Risarcimento del danno da nascita indesiderata: le novità giurisprudenziali

in Giuricivile, 2018, 4 (ISSN 2532-201X)

Recentemente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla configurabilità del diritto al risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, in particolare sul diritto di agire del concepito, poi nato con malformazioni o disabilità, e della gestante, nei confronti del medico che abbia colpevolmente omesso di diagnosticare o di comunicare la malformazione del feto, così determinando una nascita affetta da gravi disabilità nei confronti del minore e la perdita di chance di interrompere la gravidanza nei confronti della gestante.

In questo articolo si illustreranno tutte le differenti opinioni giurisprudenziali, alcune recentissime, registrate sul punto.

Orientamento contrario al danno da vita ingiusta del concepito

Un primo orientamento, assunto dalla Corte in occasione di una controversa pronuncia[1], configura il diritto al risarcimento del danno del concepito per nascita indesiderata e ingiusta come diritto “a nascere se sano e a non nascere se non sano.

Come tale, lo ritiene un diritto “adespota”, ossia senza padrone, in quanto sorgerebbe soltanto con l’acquisto della capacità giuridica ex art. 1 c.c., e pertanto con la nascita, ma consisterebbe in un diritto che, nel momento in cui viene in essere, sorgerebbe già violato a causa dell’evento nascita, che ne costituisce la lesione.

Se è vero dunque che il diritto a nascere sani si accompagna al diritto a non nascere, se affetti da intollerabili disabilità, che affliggerebbero la vita (e soprattutto, la qualità della vita) in maniera inaccettabile, ingiusta e grave, allora la nascita con disabilità rappresenta il momento in cui il diritto a non nascere se non sani viene leso. Solo la “non nascita”, invece, rappresenterebbe la condizione di rispetto di tale diritto[2].

È evidente che, dato che eccezionali e tassativamente indicati dalla legge sono i diritti provvisoriamente acquisiti dal nascituro non ancora nato ex art. 1 c.c., che eccepiscono al normale decorso della capacità giuridica, e dato che tra questi non è espressamente menzionato il diritto a non nascere, dunque esso non può sorgere prima dell’evento nascita, e quindi sorgere già “zoppo”. L’inevitabile contraddizione dimostrerebbe, secondo il predetto orientamento, l’insussistenza di tale diritto e il suo carattere “adespota”, con la conseguenza che esso non potrebbe essere riconosciuto in capo al concepito, poi nato malformato.

Risarcimento spettante solo alla paziente/madre

La seconda considerazione della Corte, contraria all’ammissibilità del diritto a non nascere, ritiene che il danno che affligge il concepito malformato non sia imputabile alla condotta del medico che, pur colpevole sotto altri profili di responsabilità, impedendo alla madre di intraprendere una scelta consapevole e informata sulla continuazione o sull’interruzione volontaria di gravidanza, non ha comunque cagionato la disabilità.

Dal punto di vista scientifico-naturalistico, la lesione così subita non è causata dalla condotta del sanitario, né vi sarebbe nesso causale sulla condizione di vita “minorata” del minore sotto il profilo giuridico. In effetti, il diritto leso sarebbe unicamente quello del consenso informato della paziente che, rivoltasi al medico per porre in essere accertamenti diagnostici, non sia stata messa in condizioni di conoscere il proprio quadro clinico. Secondo tale orientamento, la domanda risarcitoria potrebbe configurarsi soltanto in capo alla paziente/madre per colpa professionale, e non anche in capo al concepito per danno da vita ingiusta.

Diritto a non nascere o piuttosto diritto a morire?

In terzo luogo, la Suprema Corte procede ad analizzare il complesso di valori costituzionali e metagiuridici che inquadrano la problematica: l’impianto ordinamentale, infatti, quando pone una disciplina relativa al bilanciamento tra sfera giuridica della donna e sfera del nascituro, è quello di tutelare la salute del concepito ai fini della nascita; la stessa interruzione di gravidanza volontaria è una facoltà legittima consentita entro limiti assai stringenti, non un diritto, e la legge che la inquadra fa riferimento alla “tutela sociale della maternità”.

Tutto, nel nostro ordinamento, lascerebbe intendere che il diritto a non nascere non potrebbe sussistere poiché il complesso di valori che caratterizza la Costituzione e i principi generali del diritto civile è invece incentrato sulla nascita, o più precisamente sul diritto alla vita.

Il diritto a non nascere, al contrario, è assimilabile al diritto a morire, e rischia di essere assimilato a profili di aborto eugenetico, di programmazione prenatale, di atti di disposizione del proprio corpo, in contrasto con l’art. 5 c.c.. Il diritto a non nascere se non sano si pone pertanto in contrasto con l’art. 2 Cost., con i principi inviolabili riconosciuti all’uomo e, in particolare, con il bene cardine del sistema giuridico della vita.

Orientamento favorevole al diritto a non nascere se non sano

Vi è poi un secondo orientamento, favorevole alla configurabilità del diritto a non nascere, anche questo fatto proprio da una pronuncia della Cassazione, che ha ritenuto che la colpa medica, la quale non consiste soltanto nell’eventuale omissione informativa riguardante l’avvenuta diagnosi della malformazione, ma anche nell’eventuale omissione diagnostica, dovuta al fatto che il medico manca di prescrivere test diagnostici prenatali appropriati, o ne prescrive alcuni poco precisi o statisticamente non risolutivi, o ancora per negligenza o imprudenza omette consapevolmente alcuni esami, ritenendoli superflui.

Ecco allora che tale colpa medica effettivamente permette di parlare di danno da c.d. nascita ingiusta, in quanto la condotta tenuta dal sanitario, ancorché inidonea dal punto di vista causale a dar vita alla disabilità, è comunque l’effettiva ragione della venuta ad esistenza in condizione disabile del nascituro. Ancorché congenita fosse la malformazione, il nascituro deve la sua esistenza in vita in condizioni ingiuste alla condotta medica.

Il danno subito dal concepito è precedente alla nascita

In secondo luogo, anche se privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita (recte: di personalità giuridica), il concepito subisce un danno precedente ad essa, e quando viene ad esistenza, la lesione che ha subito si cristallizza nel mondo giuridico come illecito, ed egli ha diritto ad essere risarcito, al fine di alleviare la propria condizione di vita.

Il danno consiste dunque nell’essere nato non sano, in una condizione svantaggiata rispetto ai consociati, che non permette la libera espressione della propria personalità, come singolo e nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.) e che impone all’ordinamento di rimuovere gli ostacoli che impediscono un pieno sviluppo della persona (art. 3 Cost.). Da qui discende il diritto a rivalersi sul medico per colpa professionale, al fine di colmare la differenza di situazione data dalla vita ingiusta e disabile.

A nulla rileva che la condotta medica fosse causalmente ininfluente sulla disabilità, poiché lo era certamente sulla nascita, nel senso che se il professionista avesse informato adeguatamente la gestante o proceduto nei suoi riguardi a più approfonditi test diagnostici, ella avrebbe verosimilmente scelto di interrompere la gravidanza, così scongiurando la c.d. vita ingiusta del concepito.

Sarebbe pertanto legittimato attivamente ad avanzare pretese risarcitorie il minore, che ha subito dal medico un danno, che consiste non tanto nella propria vita (dovuta al concepimento e poi alla nascita), né nella malformazione (dovuta a fattori genetici e patologici comunque estranei), ma all’esistenza inferma in luogo della possibile interruzione di gravidanza per omesse informazioni diagnostiche, ossia la condizione di vita obiettivamente disagevole e svantaggiata e le difficoltà che ne conseguono, difficoltà che sono perdite risarcibili.

I principi costituzionali che militerebbero in favore di tale ricostruzione sono molteplici: il diritto alla vita, infatti, va temperato e bilanciato con quello alla salute ex art. 32 Cost., e con quello della dignità della persona umana ex art. 3 Cost., sicché oltre al diritto alla vita va riconosciuto al concepito una sorta di “diritto ad una vita dignitosa” o “diritto alla qualità della vita”, qui leso.

Le Sezioni Unite e la “non vita” come bene estraneo all’ordinamento

Il conflitto è stato risolto dalle recenti Sezioni Unite[3], che hanno posto alcuni punti fermi in materia: la Corte ha ammesso l’esistenza del c.d. danno da nascita desiderata, che sussiste, nel nostro ordinamento, in capo alla sola madre, che agisca per il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento contrattuale del medico o della struttura sanitaria, secondo un regime ed un onere probatorio illustrato di seguito.

Al contrario, il concepito, poi nato affetto da gravi malformazioni, non ha alcun diritto al risarcimento del danno, per più ordini di ragioni.

La vita non può mai costituire un danno

L’ordinamento ben può ammettere che un soggetto che ancora non ha acquisito soggettività giuridica (recte: personalità giuridica) possa comunque essere subire un evento dannoso prima della nascita e possa, dopo la venuta al mondo, continuare a subirne le conseguenze dannose, e pertanto agire per il ristoro[4].

Tuttavia, il diritto a non nascere se non sano va negato, in base al ragionamento della Corte, poiché mai la vita potrebbe costituire un danno-conseguenza: infatti, secondo il principio sancito all’art. 1223 c.c., il danno risarcibile è quello grazie al quale si ha di meno, e in assenza del quale si avrebbe di più. A seguito dell’illecito, si ha un’alternativa peggiore rispetto a quella che si avrebbe se tale illecito non fosse mai avvenuto: ebbene, la tesi favorevole incorre in un’insuperabile contraddizione, dal momento che l’alternativa alla nascita indesiderata e alla c.d. vita ingiusta è la “non vita”, ossia la possibilità che la gestante, ove avesse saputo della malformazione, avrebbe potuto optare per l’interruzione volontaria di gravidanza.

Perciò, visto che il primo termine di paragone è la nascita frutto della condotta colpevole del medico, in condizioni di disabilità, e il secondo termine è la “non nascita”, l’assenza di vita, come potrebbe il nascituro lamentare un danno, se l’unica alternativa avrebbe potuto essere la non vita e la non nascita? La non vita, infatti, non può essere un bene della vita ammesso dall’ordinamento, né tantomeno garantito come diritto soggettivo. A ben vedere, infatti, è la vita il bene supremo dell’ordinamento, non la sua negazione (che non è la morte, ma la “mai venuta ad esistenza”)[5]. Pertanto, l’ordinamento non può comparare e considerare la vita come danno risarcibile rispetto all’assenza di vita.

Diritto ad una famiglia preparata ad accogliere il minore

La vita del minore, quindi, non potrebbe neanche astrattamente integrare un danno-conseguenza, neanche sotto il diverso profilo che suppone che, dato che essa è una vita svantaggiata, potrebbe perlomeno configurarsi come lesione del diritto ad avere “un ambiente familiare preparato ad accogliere” il bambino.

In effetti, la condotta colposa del sanitario non lede il minore nemmeno nel diritto a che la sua famiglia sia pronta ad accoglierlo[6].

Malformazione cagionata da errori medici e malformazione naturale

Evidente poi la distinzione, secondo la Suprema Corte, tra la malformazione naturale, oggetto degli obblighi informativi e diagnostici del medico, e la malformazione cagionata da errori medici o trattamenti sanitari, che invece ben costituisce, come è ovvio, un illecito ampiamente risarcibile[7].

In merito a quest’ultima ipotesi la Cassazione ha riconosciuto la legittimazione ad agire del nascituro, leso prima della nascita e poi nato deforme per errore medico. In effetti, ciò configurerebbe un’ipotesi assolutamente coerente con la posizione della giurisprudenza di legittimità di cui al primo punto trattato, relativa al danno-conseguenza, rientrando così nel diritto, provvisoriamente riconosciuto al nascituro e subordinato all’evento nascita, del risarcimento del danno[8], azionabile iure proprio dopo la nascita.

L’evoluzione della giurisprudenza: il danno da nascita indesiderata della gestante e il regime probatorio

Sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite, si è sviluppato poi un intero filone avente ad oggetto il risarcimento del c.d. danno da nascita indesiderata della gestante e le sue caratteristiche.

Una recente pronuncia della Suprema Corte ha precisato alcuni punti in merito, con riguardo soprattutto alla ripartizione dell’onere probatorio. Infatti, “il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale[9].

L’onere probatorio può essere assolto anche tramite l’utilizzo di presunzioni[10], con una ricostruzione induttiva della probabile interruzione della gravidanza, desumibile da molteplici fattori: alcune sono inferenze induttive in base alle caratteristiche personali della gestante[11], altri sono elementi di prova fattuali[12].

Dunque la gestante deve provare che, ove avesse saputo delle condizioni patologiche del feto, avrebbe ragionevolmente abortito e che, dunque, dall’omessa osservanza degli obblighi professionali del medico proviene la nascita indesiderata e ingiusta, cagionata dalla colpa professionale. Tale onere probatorio può assolversi anche in via di probabilità statistica, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit[13], o anche per circostanze diverse ed atipiche[14].

Inoltre, si deve precisare che il diritto al risarcimento dei danni in favore della gestante può essere riconosciuto soltanto nel caso in cui l’aborto fosse legittimo (gravidanza prima dei novanta giorni ovvero gravidanza affetta da gravi patologie, che mettano in pericolo la salute della donna, oltre che del feto, anche oltre i novanta giorni)[15].

Nel caso in cui, invece, il nascituro presenti patologie tali da non ricorrere le condizioni dell’interruzione oltre i novanta giorni[16], non potendo ricorrere all’aborto non vi sarà alcun risarcimento dei danni da nascita indesiderata, in quanto la nascita non avrebbe potuto comunque essere evitata. La condotta medica, pur omissiva, sarebbe coerente con il precetto imperativo del divieto di interruzione di gravidanza fuori dai casi consentiti dalla legge[17].

Il danno, così delineato, costituisce conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del medico (più spesso, della struttura sanitaria) ex art. 1218 c.c.: al contrario dei danni che potrebbe lamentare il nascituro, cagionati (effettivamente) dalla condotta del medico, il quale non ha alcun rapporto con il minore, semplice fruitore-beneficiario delle prestazioni sanitarie[18], la gestante vanta un diritto al risarcimento dei danni direttamente derivanti dall’inadempimento di un’obbligazione da contratto, instauratosi al momento della richiesta di trattamento.

Il riconoscimento del diritto al risarcimento al padre e al nucleo familiare

Infine, secondo un recentissimo intervento della Cassazione, che ha sostanzialmente ripreso alcune pronunce rimaste isolate per un periodo di tempo[19], il risarcimento spetta non solo alla madre ma anche al padre, posto che il fascio di relazioni, diritti e doveri che caratterizzano una procreazione cosciente e responsabile nascono anche in capo al padre del minore e la prestazione medica, omessa o inesatta, è qualificabile come inadempimento contrattuale anche nei confronti di quest’ultimo[20].

Il padre deve pertanto considerarsi soggetto beneficiario della prestazione medica e dei doveri derivanti dalla professione.

Viene così definitivamente riaffermato il principio secondo il quale tutti i soggetti che compongono il nucleo familiare[21], e soprattutto quelli esercenti la responsabilità genitoriale, proprio perché da essa derivano numerosi diritti e doveri, nonché un regime di cura, assistenza, educazione e mantenimento, devono considerarsi legittimati al risarcimento del danno derivante da una nascita indesiderata, ingiusta o in condizioni di minorazione psico-fisica e grave patologia, in quanto saranno tali soggetti a prendersi cura, secondo gli obblighi di legge, del minore in condizioni di disabilità.


[1] Cass. 29.7.2004, n. 14488.

[2] E tuttavia, la condizione nella quale tale diritto verrebbe rispettato (la condizione di non nascita) al contempo rappresenterebbe uno stato ove tale diritto non è ancora sorto né è destinato a sorgere mai, in quanto non potrebbe spettare in capo ad un soggetto non ancora venuto ad esistenza. Sicché, l’ineliminabile contraddizione nel diritto a non nascere se non sani consisterebbe proprio in questo: la condizione “normale” di rispetto e tutela di questo diritto è possibile solo nei casi di non nascita, ove però tale diritto non è ancora sorto, poiché il suo titolare non esiste ancora come persona nel mondo giuridico. Al contrario, quando finalmente tale titolare viene ad esistenza, e dunque il diritto trova un padrone, in tale momento vi sarebbe, tuttavia, anche l’inevitabile lesione del diritto stesso, poiché la nascita del minore malato lo lederebbe. Non potrebbe esserci una condizione in cui il diritto spetta ad un titolare capace giuridicamente e contemporaneamente non sia stato violato.

[3] Sez. Un. 22.12.2015, n. 25767.

[4] Sembrerebbe qui trovare spazio, nel ragionamento della Suprema Corte, l’ammissibilità di un diritto al risarcimento dei danni subiti dal concepito, che agisca per la riparazione dopo la nascita, una volta acquisita la capacità giuridica, senza pericolo di congiurare un diritto adespota, che nasce solo quando già leso, in quanto il diritto a non essere leso potrebbe acquistarsi prima dell’evento nascita, salvo poi esserne condizionato, così come tutte le altre situazioni giuridiche provvisoriamente riconosciute al nascituro dall’ordinamento, ma tale diritto può farsi valere e di esso può chiedersene il ripristino solo dopo la nascita, una volta acquisita la capacità giuridica e cristallizzati i diritti prima provvisoriamente riconosciuti.

[5] Fuori luogo è qualsiasi comparazione con il c.d. “diritto a morire”, disposizioni anticipate di trattamento, tematiche del fine vita, diritto a rifiutare le cure. Nel diritto a morire, un bene della vita esiste, ed è l’autodeterminazione, la dignità umana, la libertà di disporre consapevolmente delle cure o di rifiutarle. Nel diritto alla non nascita, invece, si lamenta una condizione esistenziale che, comparata alla prospettiva di non essere mai nati, non può mai condurre a preferire la seconda, né alla configurabilità di una lesione e, pertanto, di un risarcimento del danno. Come a dire che un conto è porre termine alla propria vita con dignità e consapevolezza, un conto è lamentare di essere nati, preferendo non essere mai venuti ad esistenza, e lamentando un danno derivante dalla nascita. Ciò anche perché al nascituro manca qualsiasi volontà di autodeterminarsi, sicché il bene che prevale è necessariamente quello della vita. Peraltro, se un principio di autodeterminazione è stato leso, è di certo quello della madre gestante, che conferma l’orientamento della S. C. nel riconoscere il danno da nascita indesiderata alla paziente che non sia stata curata o informata adeguatamente circa le conseguenze della propria gravidanza.

[6] Semmai ciò potrebbe rientrare nel danno risarcibile da omesse informazioni mediche già riconosciuto in favore della sola madre, né vi può essere, secondo giurisprudenza, propagazione tra l’autodeterminazione della gestante e una autodeterminazione del minore ritenuta lesa: in realtà esso è privo di volontà e capacità naturale. Inoltre, l’autodeterminazione avrebbe ad oggetto, in questo caso, la facoltà legittima all’interruzione di gravidanza, che in realtà è riconosciuta alla gestante solo a condizioni rigorose di legge e, comunque, dopo un bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti operato dal legislatore. Non è predicabile alcun interesse del concepito, qui caratterizzato da un’alternativa assolutamente negativa (“non vita”).

[7] Evidente è la differenza dell’apporto causale del medico sotto il profilo eziologico.

[8] Secondo diversi orientamenti, riconducibile alla sfera contrattuale ex art. 1223 c.c., stante il fatto che il minore beneficia del contratto stipulato tra la madre e la struttura ospedaliera e, pertanto, può pretendere il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento, oppure alla sfera extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c..

[9] Cass. III, 31.10.2017, n. 25849.

[10] La giurisprudenza parla di “praesumptio hominis”, e non di “praesumptio facti”, sicché probabilmente deve intendersi come presunzione legale, sebbene relativa, e non presunzione semplice, poiché impostata su un ragionamento induttivo da un fatto noto, a ritroso, ad un fatto ignoto, e non invece mediante metodo deduttivo-presuntivo, dai fatti. Ciò significa non tanto che il fatto non possa essere provato con presunzioni semplici, ma semmai che tali elementi di prova abbiano dignità di presunzioni relative e non di presunzioni semplici.

[11] Pregresse manifestazioni di pensiero, propensione personale all’interruzione di gravidanza nel caso di deformità o gravi patologie, convinzioni personali e ideologiche.

[12] Pregressa amniocentesi e altri esami finalizzati a conoscere le condizioni di salute del feto.

[13]L’onere di provare tali elementi facoltizzanti e la volontà di interrompere, in loro evenienza, la gravidanza è posto a carico della madre ex art. 2697 c.c. (principio della vicinanza della prova), onere che può essere assolto dalla donna anche in via presuntiva, tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare (secondo il parametro del più probabile che non)” (Cass. Sez. Un. 22.12.2015, n. 25767).

[14] Consulti con altri medici, consulti frequenti, elementi che lascino ritenere che la salute del feto sia condizione per la donna imprescindibile, o ancora il caso di condizione psico-fisica patologica della donna stessa, o una salute instabile, che comporti il rischio ancor maggiore di problemi durante il parto e che, dunque, fa pendere per l’interruzione della gravidanza sia il personale convincimento della gestante, sia il parere medico per la salvaguardia della sua vita.

[15]Perché sussista il danno da nascita indesiderata occorre che l’interruzione della gravidanza sia stata all’epoca legalmente consentita (possibile accertamento delle rilevanti anomalie del nascituro e conseguente grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre)” (Cass. Sez. Un. 22.12.2015, n. 25767).

[16] È il caso, recentemente trattato dalla Suprema Corte, di un feto privo della mano sinistra, considerata condizione patologica non meritevole di giustificare un aborto oltre il terzo mese (Cass. III, 11.4.2017, n. 9251).

[17] E della sua rilevanza penale.

[18] La cui natura tuttavia, ut supra, è controversa.

[19] Cass. Sez. III, 2.10.2012, n. 16754.

[20]Considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli” (Cass. III, ord. 5.2.2018, n. 2675).

[21] Vi sono altre pronunce che riconoscono una posizione simile a fratello e sorella del nascituro: “La responsabilità del medico per mancata diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata sussiste, oltre che nei confronti della madre, anche in quelli del padre e dei fratelli e sorelle del neonato, che sono tutti soggetti protetti dal rapporto contrattuale intercorrente tra il sanitario e la gestante” (Cass. Sez. III, 2.10.2012, n. 16754).

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