Spese processuali e minimi tariffari: la giurisprudenza

in Giuricivile, 2018, 2 (ISSN 2532-201X)

Nel corso degli anni sono state numerose le modifiche apportate dal legislatore in tema di spese processuali; gli obiettivi perseguiti sono la valorizzazione del principio di autoresponsabilità delle parti, basato su una valutazione più attenta delle proprie strategie processuali, e la conseguente riduzione dei processi.

La soccombenza ex art 91 cpc

L’art. 91 c.p.c. statuisce che il giudice, con la sentenza con cui si pronuncia definitivamente sul processo svolto dinanzi a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa.

Al riguardo, l’addebito della spese di lite segue il principio della causalità nella genesi della lite, ossia l’onere della spesa grava su chi ha provocato la necessità del processo, sia per un comportamento tenuto fuori dal processo, sia col darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto.

È opportuno precisare che non ha rilievo l’omessa costituzione in giudizio o comunque il non aver svolto attività difensiva, pertanto la soccombenza non si esclude per il solo fatto che la parte convenuta in giudizio abbia scelto di restare contumace[1].

Da ultimo, si specifica che in caso di riforma totale o parziale della sentenza di primo grado, il giudice di appello deve procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali in considerazione dell’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale.

Di conseguenza, viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado perché se la sentenza di primo grado è riformata è necessario liquidare e rideterminare le spese di entrambi i gradi [2].

 La compensazione delle spese ex art 92 cpc

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 13 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132 come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162 il legislatore ha scelto di tipizzare le ipotesi di compensazione delle spese legali.

In particolare, ha previsto che tale compensazione potesse essere applicata sia per l’ipotesi di soccombenza reciproca – essendo imputabili a ciascuna delle parti gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate ovvero per aver avanzato pretese infondate – che in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento giurisprudenziale rispetto alle questioni affrontate nel giudizio.

Scompaiono, quindi, i “giusti motivi” divenuti poi, con la riforma del 2009, “gravi ed eccezionali ragioni” e, oltre al caso della soccombenza reciproca, si consente al giudice la compensazione delle spese di lite esclusivamente in due ipotesi.

Per quanto attiene alla reciproca soccombenza, secondo l’orientamento maggioritario essa sicuramente sussiste in caso di parziale accoglimento dell’unica domanda proposta o di accoglimento di solo alcune delle domande proposte dall’attore.

La Corte di Cassazione [3], difatti, ha chiarito che la soccombenza reciproca, che dà luogo alla compensazione parziale o totale delle spese processuali, presuppone una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate o che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo tra le stesse parti ovvero, nell’ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, quando essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno od alcuni e rigettati gli altri, ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo.

In ossequio al principio di causalità potrà verificarsi, quindi, una condanna dell’attore parzialmente vincitore al pagamento di una parte delle spese di lite, allorché il giudice ritenga che il convenuto, per difendersi dalle pretese infondate abbia dovuto affrontare spese maggiori a quelli necessarie per difendersi dalle sole pretese fondate.

La lite temeraria ex art 96 cpc

L’art. 96, c.p.c., prevede una pena pecuniaria in caso di responsabilità della parte in caso di perpretrato abuso dell’agire o resistere in giudizio:

Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.

Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare [669 duodecies], o trascritta domanda giudiziaria [2652 ss., 2690 ss. c.c.], o iscritta ipoteca giudiziale [2818 c.c.], oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza.

La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.”

La temerarietà della lite si caratterizza

  • dalla consapevolezza dell’infondatezza della domanda – desumibile dal comportamento processuale tenuto dalla parte sia nel processo che in sede extraprocessuale -,
  • dal c.d. abuso del diritto di azione
  • ed, infine, dal difetto di normale prudenza in chi agisca a tutela di un diritto cautelare o esecutivo che il Giudice accerti come inesistente.

È evidente, per evitare di incorrere nei predetti divieti, che l’avvocato incaricato svolga un preminente dovere di informazione. Al riguardo, l’art. 1176 comma 2 c.c., prevede un dovere di dissuasione nei confronti del cliente quando l’Avvocato rileva questioni di fatto e di diritto potenzialmente ostative che condurrebbero ad un probabile esito sfavorevole.

La domanda deve essere proposta all’interno del processo in cui si verifica la condotta de qua, pertanto va proposta al giudice adito a giudicare il merito della causa, e può essere avanzata anche in sede di precisazione delle conclusioni, in quanto non muta il petitum e la causa petendi dell’azione, né incide sul valore della lite. Essa può essere avanzata in tutti i procedimenti che si concludono con una pronuncia sulle spese.

Sia la giurisprudenza di merito che la giurisprudenza di legittimità[4] ritengono che la sanzione economica sia indipendente dalla prova del danno causalmente derivato.  È necessario però che siano presenti i requisiti di malafede o colpa grave[5].

Non si chiede quindi alcuna prova specifica del danno subito da controparte per ottenere la condanna per lite temeraria ma è sufficiente la condotta posta in essere dalla controparte caratterizzata da colpa grave per aver avviato una controversia che non doveva essere instaurata se avesse usato l’ordinaria diligenza e perizia.

Minimi tariffari

Con la recente sentenza n. 29594 dell’11/12/2017 la Suprema Corte, intervenendo sull’argomento, ha limitato notevolmente l’ambito di discrezionalità dei giudici in merito alla liquidazione delle parcelle degli avvocati, riconfermando che il giudice del merito non può liquidare le spese di giudizio in misura inferiore ai minimi disposti dalla tariffa forense.

Già in precedenza, la Corte di legittimità si era pronunciata al riguardo, statuendo che il cliente e il professionista possono concordare un compenso in deroga ai minimi tariffari, ma, in assenza di tale accordo, il giudice delegato deve liquidare il compenso spettante al professionista sulla base della tariffa professionale avendo riguardo al valore della causa determinato secondo le norme del codice di procedura civile, non potendo derogare ai minimi tariffari[6].

A tal riguardo, però, giova ricordare che la stessa Corte di Cassazione [7] ha altresì chiarito che il compenso dell’avvocato si può ridurre anche al di sotto dei minimi tariffari, derogando al succitato criterio del valore della controversia, quando all’opera prestata dal professionista ha fatto seguito un risultato davvero modesto e insoddisfacente per il proprio assistito, il quale non ha conseguito in realtà alcun vantaggio.

Inoltre, la Corte di Cassazione[8] ha statuito che il predetto limite non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, per ragioni di amicizia, parentela o anche semplice convenienza. La retribuzione, infatti, rappresenta un diritto patrimoniale disponibile e per il difensore può essere maggiormente conveniente un percorso diverso, quale ad esempio un accordo transattivo, il quale è consentito con l’unico limite del divieto previsto dal cit. art. 24, ossia la predeterminazione dell’ammontare del compenso in misura inferiore a quanto previsto dai minimi tariffari.

Il difensore può tra l’altro decidere di offrire la propria attività professionale a titolo gratuito, per diversi motivi, che possono ricondursi tra l’altro nell’affectio, nella benevolenza o in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale e indiretto vantaggio[9]; è stata, così, ritenuta legittima la convenzione tra un istituto di patronato e un professionista, che prevedeva l’impegno dell’avvocato a percepire le sole spese liquidate dal giudice in caso di vittoria (Cass. 3 maggio 2005, n. 9111). Tra l’altro, la gratuità dell’opera professionale è stata altresì sancita dall’art.13, comma 1, della L. 31 diicembre 2012, n. 247 il quale statuisce che “L’incarico può essere svolto a titolo gratuito”.

La prestazione dell’opera dell’avvocato può essere, quindi, in tutto o in parte gratuita e, la rinuncia al compenso può essere anche successiva alla prestazione stessa.


[1] Cass. civ., 30 maggio 2016, n. 11179

[2] Cass. 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. 18 marzo 2014, n. 6259; Cass. 30 ottobre 2013, n. 8718; Cass. 14 ottobre 2013, n. 23226; Cass. 30 agosto 2010, n. 18337; Cass. 22 dicembre 2009, n. 26985; Cass. 11 giugno 2008, n. 15483

[3] ex multis Cass. 21684/2013, Cass. 22871/2015

[4] Cass., 30.7.2010, n. 17902

[5] Cass., 30.12.2014, n. 27534; Cass., 18.11.2014, n. 24546; Cass., 11.2.2014, n. 3003; Cass., 30.11.2012, n. 21570

[6] Cassazione, sentenza n.11232 del 10/05/2013

[7] Cassazione, sentenza n. 9619/16 dell’11.05.2016

[8] Cassazione, ordinanza del 20 luglio 2017, n. 17975

[9] Cassazione, sentenza del 17 agosto 2005, n. 16966

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