Sottoscrizione delle clausole vessatorie ex art. 1341, comma 2, c.c.

La specifica sottoscrizione delle clausole unilateralmente predisposte ex art. 1341 comma 2 c.c.: costituisce effettivamente un vincolo?

La questione

Ai sensi dell’art. 1341 comma 2 c.c., “non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”.
Ci si chiede se l’avvenuta sottoscrizione delle suddette clausole comporti, nei confronti della parte che ha apposto la firma, l’impossibilità di far valere i medesimi diritti che con la sottoscrizione sono stati concessi alla controparte, oppure se l’accettazione delle clausole non impedisca, suo malgrado, alla parte stessa di esercitare tali diritti.
Per dirimere la questione, l’unico modo è quello di vedere se i diritti di cui sopra siano realmente irrinunciabili.

Limitazioni di responsabilità

Ai sensi dell’art. 1229 c.c., “è nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave”. Poiché, in base all’art. 1423 c.c., il negozio nullo non è convalidabile, se ne desume che un’eventuale accettazione della clausola la quale esoneri la controparte da qualsivoglia responsabilità per colpa grave, non ha alcun effetto, in quanto simile accettazione contrasterebbe con la nullità prevista dalla legge. Discorso diverso, semmai, si può fare per la “colpa lieve”: la legge non prevede la nullità della clausola di esonero dalla colpa lieve, e quindi la parte appare legittimata ad esonerare la controparte da tale tipologia di colpa. Ma, se la colpa lieve non viene tipizzata nel contratto (e tipizzarla non è comunque agevole), la demarcazione tra colpa grave e colpa lieve non potrà che rimanere affidata al Giudice, perché, se la controparte (Caio) non adempie, la parte (Tizio) che aveva sottoscritto la clausola potrà sempre sostenere essersi trattato di colpa grave anziché di colpa lieve. Di conseguenza, la specifica approvazione della clausola per iscritto, non potrà impedire a Tizio di adire il Giudice al fine di sentir accertata la responsabilità di Caio per colpa grave.

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Facoltà di recedere dal contratto

Il diritto di recesso non è sottoposto dalla legge a limitazioni particolari, a differenza di quel che avviene p. es. per la risoluzione, la quale può essere chiesta solo in presenza di determinati presupposti.
L’art. 1373 c.c. disciplina, al comma 3, il caso in cui sia stato previsto che una delle parti, se vuole recedere, deve eseguire una certa prestazione. Esso prevede che, in tal caso il recesso ha effetto solo quando tale prestazione sarà stata eseguita. Tuttavia aggiunge la stessa norma, al comma 4, che è fatto salvo il patto contrario, e cioè la controparte può permettere alla parte di recedere prima ancora che questa esegua la prestazione prevista a proprio carico.
Ebbene, la clausola con la quale si stabilisce che soltanto la controparte possa recedere (art. 1341 comma 2 c.c.), richiama il “patto contrario” previsto dalla suddetta norma. Tale patto comporta che, nonostante sia stato convenuto l’obbligo di eseguire la prestazione come corrispettivo del recesso, quest’ultimo ha comunque effetto anche se la prestazione non è stata ancora eseguita. Ciò significa che ad una delle parti viene riconosciuto il beneficio di poter recedere senza che venga rispettata la condizione che era stata prevista nel contratto, con la conseguenza che la controparte, la quale comunque – sottoscrivendo il patto – aveva accettato tutto ciò, viene a trovarsi in una situazione di inferiorità, in quanto essa si vede cessare il contratto (a seguito, appunto, dell’immediato recesso) e però non sa se la controparte, dopo essersi sciolta dal vincolo negoziale, eseguirà effettivamente la prestazione. D’altra parte, l’art. 1373 comma 4 c.c. non prevede, a carico della controparte, una “reviviscenza” del vincolo contrattuale nel caso in cui essa, successivamente all’avvenuto recesso, non esegua la prestazione concordata, e ciò sta ad indicare che la facoltà di recedere dal contratto senza aver adempiuto agli obblighi contrattuali non viola nessuna norma imperativa, ragion per cui il “patto contrario” previsto dalla stessa norma è pienamente lecito. Se ne ricava che è lecita anche la clausola la quale attribuisca ad una soltanto delle parti la facoltà di recedere.

Facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto

Questa facoltà si traduce nella possibilità della controparte di non eseguire (temporaneamente, visto che si parla di “sospensione” e non di “interruzione definitiva”) la prestazione a cui essa è tenuta nei confronti della parte.

Tale facoltà viene disciplinata dalla legge come strumento mediante cui la controparte reagisce all’inadempimento della parte: questo strumento si chiama “eccezione d’inadempimento”.
L’art. 1460 c.c. così dispone: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.”
Il diritto della parte (Tizio) di sospendere l’esecuzione del contratto deriva dall’aver riscontrato l’inadempimento della controparte (Caio), e quindi è concepito come strumento cautelativo dal rischio di dover adempiere la propria prestazione senza che la controparte esegua quella che è a proprio carico. Tale strumento è quindi finalizzato a garantire l’equilibrio contrattuale. Tuttavia, questo diritto non può essere esercitato se la pretesa di sospendere l’esecuzione del contratto è contraria a buona fede, ossia se in precedenza era stato Tizio medesimo a non adempiere o comunque ad adottare un comportamento contrattualmente scorretto nei riguardi di Caio. Né il predetto diritto potrà essere esercitato se era stato convenuto (“diversi termini per l’adempimento stabiliti dalle parti”) che la prestazione di Tizio avrebbe dovuto essere eseguita prima di quella di Caio, e cioè se, con un’apposita clausola, era stato stabilito che Tizio non avrebbe comunque potuto in alcun modo sospendere l’esecuzione della prestazione a proprio carico.
Peraltro, diverso sembra essere il discorso nel caso in cui a favore del solo Caio venga stabilita la possibilità di eccepire l’inadempimento di Tizio, e non viceversa: qui la penalizzazione di Tizio consiste non già nel fatto che egli deve adempiere per primo, ma nel fatto che egli è esposto al rischio che Caio gli eccepisca l’inadempimento senza che lui possa fare altrettanto.
Tuttavia, siccome, come abbiamo detto, l’eccezione di inadempimento rappresenta il fondamentale strumento con cui ciascuna delle parti può tutelarsi dal rischio di adempiere senza ricevere la controprestazione, e quindi può assicurarsi che il rapporto contrattuale non sia fonte di danni per la propria sfera giuridica, si deve ritenere che l’avvenuta sottoscrizione della clausola con cui una di esse aveva concesso all’altra la facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, non sia comunque tale da impedire alla medesima di fare altrettanto, ossia di eccepire anch’essa l’inadempimento dell’altra, trattandosi di un istituto posto a presidio dell’equilibrio negoziale.
E ciò sembra doversi sostenere nonostante che l’art. 1462 c.c., il quale prevede l’inefficacia delle clausole di inopponibilità delle eccezioni (vedi paragrafo seguente), non preveda espressamente che l’eccezione di inadempimento sia tra quelle le quali possono essere opposte sempre (al pari delle eccezioni di nullità, annullabilità e rescissione), malgrado la parte vi abbia rinunciato sottoscrivendo una clausola.
Potrebbe comunque accadere che la facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto sia stata concessa alla controparte, mediante sottoscrizione di apposita clausola, non nel senso che solo quest’ultima possa eccepire l’inadempimento, ma nel senso che essa possa, per determinate ragioni, appunto liberarsi momentaneamente dal vincolo negoziale, non eseguendo la prestazione che è a proprio carico. Ora, dipende da come queste “ragioni” sono disciplinate. Se esse vengono legate a mere valutazioni di convenienza economica della controparte, una simile fattispecie equivale a quella disciplinata dall’art. 1355 c.c., a norma del quale “è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”: di conseguenza, una simile clausola sarebbe destinata ad essere considerata come “nulla”, nonostante sia stata approvata per iscritto dalla parte. Se, invece, esse sono legate all’eventuale sopravvenienza, a carico della controparte, di situazioni che potrebbero rendere notevolmente onerosa la prestazione a suo carico, allora la concessione, ad opera della parte, della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, potrebbe essere considerata una scelta lecita, in quanto in casi simili ciascuna delle parti ha il diritto di richiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c.: in quest’ottica, la concessione della predetta facoltà sarebbe, anzi, un modo per evitare la cessazione anticipata del contratto, in quanto la parte, attraverso di essa, confida nel fatto che la controparte, dopo aver sospeso la prestazione, possa recuperare la possibilità di adempiere e che quindi il rapporto possa proseguire.
In quest’ottica, quindi, la concessione della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto è uno strumento per “salvare”, almeno temporaneamente, il rapporto.

Limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni

L’art. 1341 comma 2 c.c. ammette il patto con cui la parte rinuncia ad opporre eccezioni all’altra.

Essa, tuttavia, non distingue a seconda delle eccezioni, e quindi sembra prevedere un principio generale.
Tuttavia, vi è una norma, contenuta nell’art. 1462 c.c., il cui testo di seguito si riporta, in base alla quale la parte non può rinunciare all’opponibilità di alcune eccezioni, nonostante che tale rinuncia sia stata formalizzata all’atto della stipula a mezzo sottoscrizione di apposita clausola: “la clausola con cui si stabilisce che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta, non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto”. Tale norma, poiché prevede l’inefficacia di siffatta clausola, sembrerebbe assumere un valore imperativo, e, come tale, non appare suscettibile di deroga ad opera delle parti, neanche mediante apposite clausole.
E’ opportuno esaminare i vari casi.
Il divieto di rinunciare all’opponibilità dell’eccezione di nullità appare coerente con il principio, sancito dall’art. 1423 c.c., in base al quale il negozio nullo non è convalidabile, salvo che la legge disponga diversamente. La parte, accettando di non poter opporre l’eccezione di nullità, sostanzialmente si obbliga a convalidare il relativo vizio, ma una convalida del genere deve ritenersi ammessa solo nei casi in cui sia la stessa legge a prevederla. In questo caso, invece, la convalida è rappresentata dalla sottoscrizione di una clausola, ossia da un atto di autonomia negoziale, e non da una previsione di legge.
Sul punto si potrebbe obiettare che è comunque la “legge”, ossia l’art. 1341 comma 2 c.c., ad attribuire alle parti il potere di limitare l’opponibilità della eccezione di nullità, e che quindi in tal caso è la stessa “legge” a permettere alla parte di convalidare sostanzialmente, mediante l’accettazione della clausola, il vizio di nullità, ragion per cui il disposto dell’art. 1423 c.c. (e cioè “salvo che la legge disponga diversamente”) dovrebbe dirsi pienamente rispettato.
Tuttavia, sembra di poter ritenere che l’art. 1462 c.c., prevedendo l’inefficacia della clausola che limita la possibilità di opporre tale eccezione, costituisca una “norma di chiusura”, e che, pertanto, l’art. 1341 comma 2 c.c. debba essere modificato nel senso di prevedere che la clausola limitativa dell’opponibilità delle eccezioni non possa avere in nessun caso ad oggetto l’eccezione di nullità.
Per quanto riguarda l’eccezione di annullabilità, l’art. 1341 comma 2 c.c. ammette che una delle parti possa impegnarsi, sottoscrivendo apposita clausola, a non farla valere. L’art. 1444 c.c. prevede che la parte, la quale sarebbe legittimata a chiedere l’annullamento del contratto, può rinunciare a far valere tale vizio, convalidando il medesimo e quindi accettando di proseguire il rapporto.
Ebbene, stabilire che la parte non potrà “mai” opporre l’annullabilità significa che la stessa deve considerarsi “sostanzialmente obbligata alla convalida”, anche laddove il vizio sia rilevante e quindi dannoso per la sua sfera giuridica, quando invece la decisione di convalidare un negozio dipende necessariamente da una scelta discrezionale, che va compiuta volta per volta in base all’interesse che la parte ha alla prosecuzione o meno del rapporto.
Pertanto, l’art. 1341 comma 2 c.c. dovrebbe essere modificato nel senso di prevedere che la clausola con la quale si prevede che una delle parti non possa opporre all’altra l’annullabilità del contratto, ha effetto soltanto se essa, al verificarsi del motivo di annullamento, decide di convalidare il contratto: altrimenti si tratta di una clausola che obbliga la parte ad una convalida preventiva del vizio di annullabilità, convalida che, invece, anche per definizione, non può che essere successiva al verificarsi del vizio che ne è oggetto.
Di conseguenza, l’art. 1462 c.c., quando sancisce l’inefficacia della clausola con la quale una delle parti ha accettato di non poter opporre all’altra l’eccezione di annullabilità, lo fa proprio in nome della facoltà di convalida di cui all’art. 1444 c.c. .
Inoltre, che una modifica dell’art. 1341 comma 2 c.c. nel senso sopra precisato sia quanto mai auspicabile, si desume anche dall’art. 1442 c.c., a norma del quale l’annullabilità può essere opposta in via di eccezione anche quando è prescritta l’azione per farla valere. Tizio avrebbe potuto chiedere l’annullamento del contratto; tuttavia è decorso il termine di prescrizione dell’azione, e quindi egli non può più proporre tale domanda; però, se Caio chiede a Tizio di adempiere, Tizio può comunque eccepire che il contratto era annullabile.
Ebbene, il fatto che una delle parti possa opporre l’eccezione di annullabilità del contratto anche dopo che sia prescritto il termine per proporre la domanda, dimostra che la sottoscrizione di una specifica clausola con la quale la parte si impegna a non opporre l’annullabilità, non impedisce, suo malgrado, alla parte stessa di farla sempre valere. Infatti, la suddetta eccezione, se può essere opposta anche quando è decorso il termine stabilito dalla legge, potrà essere a maggior ragione opposta anche laddove la parte, mediante la sottoscrizione della clausola, abbia accettato di non opporla: l’eccezione, se è opponibile pure quando la parte non abbia proposto l’azione e quindi non abbia manifestato l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., interesse in mancanza del quale in teoria nessuna tutela giudiziale dovrebbe poter essere ammessa (neanche in via di eccezione), sarà opponibile anche quando la parte, mediante la firma della clausola, abbia dimostrato di non avere, per l’appunto, il suddetto interesse.
Per quanto riguarda l’eccezione di rescissione del contratto, l’art. 1451 c.c. stabilisce che il negozio rescindibile non è convalidabile. Il divieto di convalida previsto per legge induce a ritenere che la parte non possa, mediante sottoscrizione di apposita clausola ex art. 1341 comma 2 c.c., rinunciare preventivamente ad opporre la suddetta eccezione, poiché ciò vorrebbe dire accettare fin dall’inizio di dover convalidare il contratto, convalida che tuttavia è espressamente vietata. Di conseguenza, l’art. 1462 c.c., quando sancisce l’inefficacia della clausola con la quale una delle parti ha accettato di non poter opporre all’altra l’eccezione di rescissione, lo fa proprio in nome del divieto sopra citato.
Tuttavia, occorre anche rilevare che, ai sensi dell’art. 1449 c.c., l’eccezione di rescissione non può essere opposta quando sia prescritta l’azione per farla valere. A differenza di quanto previsto per l’eccezione di annullamento, la quale può essere opposta anche quando l’azione si sia prescritta, e ciò – abbiamo visto – è uno dei motivi per i quali si deve ritenere che sia illecita una clausola con la quale la parte abbia rinunciato ad opporre tale eccezione, l’eccezione di rescissione può essere sollevata solo fin quando non si sia prescritta la relativa azione.
Da ciò si potrebbe desumere che, a differenza dell’eccezione di annullabilità, la parte possa lecitamente rinunciare, mediante la clausola, a sollevare l’eccezione di rescissione.
L’art. 1462 c.c. non prevede espressamente l’inefficacia delle clausole con le quali una delle parti rinuncia ad altre eccezioni che non siano nullità, annullabilità e rescissione: segno che quindi queste altre eccezioni sono rinunciabili e che pertanto è valida la clausola ex art. 1341 comma 2 c.c. con la quale una delle parti rinunci appunto a sollevarle.
Una di queste è, p. es., l’eccezione di compensazione.
Ai sensi dell’art. 1246 n. 4) c.c., è ammessa la rinuncia preventiva alla compensazione: Tizio e Caio hanno sottoscritto un contratto di locazione in cui il primo è il locatore ed il secondo è il conduttore; Tizio deve ancora ricevere da Caio il pagamento di alcuni canoni. Tizio e Caio, adesso, stipulano un contratto di compravendita, nel quale Tizio (venditore) si impegna fin d’ora a trasferire a Caio la proprietà del bene anche se deve ancora avere da Caio il pagamento dei canoni di locazione, e quindi anche se, avvalendosi dell’eccezione di compensazione, potrebbe rifiutare di eseguire il trasferimento fino a quando non gli vengano corrisposti i suddetti canoni.
Tale assunzione di impegno costituisce, pertanto, una rinuncia ad eccepire la compensazione.
Tuttavia, va considerato quanto segue.
Tizio, rinunciando preventivamente ad eccepire a Caio il controcredito derivante dal mancato pagamento dei canoni, accetta di adempiere pur essendo a sua volta creditore di Caio stesso, con la conseguenza che quest’ultimo si trova a beneficiare della prestazione senza adempiere ancora a quella a proprio carico, e tra l’altro non è neanche certo che adempirà. Tizio, quindi, poiché sceglie di rimanere debitore pur avendo diritto ad ottenere un qualcosa dal creditore, si viene a trovare in una situazione di squilibrio negoziale.
Tale squilibrio richiama quello che, ai sensi dell’art. 1448 c.c., costituisce solitamente il presupposto per chiedere la rescissione del contratto.
Pertanto, esso, da un lato è ammesso dall’ordinamento sotto forma di ammissibilità della rinuncia all’eccezione di compensazione, ma, dall’altro, legittima la parte (in tal caso, il debitore) a domandare la rescissione del contratto, vizio di rescissione che – si badi bene – non può essere oggetto di convalida ad opera della parte stessa (art. 1451 c.c.).
Quindi, anche se l’art. 1462 c.c. non menziona espressamente come inefficace la clausola con la quale una delle parti rinuncia all’eccezione di compensazione, permangono i dubbi in merito alla liceità della rinuncia all’eccezione di compensazione, prevista dall’art. 1246 n. 4 c.c., in quanto tale rinuncia determina inevitabilmente, nei riguardi del debitore, una condizione di squilibrio negoziale, che dall’ordinamento viene invece qualificata come presupposto per chiedere la rescissione del contratto (art. 1448 c.c.)., laddove il vizio di rescissione non è convalidabile (art. 1451 c.c.).
Di conseguenza, permangono forti dubbi riguardo la liceità della rinuncia preventiva di cui all’art. 1246 n. 4 c.c., e, di conseguenza, anche sulla liceità della clausola ex art. 1341 comma 2 c.c. con la quale la parte dichiari di rinunciare ad eccepire la compensazione.

Altra clausola limitativa dell’opponibilità delle eccezioni, che non è espressamente prevista dall’art. 1462 c.c. come inefficace, è quella relativa all’eccezione di prescrizione.
Tizio chiede a Caio di adempiere, ma quest’ultimo eccepisce che il credito di Tizio è prescritto.
Se venisse ritenuta lecita una clausola con cui Caio, ex art. 1341 comma 2 c.c., rinuncia preventivamente ad opporre la prescrizione, simile rinuncia entrerebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 2937 comma 2 c.c., a norma del quale si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta”.
Caio può anche rinunciare a far valere la prescrizione del credito di Tizio, ma può farlo solo quando la prescrizione si sarà verificata, ossia quando il termine per l’esazione del credito sarà venuto a scadere; non potrà farlo preventivamente, ossia sottoscrivendo una clausola del contratto.
Al riguardo, tuttavia, si potrebbe rilevare quanto segue.
Ai sensi dell’art. 2938 c.c., “il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta”.
Se la prescrizione fosse rilevabile di ufficio, si potrebbe ritenere che essa rappresenti, per la parte alla quale viene chiesto di adempiere, un diritto talmente rilevante da non poter essere oggetto di un’eventuale rinuncia ad opera della parte stessa, nonostante che questa abbia sottoscritto una clausola in tal senso.
Invece, essa non può essere rilevata di ufficio, segno che deve essere esclusivamente la parte a dimostrare di avere interesse a farla valere. Di conseguenza, potrebbe anche essere considerata lecita ex art. 1341 comma 2 c.c. una clausola con cui la parte rinuncia a far valere la prescrizione, in quanto il mancato interesse alla stessa, proprio perchè non può essere colmato neanche dall’accertamento del Giudice, ben potrà essere oggetto di una specifica pattuizione negoziale nell’ambito di quella che è l’autonomia contrattuale.
Tuttavia, una simile clausola avrebbe serie implicazioni, sulla cui portata sarebbe opportuno riflettere.
Caio, se rinunciasse preventivamente ad eccepire a Tizio la prescrizione (eventuale) del credito di quest’ultimo, lo legittimerebbe a chiedere la prestazione anche dopo che siano scaduti i termini di legge, e quindi lo autorizzerebbe a disinteressarsi dell’esazione del credito prima di tale scadenza.
Ebbene, questa rinuncia preventiva non è ammessa, perché il creditore ha l’obbligo di curare diligentemente i propri interessi contrattuali, dovendo dimostrare di avere un interesse effettivo a ricevere la prestazione, astenendosi quindi dall’adottare un comportamento inerte al riguardo.
Tale obbligo ha un duplice significato: da un lato, quello di responsabilizzare il creditore stesso a perseguire concretamente – ossia entro il termine di prescrizione – lo scopo per il quale egli si era determinato a contrarre, e quindi quello di indurlo a tutelare in maniera effettiva, e non superficiale, la propria sfera giuridica; dall’altro, quello di non costringere il debitore a rimanere soggetto all’obbligazione anche dopo che sia scaduto il termine previsto per l’adempimento, in quanto ciò determinerebbe nei riguardi del medesimo un vincolo negoziale a tempo indeterminato e quindi gli impedirebbe di poter destinare le proprie risorse economiche alla conclusione di altri rapporti contrattuali, magari per lui anche più proficui, con grave danno per la sua sfera giuridica.
Del resto, se il debitore potesse rinunciare alla prescrizione preventivamente, ossia già all’atto della stipula del contratto, allora non avrebbe ragione di esistere l’istituto della “mora credendi”, ossia, appunto, del ritardo nel richiedere la prestazione, il quale comporta il prodursi, nei confronti del creditore, di una serie di limitazioni all’esercizio dei propri diritti (art. 1206 c.c.).
Da quanto sopra risulta che l’esigenza di tutelare il debitore dal rischio di rimanere sottoposto a tempo indeterminato alla richiesta di prestazione da parte del creditore, nonché quella di salvaguardare la libertà del debitore stesso di contrarre con terzi, esigenze che vengono soddisfatte dalla legge mediante il divieto di rinuncia alla prescrizione, rivestono un’importanza primaria.

Restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi

Ai sensi dell’art. 1341 comma 2 c.c., una delle parti può sottoscrivere una clausola con la quale si impegna a non contrarre con terzi.
La suddetta clausola viene normalmente predisposta quando la controparte vanta un diritto di esclusiva in merito a quella che è la prestazione della parte.
Nel contratto di somministrazione, ai sensi dell’art. 1567 c.c., “se nel contratto è pattuita la clausola di esclusiva a favore del somministrante, l’altra parte non può ricevere da terzi prestazioni della stessa natura”.
La norma non fa salvo alcun “patto contrario”, ossia non è previsto che il somministrante accetti il principio secondo cui l’avente diritto alla somministrazione può ricevere prestazioni anche da terzi.
Nel contratto di agenzia, ai sensi dell’art. 1743 c.c., “il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro”.
Anche in tal caso, non è espressamente previsto un “patto contrario”.
Pertanto, in linea di principio, non sembra potersi dubitare della liceità della clausola ex art. 1341 comma 2 c.c., con cui una delle parti (in tal caso, appunto, l’avente diritto alla somministrazione) si impegna a non contrarre con terzi.
L’attribuzione del diritto di esclusiva – e quindi l’assunzione dell’impegno a non contrarre con terzi – si fonda sull’esigenza di dare alla controparte la possibilità di conseguire integralmente ed effettivamente l’utilità per la quale quest’ultima si è determinata a contrarre, e quindi di tutelare il proprio interesse contrattuale.
Bisogna vedere se questa limitazione alla libertà di contrarre con terzi possa valere anche per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, ossia per quelli in cui la medesima prestazione consiste in una pluralità di adempimenti ripetuti nel tempo.
Ai sensi dell’art. 1329 c.c., “il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, e non e’ valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti”. Il divieto di alienare rappresenta la forma classica della limitazione alla libertà di contrarre con terzi. Ebbene, esso è lecito solo se temporalmente limitato. Pertanto si sarebbe indotti a pensare che la clausola ex art. 1341 comma 2 c.c., con la quale la parte (Tizio) si obbliga a non negoziare con terzi, sia lecita solo se non si traduce in un divieto temporalmente considerevole: è legittimo che, in un contratto di durata, la controparte (Caio) debba poter conseguire il corrispettivo convenuto per l’intera durata contrattuale, ma è legittimo anche che la parte (Tizio) non debba restare obbligata per lungo tempo a non avere alcun rapporto con soggetti terzi.
Quindi, tutto sembra dipendere dalla durata del contratto.
Un criterio potrebbe essere questo: la prima volta che Caio non adempie alla sua controprestazione, Tizio non soltanto è libero di sollevare l’eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c., ma riacquista la libertà di contrarre con terzi, rendendo pertanto inefficace la clausola con la quale egli si era impegnato a non negoziare con questi ultimi.  Se, invece, Caio ha sempre adempiuto regolarmente, a quel punto Tizio sembra essere destinato a non poter contrarre con terzi, salvo il caso in cui lo stipulare contratti con questi sia compatibile con gli obblighi assunti verso Caio, e cioè nel caso in cui tale stipula non pregiudichi le sue condizioni patrimoniali in una maniera tale da mettere a rischio l’esecuzione della prestazione verso Caio.
Ma si tratta di vicende che è difficile prevedere al momento della sottoscrizione della clausola ex art. 1341 comma 2 c.c. . Pertanto, ritenere che la parte possa vincolarsi fin dall’inizio a non sottoscrivere alcun contratto con terzi, vuol dire negarle la possibilità di compiere atti ampliativi della propria sfera giuridica, e quindi compromettere quell’autonomia negoziale che eppur costituisce il principio generale in materia di rapporti intersoggettivi.
Al riguardo, non sembra fuori luogo citare l’art. 1567 seconda parte c.c., il quale, in merito al contratto di somministrazione, che è probabilmente “il” contratto ad esecuzione continuata per eccellenza, prevede che l’avente diritto non possa provvedere con mezzi propri alla produzione delle cose che formano oggetto del contratto, “salvo patto contrario”. La ratio della norma è quella di conferire al somministrante una sorta di “diritto di esclusiva”, perché, altrimenti, egli – che è obbligato alla prestazione continuativa – non potrebbe più conseguire il corrispettivo e quindi vedrebbe cessato il proprio interesse alla prosecuzione del rapporto.
La norma, tuttavia, fa salvo il “patto contrario”, ossia l’avente diritto a somministrazione può pretendere che il somministrante accetti il principio secondo cui l’avente stesso provveda da solo alle prestazioni di cui ha bisogno, e quindi egli, in tal modo, sostanzialmente rinuncia al diritto di esclusiva, pur concesso per legge. Ebbene, questa è la dimostrazione di come, anche in un contratto ad esecuzione continuata o periodica, la parte mantenga comunque il diritto di provvedere autonomamente, e quindi, in teoria, anche stipulando rapporti con soggetti terzi, nonostante che la legge riconosca in linea di principio alla controparte un diritto di esclusiva.

Tacita proroga o rinnovazione del contratto

Ai sensi dell’art. 1341 comma 2 c.c., una delle parti può sottoscrivere una clausola con la quale accetta la tacita proroga del contratto nel caso in cui, prima della scadenza, non manifesti la volontà di interrompere ogni rapporto con la controparte.
Per quanto riguarda la tacita rinnovazione, con essa si intende il preventivo assenso alla costituzione di un “nuovo” rapporto contrattuale tra le parti, altrimenti si confonderebbe con la “proroga”. Pertanto, con la “rinnovazione”, le parti pongono fine al rapporto originario e danno vita ad un nuovo negozio, il quale comunque corrisponde alla stessa tipologia di quello precedente.
L’accettazione di una simile clausola appare lecita in quanto la parte aveva, appunto, la possibilità di negare espressamente il proprio consenso alla prosecuzione del rapporto, e tuttavia non ha sfruttato tale strumento. La negazione di tale consenso avrebbe potuto essere giustificata da un comportamento contrattualmente scorretto della controparte, ma se la parte non ha ritenuto opportuno comunicare in modo espresso la volontà di non rinnovare il rapporto, non sembrano esservi dubbi sulla liceità della clausola con la quale essa aveva accettato la tacita proroga o rinnovazione del contratto.

Clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria

Ai sensi dell’art. 808 c.p.c., “le parti, nel contratto che stipulano o in un atto separato, possono stabilire che le controversie nascenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri, purché si tratti di controversie che possono formare oggetto di convenzione d’arbitrato”.
La decisione di affidare all’arbitrato, anziché all’organo giurisdizionale, la decisione di contenziosi che dovessero insorgere in relazione al contratto, deve essere adottata di comune accordo tra le parti.
Ebbene, tale accordo può essere costituito anche da una clausola predisposta da uno dei contraenti ed accettata dall’altro, ex art. 1341 comma 2 c.c. .
La domanda è: questa clausola potrebbe poi produrre effetti dannosi nei riguardi della parte che l’ha accettata?
Sembrerebbe di no, in quanto la parte è comunque tutelata dall’art. 808 ter comma 2 c.p.c., il quale prevede che la decisione arbitrale possa essere annullata dal Giudice nel caso in cui gli arbitri, nel decidere il contenzioso, non si siano attenuti alle norme imposte dalle parti oppure se non sia stato osservato il principio del contraddittorio.
Il fatto che la legge, a presidio della parte la quale aveva sottoscritto la clausola predisposta dall’altra, preveda la facoltà di proporre azione giudiziale volta all’annullamento del lodo, ossia della “conseguenza” della medesima clausola, comprova la piena liceità di quest’ultima.
Cosa potrebbe evincersi da ciò?
Che tutte le clausole sottoscritte ex art. 1341 comma 2 c.c., in merito alle quali la legge contempla espressamente una tutela giurisdizionale, sono lecite, e che, viceversa, debbono essere considerate illecite tutte quelle i cui effetti non sono contrastabili mediante un’azione giudiziale appositamente prevista.
Ma, se così fosse, allora non avrebbe neanche più senso che la controparte faccia sottoscrivere alla parte una clausola con la quale quest’ultima si impegna a non opporre le eccezioni, in quanto tale sottoscrizione risulterebbe poi vanificata da una successiva azione giudiziale ad opera della stessa parte.

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La Riforma Cartabia della giustizia civile

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Aggiornata ai decreti attuativi pubblicati il 17 ottobre 2022, la presente opera, che si pone nell’immediatezza di questa varata “rivoluzione”, ha la finalità di spiegare, orientare e far riflettere sulla introduzione delle “nuove” possibilità della giustizia civile.

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Francesca Sassano
Avvocato, è stata cultrice di diritto processuale penale presso l’Università degli studi di Bari. Ha svolto incarichi di docenza in numerosi corsi di formazione ed è legale accreditato presso enti pubblici e istituti di credito. Ha pubblicato: “La nuova disciplina sulla collaborazione di giustizia”; “Fiabe scritte da Giuristi”; “Il gratuito patrocinio”; “Le trattative prefallimentari”; “La tutela dell’incapace e l’amministrazione di sostegno”; “La tutela dei diritti della personalità”; “Manuale pratico per la protezione dell’incapace”; “Manuale pratico dell’esecuzione mobiliare e immobiliare”; “Manuale pratico delle notificazioni”; “Manuale pratico dell’amministrazione di sostegno”; “Notifiche telematiche. Problemi e soluzioni”.

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