Screenshot di messaggi “WhatsApp” e “SMS” come prova dei fatti e delle cose rappresentate

La giurisprudenza converge nel senso che i messaggi WhatsApp e gli SMS costituiscono prove valide in un processo, potendo appunto assumere la veste di prova in quanto, con l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più persone si affidano, pure per le pratiche commerciali, a SMS o altro tipo di messaggeria.

La disciplina

L’articolo 2712 c.c., in tema di “Riproduzioni meccaniche”, statuisce che le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fotografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. L’articolo 2719 c.c. (“Copie fotografiche di scritture”) puntualizza, invece, che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta.

I messaggi WhatsApp costituiscono prove in un processo?

Sono ormai numerose le pronunce orientate nel senso del valore come “prova” di messaggi WhatsApp e SMS. Vediamone gli ambiti esaminati.

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In ambito penale

Già nel 2017, ambito penale, la Corte di Cassazione (Sezione V Penale, Sentenza 25 ottobre 2017, n. 49016) si era attestata per la legittimità del provvedimento col quale cui il giudice di merito aveva rigettato l’istanza di acquisizione della trascrizione di conversazioni, effettuate via “WhatsApp” e registrate da uno degli interlocutori, in quanto, pur concretandosi detta memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale, ex art. 234 codice di rito penale, la relativa utilizzabilità risultava condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, al fine di verificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di dette conversazioni. I dati informatici (SMS, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica scaricati o conservati nella memoria) rinvenuti in uno smartphone sottoposto a sequestro hanno natura di documenti ai sensi dell’articolo 234 c.p.p., con l’effetto che la relativa acquisizione non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, e neppure alla disciplina delle intercettazioni telefoniche: sotto il primo profilo risulta inapplicabile la disciplina di cui all’articolo 254 c.p.p., in quanto i testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente tramite consegna a terzi per il recapito, mentre, sotto il secondo profilo, neppure è configurabile un’attività di intercettazione, che postula, per relativa indole, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso. In altre parole, i dati informatici già acquisiti dalla memoria del telefono in uso all’indagato (SMS, messaggi WhatsApp, messaggi di posta “scaricati”) costituiscono prove documentali, in quanto non rientranti né nel concetto di corrispondenza, la cui nozione implica, appunto, un’attività di spedizione dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito, né in quello di intercettazione, che postula la captazione di un flusso di comunicazioni in corso (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 16 gennaio 2018, n. 1822). In definitiva, nell’ambito dei mezzi di ricerca della prova penale, con riferimento ai messaggi WhatsApp e a SMS rinvenuti nello smartphone sottoposto a sequestro, non opera la disciplina di cui all’art. 254 c.p.p., avente ad oggetto il sequestro di corrispondenza, bensì quella prevista dall’art. 234 c.p.p., concernente i documenti, in quanto tali testi, non costituendo il diretto obiettivo del vincolo, non rientrano neppure nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica, come già rilevato, un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito (Corte d’Appello di Taranto Penale, Sentenza 11 marzo 2019, n. 149).

Nell’ambito della crisi della famiglia

Nell’ambito dei giudizi di separazione personale tra coniugi, ove uno dei coniugi chieda dichiararsi l’addebito della separazione a carico dell’altro (Cass. civ., Sez. I, ordinanza 14 febbraio 2024, n. 4038) emerge sovente l’impiego probatorio di messaggi, video e SMS che, secondo l’indirizzo fatto proprio dalla Suprema Corte, si identificano con la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti. Nel processo civile, e così anche nei procedimenti della crisi familiare o da questi derivanti, agli SMS, alle e-mail e, più in generale, ai contemporanei sistemi di messaggistica, è stata riconosciuta (Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2019, n. 19155) efficacia di “piena prova” che l’art. 2712 c.c. attribuisce alle riproduzioni informatiche. Per il disconoscimento di tali comunicazioni colui contro cui sono prodotte ha l’onere di tempestivamente dimostrare, mediante elementi concreti e in maniera circostanziata ed esplicita, la non rispondenza della realtà riprodotta con quella fattuale. Gli SMS e le e-mail vengono annoverate fra le riproduzioni meccaniche (disciplinate dell’articolo 2712 c.c.) e, per l’effetto, formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotti non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose stesse. Vengono incluse nella categoria delle prove atipiche le informazioni pubblicate su Facebook (Trib. Santa Maria Capua Vetere 13 giugno 2013 che ha stabilito che le fotografie e le informazioni pubblicate sul profilo personale del social network Facebook sono utilizzabili come prove documentali nei giudizi di separazione). Lo screenshot anche di chat privata, la cui produzione tra coniugi nelle cause di separazione risulta molto frequente, può essere impiegato come prova, senza che sia violato il diritto alla riservatezza, regolato dal GDPR, potendo ritenere che rappresenti la copia di un documento scritto e quindi disciplinato dall’art. 2719 c.c. Il giudice potrà disporre d’ufficio l’acquisizione di tali prove, senza sostanziali differenze rispetto ai poteri di produrle riconosciuti alle parti.

Nell’ambito delle pratiche commerciali

Il tribunale di Urbino (Ordinanza del 7 giugno 2024), esaminando la fattispecie che aveva per oggetto la richiesta di pagamento di un credito, ha rilevato che detti messaggi possono assumere la veste di prova in quanto, con l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più persone si affidano, anche per le pratiche commerciali, a SMS (Short Messages) ovvero ad altro tipo di messaggeria. La decisione è ancorata all’art. 2712 c.c., dove il legislatore dispone che “ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentante, se colui contro il quale sono state prodotte non ne disconosce la conformità”, nonché all’art. 2719 c.c., dove si precisa che “le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”. Nella specie, la parte opponente non aveva proceduto a disconoscere i messaggi WhatsApp fatti valere dall’avversario processuale. Al contempo, il tribunale ha puntualizzato la necessità di procedere tramite una perizia tecnica sul dispositivo, facendo riferimento a un orientamento di legittimità secondo cui i messaggi WhatsApp “hanno valore di prova purché vi siano i supporti informatici (gli smartphone o il pc) nei quali sono presenti le conversazioni” (Cass. n. 49016/2017). Per l’effetto, veniva nominato un consulente d’ufficio che, acquisito il dispositivo, ha proceduto a verificare l’autenticità delle conversazioni WhatsApp tra le parti come anche la collocazione temporale dei messaggi medesimi.

In ambito giuslavoristico

I messaggi di “WhatsApp” possono essere ricompresi nelle rappresentazioni meccaniche dove prodotti su foglio cartaceo ai quali risulta applicabile il disposto di cui articolo 2712 c.c., che dispone che “ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentante, se colui contro il quale sono state prodotte non ne disconosce la conformità”. La Sezione Lavoro del Tribunale di Roma (Sentenza 30 maggio 2023, n. 5561) aveva così disposto in un giudizio ove la lavoratrice ricorrente aveva impugnato il licenziamento intimatole per manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso, pertanto, nell’accogliere il ricorso, è stato ritenuto che la contestazione mossa dalla resistente società datrice di lavoro fosse intervenuta in modo tardivo al di fuori delle preclusioni sancite dall’articolo 416 c.p.c., per cui tali messaggi si dovevano considerare come non contestati.

In ambito contrattuale

Di recente la Cassazione Civile (Sezione II, sentenza 18 gennaio 2025, n. 1254) ha operato una magistrale ricognizione della tematica, analizzando la fattispecie ove il ricorrente, in sede di legittimità, aveva denunciato, ai sensi dell’art. 360, I comma, n. 5, c.p.c., la violazione e/o errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché, ai sensi dell’art. 360, I comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 23-quater del d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale), per avere la Corte di merito valutato erroneamente le prove documentali e testimoniali in ordine all’accordo raggiunto per la fornitura e l’installazione di serramenti, anche con riferimento alla misura del corrispettivo, e per aver utilizzato a fini probatori la copia fotografica del messaggio WhatsApp senza alcuna certezza sulla riconduzione al suo apparente autore. Il motivo è stato ritenuto infondato. Il collegio ha infatti spiegato che,  in merito alla contestazione del messaggio WhatsApp prodotto, i messaggi “WhatsApp” e gli “SMS” conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, con la conseguente piena utilizzabilità dei messaggi estrapolati da una “chat” di “WhatsApp” mediante copia dei relativi “screenshot”, tenuto conto del riscontro della provenienza e attendibilità degli stessi (Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 11197/2023). In tema di efficacia probatoria dei documenti informatici, il messaggio di posta elettronica (e-mail), così come i messaggi WhatsApp, costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19622 del 16/07/2024; Sez. 2, Sentenza n. 11584 del 30/04/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 30186 del 27/10/2021; Sez. 6-2, Ordinanza n. 11606 del 14/05/2018). E ciò pur non avendo l’efficacia della scrittura privata prevista dall’art. 2702 c.c. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22012 del 24/07/2023). Nel caso in disputa, il ricorrente aveva contestato precipuamente l’utilizzabilità processuale del “documento” in sé, piuttosto che la natura artefatta del suo contenuto. In ogni caso, alla luce dei principi espressi, è stato evidenziato che, nella fattispecie, il messaggio utilizzato non ha avuto una rilevanza decisiva al fine di ritenere provato il quantum della fornitura e della posa in opera oggetto del contratto (che, contrariamente all’assunto del ricorrente, non era stato basato sul riconoscimento di debito desumibile da tale messaggio) bensì, più limitatamente, tale “documento” aveva costituito un elemento indiziario utilizzato per suffragare l’attendibilità di una testimonianza.

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