Negli ultimi anni si è fatta strada l’esigenza di fare chiarezza sulle varie criticità che possono emergere nel contesto lavorativo, in un’ottica volta a garantire al lavoratore che si trovi a vivere una situazione di disagio gli strumenti più adeguati per la tutela della sua salute psicofisica.
È proprio da questa premessa che prende vita la figura dello “straining”, espressione introdotta nel gergo giuridico grazie al contributo di Harald Ege, dottore specializzato in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, noto in Italia per essere stato il primo, nel 1995, a proporre il termine “mobbing”, fenomeno di cui è riconosciuto come il principale studioso.
Sommario
1. Straining cos’è? Definizione e significato
2. Le differenze tra straining e mobbing
3. Lo straining secondo la Cassazione
4. Considerazioni conclusive
Straining, cos’è? Definizione e significato
L’espressione straining, che deriva dall’inglese “to strain”, ovvero stressare, mettere sotto pressione, sottoporre ad eccessiva tensione, individua una situazione di stress occupazionale, caratterizzata dal verificarsi di almeno un’azione ostile, che la vittima (il lavoratore) subisce dal suo aggressore (lo strainer), i cui effetti negativi sono destinati ad avere durata protratta e costante nel tempo.
Trattasi, in altri termini, di una condizione psicologica che si colloca a metà strada fra il comune stress lavorativo e il più grave fenomeno vessatorio del mobbing, definita dallo stesso Dottor Ege come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo”[1] e che, oltre ad essere stressante, presenta una durata costante.
Affinché si configuri la fattispecie, inoltre, si rende necessario che la vittima si trovi in una posizione di “persistente inferiorità” rispetto all’autore dello straining, il quale pone in essere la propria condotta con intento palesemente discriminatorio.
In Italia, il concetto di straining ha assunto rilevanza giuridica per via giurisprudenziale: la prima pronuncia sull’argomento si deve al Tribunale del Lavoro di Bergamo che, con sentenza n. 286 del 21 aprile 2005, a seguito di consulenza tecnica esperita proprio dal celebre Dott. Ege, ha posto più chiari limiti alla configurabilità della condotta mobbizzante, per individuare nel nuovo fenomeno dello straining una fattispecie più lieve di conflittualità lavorativa, la quale, prescindendo dalla frequenza e ripetitività dei comportamenti vessatori, elemento necessario, invece, affinché possa legittimamente parlarsi di mobbing, si connota comunque per la permanenza, in capo alla vittima, di una condizione psico-fisica di disagio sul luogo di lavoro.
Le differenze tra straining e mobbing
Ege definisce il mobbing come quella “forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti o viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento”[2].
Il mobbing si configura, dunque, come situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone diventano l’oggetto di atti ad alto contenuto persecutorio, perpetrati alla vittima con lo scopo di causarle danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato viene, così, a trovarsi nell’impossibilità di reagire adeguatamente ai crescenti attacchi subiti e, a lungo andare, finisce con l’accusare disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche ad invalidità psicofisica permanente.
Piuttosto evidenti le differenze rispetto allo straining: il mobbing è un fenomeno che non è costituito da una singola condotta, né potrebbe esaurirsi semplicemente in essa, ma che si traduce in un vero e proprio attacco alla vittima, in un conflitto mirato, caratterizzato da un chiaramente percepibile intento persecutorio. Scopo di tale condotta è la “eliminazione” del lavoratore indesiderato, attraverso il compimento di una pluralità di atti, casualmente legati l’uno all’altro, ma posti in un rapporto di evoluzione crescente[3].
Gli elementi che sempre dovranno essere presenti affinché si possa parlare di mobbing, non necessariamente dovendo, invece, ricorrere ai fini della configurabilità dello straining, sono essenzialmente due: frequenza e ripetitività nel tempo delle aggressioni.
In definitiva, dunque, il margine fra le due situazioni di conflittualità lavorativa deve ravvisarsi nella presenza o meno di continuità nella perpetrazione di azioni ostili ostative, caratteristica propria del mobbing e non anche dello straining. Quest’ultimo, infatti, si può ritenere integrato anche a fronte di una singola condotta, purché, però, la stessa presenti effetti duraturi nel tempo (es. demansionamento).
Lo straining secondo la Cassazione (Commento a Cass. civ. [ord.], 29/03/2018, n. 7844)
L’ordinanza in commento ha dato modo alla Suprema Corte di tornare sullo spinoso argomento dello straining, con ciò consolidando gli orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia.
La vicenda processuale trae origine dal ricorso promosso da un lavoratore nei confronti della Cassa di Risparmio di Pisa, Lucca e Livorno S.p.A, deciso dal Tribunale di Livorno che, con sentenza del 23 settembre 2009, accertava il diritto del ricorrente all’inquadramento nella categoria dirigenziale con decorrenza dall’ottobre 2001 ed al relativo trattamento economico, oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva, con conseguente condanna della società alla corresponsione delle differenze retributive. Il Tribunale, inoltre, ritenendo che si fosse verificato un evento lesivo per la salute del ricorrente a causa dei comportamenti tenuti dalla resistente, condannava quest’ultima anche al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
La Corte d’Appello di Firenze riformava la pronuncia di primo grado unicamente rispetto all’ammontare delle somme ivi ritenute.
Proponeva, quindi, ricorso il Banco Popolare – Società Cooperativa, in quanto avente causa della Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno S.p.A., relativamente a due motivi: insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la sussistenza dei danni patrimoniali e non patrimoniali, nonché violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2087, 2697 e 1226 c.c.
La Corte di Cassazione respingeva il ricorso, ritenendo, in particolare, per quanto interessa in questa sede, che la motivazione addotta dalla Corte territoriale fosse “perfettamente in linea con la giurisprudenza di legittimità in tema di “straining”, atteso che i giudici di merito hanno adeguatamente motivato sulla situazione lavorativa conflittuale di stress forzato – accresciuto dall’allontanamento del Mi. dalla direzione generale, nonché dall’invio di lettere di scherno diffuse in banca – in cui il lavoratore avrebbe subito azioni ostili anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing) ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)”.
La Corte precisava, altresì, che il suddetto “stress forzato, secondo la giurisprudenza di legittimità, (cfr. Cass. n. 3291 del 2016 cit.) può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’articolo 2087 cod. civ.”.
Nel caso di specie, infatti, gli Ermellini ritenevano che la Corte territoriale avesse correttamente ravvisato, sulla base delle risultanze istruttorie, che il lavoratore avesse subito un’improvvisa estromissione dalla direzione generale, accompagnata da “un diffuso atteggiamento ostile e di scherno, realizzatosi anche mediante diffusione di lettere nell’agenzia, in assenza di qualsivoglia iniziativa datoriale volta a tutelare il dipendente”.
Sulla base del sopra riportato orientamento giurisprudenziale, pertanto, appare configurabile una situazione di straining anche allorquando la vittima sia costretta a lavorare in un ambiente ostile, laddove il datore di lavoro non prenda alcuna iniziativa a tutela dell’integrità psico-fisica del suo dipendente, in violazione dell’art. 2087 c.c., sussistendo in capo al datore di lavoro medesimo un obbligo, non solo diretto, ma anche indiretto, di tutelare il lavoratore avverso qualsiasi possibile “attacco” esterno al suo benessere lavorativo.
Con la pronuncia in commento, in altri termini, è stato fissato un importante principio, quello secondo cui anche un comportamento omissivo del datore di lavoro, o altro dirigente, che non intervenga a reprimere azioni di cui sia a conoscenza, idonee ad incidere negativamente sulla dignità del lavoratore, ovvero sulla sua serenità sul posto di lavoro, è atto a realizzare una situazione di malessere lavorativo, riconducibile all’interno della nozione di straining.
Considerazioni conclusive
Lo straining rappresenta una figura nuova sotto il profilo giuridico, di cui, allo stato, non è presente traccia nel diritto positivo, se non in alcuni decreti sul pubblico impiego.
Trattasi, infatti, di una fattispecie di creazione essenzialmente giurisprudenziale che, in quanto tale, presenta una nozione dai confini non ancora ben definiti.
Le pronunce giurisprudenziali sul tema, quelle della Cassazione in particolare, fanno luce su un danno ancora oggi sottovalutato, ma sovente presente sui luoghi di lavoro.
Si rende, pertanto, auspicabile un celere intervento normativo in materia, che fissi in via definitiva i lineamenti del fenomeno, rispondendo alla primaria esigenza di certezza giuridica, al fine di garantire un’equa tutela di tutte le parti coinvolte nel rapporto lavorativo[4].
[1] Per approfondimenti vedi H. Ege, “Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro”, ed. Franco Angeli, 2012, p. 70 ss.
[2] H. Ege, “Il fenomeno del mobbing: prevenzione, strategie, soluzioni”, liberamente reperibile online.
[3] Il mobbing, infatti, non si configura come situazione conflittuale stabile, ma si articola in sei fasi, che vanno dalla c.d. “condizione zero”, ovvero lo stadio di conflitto fisiologico normale ed accettato, per pervenire fino alla sesta, che è, appunto, quella dell’esclusione della vittima dal posto di lavoro.
[4] L’assenza di tratti distintivi chiaramente individuabili, infatti, non necessariamente si traduce in una lacuna di tutela per il lavoratore, ben potendo realizzarsi la situazione opposta, ovvero quella dell’eccessiva compressione del diritto di parte datoriale di operare le proprie scelte dirigenziali in libertà ed autonomia.