Il ruolo dei servizi sociali ed il collocamento in comunità dei minori

in Giuricivile, 2019, 12 (ISSN 2532-201X)

Il complesso ordinamento giuridico nazionale, riconosce e garantisce a colui che non ha raggiunto la maggiore età – e con essa la capacità d’agire ex art. 2 c.c. – la titolarità di un’ampia gamma di diritti, ed in particolare quelli connessi alla sua identità e personalità.

Il soggetto in formazione, è titolare di diritti già a livello internazionale, di cui, è bene menzionare la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ai sensi della quale stabilisce che:

“gli Stati parte vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nel preminente interesse del minore” (art. 9).

Gli enunciati di cui all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dell’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

A livello di legislazione interna, la centralità dell’interesse del minore a vivere nella propria famiglia è sancita dalla legge del 1983, n. 184, in tema di adozione e di affidamento dei minori, così come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, la quale riconosce per ogni persona minore di età il “diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”, nonché, coerentemente con il nuovo titolo del testo di legge, mutato nel 2001, il “diritto del minore a una famiglia”, così facendo sancisce la centralità dirompente della protezione e promozione dei diritti dei minori nel contesto familiare. La stessa Carta Costituzione del 1948, afferma il principio secondo cui la persona umana è il fine supremo dell’esperienza comunitaria, e ne deriva che l’organizzazione sociale, deve impegnarsi affinché i diritti dei minori non restino una mera enunciazione formale, bensì un impegno sostanziale della comunità, che attraverso forme organizzate differenti, consentano la determinazione e lo sviluppo della personalità fragile ed in formazione del minore.

L’ordinamento giuridico riconosce il diritto del minore alla propria famiglia e l’art. 1 della l. n. 149/01, ampliando la portata della precedente legge 183/84, proclama: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”, addivenendo ad un vero e proprio diritto soggettivo del soggetto in formazione. Tuttavia, pur riconoscendo un diritto dalla così ampia portata, vi potrebbero essere conseguenze negative per il minore che ne implicano il distacco dello stesso dal nucleo familiare, conseguente a carenze di vario genere, colpevoli o incolpevoli, che mettano in pericolo l’armonico sviluppo del minore. Come riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza del 26 aprile 1999 n,. 4139, il diritto alla propria famiglia non ha carattere assoluto ma relativo, trovando applicazione quando la stessa sia idonea a crescere, istruire ed educare il minore e quando sia prevedibile che, attraverso adeguati interventi di sostegno, essa possa essere resa adeguata allo svolgimento della sua fondamentale funzione.

Strutture locali come sostegno alle famiglie

Le strutture locali impiegate a sostegno delle famiglie che versano in situazioni di criticità, sono la chiave per misure di sostegni di particolare intensità a favore del minore. È indispensabile, un serio impegno di sostegno alla famiglia, volto ad evitare un allontanamento forzato del minore, tale che Stato, regioni ed enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengano con idonei mezzi di intervento i nuclei familiari a rischio. Un’azione di sostegno che non si limita ad un’azione economica, quanto più di ordine psicologico.

Pertanto, vi sono situazioni di fragilità che rendono indispensabile, per garantire una crescita serena del minore, l’attivazione di percorsi di protezione offerti da una famiglia diversa ovvero da una comunità di tipo familiare. La comunità che accoglie i minori è un luogo ove si manifestano una pluralità di esigenze di tutela, nodi nevralgici su cui porre attenzione per realizzare un sistema che risponda ai bisogni dell’infanzia e dell’adolescenza in modo effettivo,efficace, funzionale. La tutela offerta nelle comunità non si esauriscono nelle difficoltà che determinano l’ingresso nella struttura, bensì la fase di uscita dal percorso di accoglienza, spesso fase temuta in vista del rientro in una famiglia di origine che, il più delle volte non ha ancora colmato le riscontrate carenze.

Per tutti questi motivi, il contesto della comunità assume centralità nella sfida contro le disuguaglianze, data la necessità di porre in essere un intervento, protettivo-educativo-rieducativo, che possa fornire risposte adeguate a ogni specifica esigenza di protezione, valorizzando le differenze, per garantire a questi minori l’eguaglianza sostanziale dei diritti e delle forme di tutela rispetto ai coetanei più avvantaggiati.

Alcune precisazioni sull’affido familiare e sull’inserimento in comunità

La legge n. 184 del 1983, dopo aver precisato che “le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la responsabilità genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia”, delinea un quadro di presidii e misure volto a far sì che l’allontanamento definitivo del minore dalla propria famiglia venga disposto solo dinanzi a accertate e insuperabili difficoltà del nucleo di origine a assicurare al figlio un ambiente favorevole per la sua crescita, stante l’accertata inutilità di altre forme di sostegno alla famiglia o il rifiuto opposto da quest’ultima.

Tra queste forme di sostegno temporaneo al minore e alla famiglia di origine si inquadra l’accoglienza dei minori nelle comunità di tipo familiare di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 184, del 1983. Risultano comuni all’affido familiare e all’inserimento in comunità, sia il presupposto della temporanea difficoltà della famiglia di origine a prendersi cura del minore, sia la strumentalità dell’intervento, espressamente volto a favorire il rientro del minore nell’ambito della propria famiglia di origine. Le attività e il tipo di sostegno da offrire al minore e alla sua famiglia per realizzare questo obiettivo sono indicate nel progetto che i servizi sociali elaborano, in aderenza alle specificità del caso, per ciascuna persona di minore età allontanata dalla propria famiglia di origine.

Le comunità di tipo familiare ospitano anche i minori stranieri giunti nel nostro Paese senza essere accompagnati da un adulto e privi di una figura parentale di riferimento. In tali ipotesi, essendo la famiglia di origine distante e in alcuni casi non conosciuta, l’inserimento in comunità si distanzia necessariamente dalla sua natura di intervento volto al rientro nel nucleo originario, come previsto dalla legge n. 184, del 1983, divenendo una risposta votata esclusivamente al sostegno del minorenne e finalizzata, dunque, a rendere il giovane in grado di affrontare la futura vita adulta con autonomia. Al riguardo, la nuova legge 7 aprile 2017, n. 47, c.d.d. Legge Zampa, recante “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”, prevede che il collocamento in comunità dei minori non accompagnati possa essere disposto solo qualora, a seguito dell’esperimento di indagini familiari, non vengano individuati familiari idonei a prendersi cura del minore non accompagnato e sempre che non sia stato possibile, nel preminente interesse del minore cd. “best interest of the child”, ricorrere a un affidamento familiare.

La disposizione della norma 403 c.c.

In questo solco, si colloca quanto disposto dall’art. 403 c.c. secondo cui, il minore che versa in condizioni degradanti non solo materialmente intese, quanto più inserito in un tessuto familiare inconsistente e per lo stesso pregiudizievole, è incapace a soddisfare i doveri ed i diritti dei genitori così come enunciati agli artt. 30 e 31 della Costituzione, sia a lui garantito l’intervento della pubblica autorità, affinché lo prenda in carico e lo collochi in luogo sicuro. Sono molteplici le ragioni che portano all’ingresso di una persona minore di età all’interno di una comunità di tipo familiare.

Si pensi, alle difficoltà educative della famiglia di origine legate a uno stato precario di salute psico-fisica, nonché ai bambini e ragazzi vittime di abusi o maltrattamenti ovvero entrati nel circuito penale, senza tralasciare, i ragazzi di minore di età che sfuggono da guerre e povertà giungendo nel nostro paese privi di adulti di riferimento e in condizioni di particolare fragilità, c.d.d. minori stranieri non accompagnati.

L’art. 403 c.c., rubricato “Intervento della pubblica autorità a favore dei minori”, dovrebbe avere nel nostro ordinamento una applicazione residuale. Ad esso si ricorre, infatti, quando – a fronte di una grave difficoltà per il minore, che ne richiede l’allontanamento da un pericolo imminente – non sia già intervenuta l’autorità giudiziaria in applicazione degli articoli 330 (Decadenza dalla responsabilità genitoriale) o 333 (Condotta del genitore pregiudizievole ai figli) del codice civile. Se dunque l’autorità giudiziaria non è ancora intervenuta e della situazione di pericolo in cui versa il minore si accorge chiunque altro, qualsiasi pubblica autorità può immediatamente intervenire per allontanare il minore dal pericolo.

In altri termini, la norma assicura la protezione dei minori anche quando un tempestivo provvedimento del giudice non sia possibile: trovando applicazione solo nelle ipotesi di urgente necessità, si conciliano le esigenze di non lasciare privi di protezione i minori che ne abbiano bisogno, con il principio secondo cui il compito di provvedervi spetti, di regola, ad un organo giudiziario.

Analisi dei presupposti giudici per l’applicazione del 403 c.c.

Primo presupposto giuridico per l’attivazione della procedura di cui all’art. 403 c.c. è la sussistenza di una condizione che determina un grave pericolo per l’integrità psicofisica del minore. Qualora il presupposto sia esistente ed accertato, la pubblica autorità procede ad adottare un provvedimento di protezione del minore, collocandolo in un luogo sicuro. Chiarendo i termini adottati dal legislatore nella disposizione del 403 c.c., per abbandono morale e materiale deve intendersi, così come dottrina e giurisprudenza hanno chiarito, una condizione di privazione delle cure di cui un minore necessita e per lo stesso essenziali, oltre al suo sostentamento materiale e alla crescita fisica, anche lo sviluppo armonico della personalità, ed inoltre anche in relazione al contesto sociale con cui entra in contatto. Tra i presupposti per l’azionabilità del 403 c.c. vi è “il grave pericolo per l’integrità fisica e psichica del minore: si tratta di una condizione che se non affrontato in via d’urgenza con l’istituto in esame, comprometterà seriamente l’incolumità psicofisica del minore”.

Appare evidente che una così grave e rischiosa condizione di vita giustifica l’adozione di un provvedimento favor minoris , che seppur invadendo il privato del nucleo familiare, scongiura il verificarsi di un danno effettivo per il minore. In merito all’efficacia del provvedimento amministrativo adottato dai servizi sociali, questa cessa laddove la AG minorile non convalidi o confermi il provvedimento una volta avutane notizia e avendo valutato come “insussistenti” i presupposti necessari per l’attivarsi della procedura. Il provvedimento ex art. 403 c.c. si presenta nella veste giuridica non di atto giurisdizionale, bensì amministrativo, cui fine è la protezione del minore, per la cui efficacia e validità non necessita di dettagliata motivazione, essendo necessaria e sufficiente la semplice indicazione della situazione di pregiudizio da cui potrebbe derivare un danno per il minore.

Detto provvedimento, travalicando il limiti del privato nucleo familiare, può essere adottato anche contro la volontà dei genitori, qualora all’interno del nucleo si generano situazioni pregiudizievoli per il minore, e pertanto non è obbligatorio informare i genitori del luogo ove è stato condotto.  Gli attori coinvolti nel procedimento, riferendoci al il termine “ pubblica autorità” di cui al 403 c.c. è troppo generico. Potrebbe al riguardo utilizzarsi la formula dell’art. 9 della legge n. 183 del 1984, secondo la quale i soggetti che possono attivare il procedimento sono “i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità”.

La Cassazione con sentenza n. 17648 del 10 agosto 2007 ha ritenuto che: “L’art. 403 c.c. non può ritenersi abrogato implicitamente dagli artt. 2 e 4 della legge 184 del 1983, poiché esso attiene ad interventi urgenti da assumere nella fase anteriore all’affidamento familiare, ma va coordinato con l’art. 9 della medesima legge, il quale fa obbligo alla pubblica autorità, che venga a conoscenza della situazione di abbandono, di segnalarla al tribunale per i minorenni”.

Chi sono i soggetti legittimati ad adottare il provvedimento?

Anzitutto soggetti legittimati ad adottare il provvedimento in esame sono i Servi Sociali, che collocano il minore presso una struttura, che in base a talune caratteristiche, sia in grado di accoglierlo e proteggerlo. Gli stessi Servizi possono avvalersi delle Forze dell’ordine, qualora nel favorire l’allontanamento dall’ambiente familiare, si creino reazioni violente che potrebbero ricadere sul minore. Tra i legittimati devono annoverarsi gli organi di Polizia, avvalendosi anche dei Servizi Sociali, per la individuazione della struttura idonea ad accogliere il minore.

Collocato il minore in struttura protetta i servizi sociali, provvedono a trasmettere la segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni dove il PMM valutata la correttezza dell’iniziativa, ricorre al TM per l’adozione  dei provvedimenti di responsabilità e chiede la conferma del provvedimento richiesto in via d’urgenza dai ss. i ss non possono assumere la qualità di parte processuale, non avendo un potere di ricorso, ma possono provocare l’iniziativa del PM tramite le segnalazioni.

Pertanto, le segnalazioni dei casi concreti sono dirette alla Procura della Repubblica per i Minorenni che, quale parte pubblica, ha la legittimazione processuale per la tutela dei diritti dei minori. Il procuratore della Repubblica per i minorenni ed i suoi Sostituti: ricevono le segnalazioni dei servizi, dell’istituzione scolastica, dell’ente locale, dell’autorità di polizia e degli altri soggetti (privati cittadini) privi della legittimazione alla presentazione di un ricorso; valutano la rilevanza giudiziaria dei fatti segnalati, se del caso assumendo ulteriori informazioni, per determinare se è probabile l’esistenza di un pregiudizio e quale presumibile vantaggio il minore trarrebbe dall’intervento giudiziario; decidono se attivare un procedimento depositando un ricorso al Tribunale per i Minorenni. Il provvedimento del TM potrà stabilire: l’allontanamento del minore o dei genitori o dei conviventi dalla residenza familiare; la decadenza dalla responsabilità genitoriale; dichiarazione dello stato di adottabilità del minore; regolamentazione della responsabilità divisa dei genitori; l’imposizione di prescrizioni affinché i genitori tengano una condotta positiva o si astengano da una condotta negativa pregiudizievole o affinché i genitori e/o il figlio collaborino in una attività di sostegno attuate dai ss necessarie per la cura del minore.

Nel caso di segnalazione avente ad oggetto condotte di rilevanza penale ai danni di un minore (quali lesioni personali, maltrattamenti in famiglia o abusi sessuali) la Procura della Repubblica per i minorenni, prima di trasmettere il proprio ricorso o la documentazione al Tribunale per i Minorenni e svelarne così il contenuto, svolge una attività di confronto e coordinamento con il procuratore della Repubblica competente per il procedimento penale, allo scopo di valutare le priorità, far gli atti di indagine in sede penale nei confronti dell’autore dell’abuso e gli interventi civili rivolti ad assicurare, al minore vittima, un adeguato contesto di protezione. Il contatto immediato tra ss e AG consente una maggiore progettualità e l’avvio di interventi coordinati tra diverse autorità coinvolte a sostegno del minore.

 Il collocamento in via d’urgenza

Sarà il servizio sociale competente per territorio a collocare in via d’urgenza il minore presso una comunità o casa famiglia, senza che ciò escludi in futuro, un affidamento a parenti del minore o terzi affidatari. Di fatto i ss sostengono territorialmente i nuclei familiari in difficoltà, e l’art. 403 c.c. attribuisce ai servizi sociali un potere pari a quello normalmente esercitato dall’AG e pertanto limitato ai casi di urgenza. Nelle fasi successive al collocamento in via d’urgenza presso il luogo protetto, l’ente locale provvederà a segnalare il minore alla procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni. A ciò consegue la necessità di fare riferimento alla disposizione di cui all’art. 3 della legge 184/83 prevedendo poteri tutelari in capo al legale rappresentante della struttura di accoglienza, sino a quando ai sensi del 343 c.c., non venga nominato un tutore dall’autorità giudiziaria. L’intervento di protezione deve essere limitato il più possibile, a quelle situazioni di effettivo pericolo per l’integrità psico-fisiche del minore, tipiche dello stato di necessità e dunque la collocazione non appare necessaria e consentita laddove non si verifichino ulteriori eventi tali da evidenziare la necessità ed urgenza del pericolo. Lo stato di necessità permane fino al provvedimento di pronuncia del Tribunale per i Minorenni, che può disporre l’allontanamento del minore dalla famiglia oppure il suo rientro.

Data l’eccezionalità dello strumento di cui al 403 c.c. il legislatore per evitare un uso abituale e di abuso dello stesso ha previsto l’allontanamento dalla residenza familiare e intervento socio-assistenziale solo in casi di urgenza, proprio quando i ss sono i primi a venire a conoscenza della situazione pregiudizievole per il minore per cui non può attendere il provvedimento del giudice. Tra i poteri dei ss oltre a quello di segnalare situazioni in concreto pregiudizievoli, anche solo potenziali, per il minore, deve porre in essere tutte quelle attività ed iniziative che ritiene utili tra cui approntare un progetto di intervento, almeno indicativo, e di trattamento a favore del minore  e del nucleo familiare, ricevendo il consenso dei soggetti coinvolti e la loro adesione al progetto formulato e progettato. Laddove non pervenuto il consenso genitoriale di adesione, il giudice minorile, interverrà limitando o comprimendo la responsabilità genitoriale al fine di consentire la realizzazione  degli interventi ritenuti necessari per il minore. È opportuno che il Servizio territorialmente competente eviti di avanzare richieste al TM in ordine ad attività di esclusiva competenza dello stesso. E qualora non sia ancora aperto un procedimento presso il TM, interlocutore primario del Servizio sociale sarà il Pubblico ministero, che potrà anche decidere nell’ambito di accertamenti preliminari di propria competenza di delegare un’indagine psico-sociale.

Casi in cui la segnalazione dei servizi sociali è obbligatoria e non

Inoltre il nostro ordinamento prevede i casi in cui la segnalazione da parte dei servizi sociali sia o meno obbligatoria.

Casi di segnalazione obbligatoria sono: ex art. 9 l. 184/83: quando un miniore si trova in situazione  di abbandono ai fini della eventuale dichiarazione del suo stato di adottabilità; art,. 403 c.c. che prevede: “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”, pertanto la segnalazione dei ss permette al TM di verificare la situazione e di adottare eventualmente il provvedimento amministrativo; quando minori di anni diciotto esercitano la prostituzione ex art. 25 bis co. 1 del R.D.L. 1404/34: quando vi sono minori di anni diciotto stranieri, privi di assistenza in Italia che siano vittime dei reati di prostituzione e pornografia minorile o di tratta e commercio ex art. 4 co. 5 della L. 184/83; quando occorre prorogare un affidamento familiare o un collocamento in comunità o in istituto, oltre il termine stabilito o anticiparne la cessazione ex art. 25 bis co. 2 del R.D.L. 1404/34.

Differentemente i casi di segnalazione NON obbligatoria da parte dei servizi sociali ma comunque ritenuta opportuna, qualora siano situazioni pregiudizievoli , attuale o solo potenziale, a carico di un  minore, per rimuovere le stesse non sono dì sufficienti gli interventi ordinari dei ss, ma è necessario incidere sulla responsabilità genitoriale, che evidentemente non hanno aderito alle proposte dei servizi sociali.

Critiche all’art. 403 c.c.

Muovendo delle critiche, l’art. 403 c.c. non è ad oggi mai stato rivisto o aggiornato rispetto alla formulazione iniziale e ciò nonostante esso continui a rappresentare l’unico strumento di interevento immediato per fronteggiare le più svariate situazioni in cui un minore versi, ossia di grave pregiudizio tale da richiedere un allontanamento urgente dalla famiglia. Tuttavia l’eccessiva genericità della norma, crea confusione tra i sss territoriali e gli operatori di PG , i quali possono talvolta essere indotti o ad estenderne oltre misura la portata(attuando allontanamenti senza i necessari presupposti e di urgenza richiesti) ovvero ad indugiare nelle reali situazioni di urgenza, pretendendo un provvedimento di allontanamento da parte del Pm, dimenticando che il potere previsto dalla norma è esercitabile unicamente dall’autorità amministrativa, giammai dal pm, se non a seguito della dovuta segnalazione a lui giunta. Taluni hanno ritenuto che i tempi sono orami maturi per una modifica sostanziale della norma, ormai anacronistica, perché formulata del 1941, sebbene varie proposte di riforma presentate non hanno mai trovato le convergenze necessarie e restando di fatto immutata. Anche l’Associazione italiana dei magistrati minorili (AIMMF) ha presentato una proposta articolata per superare questo problema, ma siamo ancora fermi. Certo, ci sono situazioni che impongono all’autorità pubblica di intervenire in tempi rapidi per risolvere situazioni di emergenza e gli interventi non si possono rimandare: la legge non prescrive in quei casi di segnalare l’intervento alla Procura dei minorenni, così vi è la necessità di uniformare le procedure dei tribunali, con tempi certi occorre modificare la legge”.

È bene richiamare la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 che è diretta a proteggere il minore contro gli effetti nocivi derivanti da un suo trasferimento o mancato suo rientro illecito, sulla base della presunzione secondo la quale l’interesse del minore coincide con quello di non essere allontanato o di essere immediatamente ricondotto nel luogo in cui si svolge la sua abituale vita quotidiana ; pertanto gli artt. 333 o 403 cc non violano l’art. 16 della predetta Convenzione, in quanto il provvedimento emesso a protezione del minore ex art. 333 c.c. o ex art. 403 c.c. dall’autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto secondo quanto enunciato dalla Cassazione con la sentenza del 10 agosto 2007 n. 17648.

La legge n. 448 del 1988: collocamento in comunità quale misura cautelare

Nell’ambito del processo a carico di minorenni è intervenuto il legislatore con la legge n. 448 del 1988. L’art. 1 della stessa, stabilendo i principi generali del processo minorile, al  comma 1  enuncia come le misure adottate siano: “applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne”. In accordo con questo principio il giudice minorile dovrà individuare le misure idonee di riferimento alla situazione del minore: ambiente familiare, problematiche personali e percorso educativo passato od eventualmente in atto. Solo tenendo conto di questi elementi, si potrà perseguire il fine educativo e di reinserimento sociale cui il sistema tende. Il contenuto e le ragioni delle attività processuali devono improntarsi  a condizioni etico-sociali, nonché psicologiche del minore, essere “a misura di minore”. E’un sistema processuale indirizzata a fornire alla autorità giudiziaria minorile di uno strumento per modellare la disciplina del processo compatibilmente con la tutela della personalità in formazione del minore. Le misure cautelari sono misure privative o limitative della libertà personale, sono disposte con provvedimento del Giudice competente. Lo stesso potrà disporre il collocamento in comunità del minore sottoposto a misura da eseguirsi presso la stessa.  Prescrizioni per il minore
Il minore sottoposto a misura cautelare è tenuto all’osservanza delle seguenti prescrizioni:
a. divieto di allontanamento dalla struttura;
b. divieto di comunicazione con persone diverse dai familiari conviventi (salvo deroghe formalmente autorizzate dall’AG. Minorile.);
c. divieto di utilizzo di strumenti di comunicazione con l’esterno (telefoni, cellulari, internet, etc.);
d. divieto di detenere oggetti non conformi alle leggi ed al regolamento comunitario e/o aventi particolare valore economico;
e. obbligo di rispettare le regole di vita comunitaria.

La Corte di Cassazione Penale con la  sentenza n. 251 del 2013 che si sofferma ad analizzare, nell’ambito del processo minorile, la portata applicativa delle misure cautelari, in particolare le opportune differenze, sotto il profilo giuridico, tra la misura della custodia cautelare in carcere e il collocamento in comunità del minore.

Invero, la misura del collocamento in comunità del minore è si cautelare ma, non può essere assimilata a quella della custodia cautelare in carcere.

La giurisprudenza di legittimità e di merito in alcune decisioni che le misure cautelari di cui al d.p.r. n. 448/88 (permanenza in casa e collocamento in comunità), hanno struttura diversa da quella della detenzione domiciliare e della detenzione in carcere ed assolvono altresì ad una più complessa finalità coerente alle linee di trattamento dei minorenni voluto dal nostro ordinamento.

Le misure cautelari vengono applicate tramite i c.d.d.  effetto a cascata. Caratteristica è l’ afflittività crescente vale a dire  la successione delle norme relative alle singole misure, rispecchia l’incidenza via via maggiore sulla libertà personale. Speculare è il c.d. effetto a cascata – in caso di violazione delle misure imposte, il Giudice minorile potrà sostituire la misura prima applicata con quella successiva ed immediatamente più grave. Il collocamento in comunità quale misura consiste nel ricovero del minore in una struttura pubblica o autorizzata allo scopo di impedirgli la libera circolazione e garantirgli una vigilanza continuativa. L’eventuale e spesso attuato allontanamento del minore dalla comunità non integra gli estremi del reato di evasione.

Le Comunità di collocamento tra principi ed obiettivi

I principi fondamentali su cui si basa il lavoro delle Comunità ministeriali sono: la promozione delle risorse personali, familiari e sociali del minore, la necessità e l’importanza di favorire attività formative, ricreative, ecc., in ambienti anche esterni alla struttura.

Alla luce di tali principi, gli obiettivi fondamentali del collocamento presso le Comunità sono:

  • stabilire un programma educativo destinato al minore che tenga presente tanto delle sue esigenze di recupero quanto delle sue risorse personali, familiari e sociali, nonché una crescita armonica e regolare;
  • favorire la responsabilizzazione e la consapevolezza del minore rispetto alla misura restrittiva della libertà personale;
  • individuare e valorizzare le risorse del minore;
  • offrire al giudice informazioni che contribuiscano ad una scelta conforme il più possibile alle esigenze educative del ragazzo;
  • restituire il minore al suo contesto sociale.

Secondo quando affermato dal d.lgs. 272 del 1989, le Comunità devono rispettare i seguenti criteri fondamentali relativi alla gestione ossia un’organizzazione di tipo familiare; la  presenza di operatori professionali specializzati in diverse discipline (assistenti sociali, mediatori culturali, ecc.), che accompagnino e sostengano il minore durante il proprio percorso; la capacità di collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzo delle risorse del territorio; l’attuazione di progetti educativi individualizzati (PEI).. L’inserimento del ragazzo è seguito dalla definizione di un “Progetto Educativo Individualizzato” (P.E.I.): si tratta di un piano educativo che viene stilato prestando attenzione alla personalità del minore e alla valorizzazione dei processi di responsabilizzazione e risocializzazione del ragazzo affinché possa uscire dal circuito penale, nonché nel rispetto della garanzia dei suoi diritti ed esigenze educative. Il progetto, elaborato dopo un’attenta osservazione del minore nella sua globalità, dovrà indicare:

  • gli obiettivi che il minore deve raggiungere;
  • le attività che dovrà svolgere;
  • le indicazioni sulle modalità di svolgimento delle attività;
  • le modalità di verifica, utili all’Autorità giudiziaria.

Pertanto sia il collocamento in comunità per i minori entrati a far parte del circuito penale, sia il provvedimento amministrativo di cui all’art. 403 c.c. si pongono quali strumenti adottabili, seppur per ragioni e presupposti giuridici differenti, quali sostegno psicologico, affettivo e rieducativo del minore, soggetto in formazione che potrà trovare delle risposte ai suoi bisogni attraverso un percorso ad hoc delineato. In entrambe le ipotesi il progetto delineato, affinché abbia una qualche ipotesi di successo, necessita di uno stretto coordinamento tra tutti i soggetti istituzionali coinvolti e nella seconda ipotesi deve consentire al minore di uscire dal circuito penale di cui entrato a far parte, avendo emulato i personaggi di spicco criminogeno del territorio e del contesto sociale in cui normalmente inserito, che lo hanno portato ad un disorientamento e disconoscimento del suo benessere psicofisico, perdendo di vista i bisogni e gli obiettivi primari per una sana ed armonica crescita personale, tale da consentirgli di adottare in maniera ponderata e consapevole scelte più idonee ed in linea con lo sviluppo della sua personalità.

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