dovuta una indennità non inferiore alla metà dell’importo di tante mensualità di stipendio per quanti sono gli anni di servizio prestati”.
Il r.d.l. n. 1825/1924, tra i primi a inaugurare l’ordinamento corporativo, riconobbe l’indennità di licenziamento alle risoluzioni di lavoro nei confronti di tutti gli impiegati, a prescindere dall’anzianità di servizio, tranne che nei casi di dimissioni o di licenziamento per colpa del lavoratore, “poiché la corresponsione dell’indennità era subordinata alla risoluzione contrattuale con diritto al preavviso o alla relativa indennità, quindi il “premio di fedeltà” restava escluso in ipotesi di dimissioni o licenziamento per colpa”.[1]
Con la legiferazione del Codice civile del 1942, di stampo corporativo, l’art. 2120 ridenominò l’indennità di licenziamento in “indennità di anzianità” senza, tuttavia, mutarne la natura giuridica e la funzione. L’unico elemento di novità fu, invero, l’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo agli operai. Pur tuttavia, l’emolumento in commento continuava a non essere riconosciuto nelle seguenti ipotesi: dimissioni volontarie (salvo, in ogni caso, le diverse previsioni delle norme corporative); licenziamento per giusta causa; rapporto di lavoro di durata inferiore all’anno; periodo di prova. In altri termini, l’indennità era corrisposta ai lavoratori, impiegati e operai, licenziati non per giusta causa e che, comunque, non si trovassero nelle condizioni di un rapporto di lavoro inferiore all’anno o in prova. Le dimissioni volontarie non davano, altresì, diritto all’indennità di servizio.
Parte della dottrina, pur pienamente edotta della tesi che individuava nell’istituto de quo la natura premiale, iniziò a sviluppare un diverso orientamento circa la natura retributiva dell’indennità di anzianità.[2]
In ogni caso, al di là del mero profilo qualificatorio, prima della riforma del 1982, l’art. 9 della l. 15.7.1966, n. 604, sviluppando l’istituto dell’indennità di anzianità ancora in embrione, allargò la corresponsione della già menzionata indennità a ogni ipotesi di risoluzione del rapporto, qualunque ne fosse la causa. Inoltre, nel breve volgere del tempo, si susseguirono una pletora di riforme che, gradualmente, ampliarono il riconoscimento della vecchia indennità di servizio, oggi Tfr, a una serqua di lavoratori (dirigenti, domestici, ecc.).
La legge n. 604/1966, nota per aver introdotto nel nostro ordinamento giuslavoristico il giustificato motivo del licenziamento, scardinò la concezione paternalistica del rapporto di lavoro, nel momento in cui ricondusse nell’ambito di applicazione dell’art. 2120 ogni risoluzione del rapporto di lavoro, valorizzandone il carattere di corrispettivo retributivo della prestazione, corrisposto alla cessazione del rapporto per evidenti finalità di tipo lato sensu previdenziale.[3] Un’ulteriore svolta si ebbe grazie ad una pronuncia del giudice delle leggi che dichiarò incostituzionale il primo comma dell’originario art. 2120 del codice civile nella parte in cui prevedeva l’impossibilità di liquidare l’indennità di anzianità nel caso di dimissioni o di licenziamento con colpa ex art. 2119 c.c. .[4]
Nel solco degli anni’70-80, il legislatore diede avvio ad un’intensa attività riformatrice consacrata – nel mentre – da un referendum popolare. Detta attività culminò nel 1982, anno nel quale venne promulgata la legge n. 297 la quale, novellando gli articoli 2120 e 2121 del Codice civile, diede alla luce l’attuale trattamento di fine rapporto, tutt’oggi vigente.[5]
Considerato l’orientamento maggioritario in punto, rimane inteso che il trattamento di fine rapporto deve essere qualificato come un emolumento retributivo con corresponsione differita. [6]
Ad ogni modo, chi scrive condivide anche la tesi di coloro che, seppur sensu lato, scorgono nell’indennità in questione una natura previdenziale.[7]
Il divorzio nella legge n. 898/1970
La norma cardine in tema di scioglimento del matrimonio è l’articolo 149 del Codice civile. Quest’ultimo, ab origine, statuiva che il vincolo coniugale non poteva essere sciolto “che con la morte di uno dei coniugi”. Nella concezione codicistica, il connubio era informato sul principio della indissolubilità dello stesso.[8] La rappresentazione compendiata dal dettato normativo, tuttavia, fu espunta dal nostro ordinamento con la promulgazione dell’ormai nota legge n. 898/1970, introduttiva dell’istituto del divorzio, la quale rese necessario un intervento di riforma dell’art. 149 c.c., avutosi, giustappunto, con l’art. 31 della legge n.151/1975. Ad ogni modo, la dottrina, ancorché superato il concetto di indissolubilità del matrimonio, continua a palesare il carattere di stabilità dello stesso, in ragione del suo vincolo virtualmente perpetuo, e considerato l’impegno dei coniugi ad unirsi per la vita. Altresì, il divieto del matrimonio ad tempus è confortato dalla previsione dell’art. 108 c.c., secondo la quale è fatto divieto di pattuire un matrimonio a tempo o sottoposto a condizione risolutiva.[9]
Tanto sopra premesso, è possibile asserire che il matrimonio può sciogliersi per una delle seguenti condizioni: morte di uno dei coniugi; dichiarazione di morte presunta; sentenza di divorzio; sentenza di rettificazione di attribuzione del sesso.[10]
Il Tfr dopo la rottura definitiva del vincolo coniugale
La legge n. 898/1970, come testé trascritto, ha partorito l’istituto del divorzio. Esso non è stato esente da modifiche, giacché diverse novelle legislative l’hanno riformato. Per quanto d’interesse in questa sede, all’autore preme segnalare l’introduzione dell’art. 12 bis nella citata legge, in virtù del quale: “1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
Stante la formulazione del dettame in disamina, dunque, il coniuge nei confronti del quale viene pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio,[11] se non passato a nuove nozze e percettore dell’assegno divorzile (duplice condizione), ha diritto a percepire un’indennità pari al 40% del Tfr riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Posto che il Tfr, in linea con il d.lgs. n. 252/2005, può essere devoluto ai fini previdenziali in fondi di previdenza complementare, è possibile affermare che l’art. 12 bis della legge n. 898/1970 trova applicazione anche per il caso di specie?
Il riscontro a tale quesito, negativo, è stato reso dal Tribunale di Milano a valle di una oculata interpretazione della norma, secondo cui: “il diritto dell’ex coniuge a una quota del TFR dell’ex congiunto, ai sensi dell’art. 12-bis l. 898/1970, non compete con riguardo a quelle somme che risultino essere destinate a un fondo di previdenza complementare. Infatti, premesso che l’art. 12 bis l.898/1970 riconosce al coniuge divorziato titolare di assegno divorzile la quota del 40% del TFR “percepito” alla cessazione del rapporto di lavoro, è evidente che quanto accantonato su fondo pensione non viene riscosso alla cessazione del rapporto di lavoro. Ciò per il fatto che nel caso in cui il Tfr sia conferito ad un fondo di previdenza complementare, la liquidazione non è riconosciuta alla cessazione del rapporto di lavoro, ma alla maturazione dei requisiti per la pensione. Inoltre, le somme versate non sono riconosciute come liquidazione, ma come pensione integrativa, che viene erogata, nella maggior parte dei casi, in forma di rendita ed in alcuni casi in forma di capitale. In definitiva, tale istituto rientra nella previsione dell’art. 2123 c.c., quale forma di previdenza integrativa, e non nella previsione dell’art. 2120 c.c., al quale si riferisce l’art. 12 bis della legge n.898/1970”.[12]
Pertanto, le somme del Tfr destinate ad un fondo di previdenza complementare, in quanto non riscosse alla cessazione del rapporto di lavoro, ma alla maturazione dei requisiti pensionistici, e attesa la diversa ratio cui assolve il Tfr, ovverosia quella di garantire la pensione integrativa, non rientrano nell’alveo dell’art. 12 bis, giacché quest’ultimo investe il Tfr allorquando lo stesso assurge alla funzione dell’art. 2120 c.c. e non anche a quella dell’art. 2123 c.c.
Chi scrive perora quanto oggetto di esegesi da parte di questo giudice di merito. Le motivazioni risultano assolutamente convincenti. Il decisum è in sintonia con la ratio legis del combinato disposto dell’art. 12 bis della legge n. 898/1970 e dell’art. 2120 c.c. .
La giurisprudenza di legittimità, in riferimento a quanto ci occupa, ha inoltre dissipato qualsivoglia dubbio in ordine al diritto alla quota del Tfr da parte dell’ex coniuge non percettore dell’assegno di cui all’art. 5 della l. n. 898/1970, dacché detto diritto spetta solo nel momento in cui ricorre la duplice condizione enunciata dall’art. 12 bis della summenzionata legge.[13]
Senza pretesa di esaustività, ma solo per fornire al lettore un quadro tanto più completo, è opportuno evidenziare, per ultimo, che, nel caso di dipartita dell’aderente prima della maturazione del diritto pensionistico ad un fondo di previdenza complementare, “l’intera posizione individuale maturata è riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari dallo stesso designati, siano essi persone fisiche o giuridiche”.[14] Siffatto caso, orbene, consente al coniuge di accedere alla percezione del Tfr, benché distratto per fini di previdenza complementare, in ossequio alle norme della successione legittima del libro secondo del codice civile.
[1] R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolter Kluwers, I edizione, 613, cit.
[2] SUPPIEJ, L’art. 36 della Costituzione e l’indennità di anzianità, MGL 1964, 138
[3] Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1998, 495
[4] C. Cost. 27.6.1968, n. 75, DeJure
[5] Art. 2120 c.c (stralcio).: “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rappo crto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.
Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
In caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell’anno per una delle cause di cui all’articolo 2110, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro”.
[6] C. 17.11.1989, n. 4933, FI 1990, I, 498, che riprese C. Cost. 14.7.1988, n. 802, OGL 1988, 1153; DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, DLRI 1982, 451;
[7] VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto, Milano 1984, 43
[8] Grassetti, Dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, II, Padova, 1992, 672
[9] Bonilini, in Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento, 9
[10] Quest’ultima fattispecie è stata introdotta con la l. 14.4.1982, n. 164
[11] La norma fa riferimento alla cessazione degli effetti civili del matrimonio quando quest’ultimo è contratto con rito religioso. Nel caso di specie, la sentenza di divorzio comporta la caducazione degli effetti civili, non anche di quelli religiosi.
[12] Tribunale di Milano sez. IX civ., sentenza del 18 maggio 2017
[13] Cass. Sez. VI Civile, ord. n. 12056/2020
[14] Art. 14 della legge n. 252/2005