Ricercatore inventore: quando spetta l’equo compenso e la titolarità delle invenzioni

in Giuricivile, 2018, 5 (ISSN 2532-201X)

È opinione condivisa che, in ogni paese industrializzato, la ricerca costituisca un settore strategico dell’economia nazionale, facendo da “volano” alla relativa crescita e trasferendo alle imprese le tecnologie essenziali affinché le stesse possano essere competitive nel “mercato globale”.

La presa d’atto, da parte del legislatore italiano, dell’importanza della ricerca pubblica come fattore di sviluppo del “sistema paese” ha condotto, nell’ottobre del 2001, alla riforma, promossa dal Governo in carica al tempo, nota come “Pacchetto Tremonti” ( Legge 383/2001).

Con siffatta riforma il legislatore, mosso dall’obiettivo di “alimentare la spinta economica”, ha introdotto una diversa disciplina in materia di appartenenza dei risultati della ricerca condotta in ambito universitario o all’interno degli enti pubblici di ricerca, assegnandone i frutti in capo ai loro inventori in luogo degli enti istituzionali, come prevedeva, invece, la normativa precedente.

Dall’equo compenso alla titolarità delle invenzioni

Giova, infatti, ricordare che, fino a prima di detto intervento riformatore, alle invenzioni dei ricercatori universitari si applicavano, in quanto (pubblici) dipendenti, le regole contenute nell’art. 34 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 in base alle quali la titolarità delle invenzioni apparteneva all’Amministrazione Pubblica.

A quest’ultima, quindi, sarebbero spettati i diritti sui trovati realizzati dal dipendente adibito alla ricerca mentre ove non fosse stata prevista per l’attività inventiva una retribuzione adeguata, l’ente universitario sarebbe stato tenuto a versare al ricercatore-inventore, a titolo di ”equo premio”, un compenso, rapportato anche al valore del bene creato e determinabile da ciascuna Amministrazione con proprio statuto.

Sennonchè detto quadro normativo di riferimento, limitatamente alle invenzioni conseguite da dipendenti pubblici adibiti a compiti di ricerca, è mutato con l’emanazione della menzionata Legge 383/2001 la quale, inserendo nella c.d. Legge invenzioni l’art. 24-bis, poi sostituito dall’art. 65 c.p.i. , ha ribaltato l’impostazione fino a quel momento seguita, stabilendo come principio generale quello secondo il quale, pur svolgendo attività di lavoro subordinato, è al ricercatore e non all’ente universitario, in qualità di datore di lavoro, che spettano i diritti patrimoniali sul trovato conseguito in costanza del rapporto di lavoro.

Per quanto attiene, poi, alle categorie dei dipendenti interessate dal nuovo regime giuridico, il 1° comma dell’art. 65 c.p.i prevede che ad esso sono soggetti i trovati brevettabili realizzati dai ricercatori nell’ambito di un rapporto di lavoro intercorrente con un’università o con una pubblica amministrazione“avente tra i suoi scopi istituzionali finalità di ricerca”.

La nozione di ricercatore

Si è posto, dunque, il problema di individuare quali figure possano essere ricondotte all’interno della categoria su menzionata. Più precisamente, si reputa che la nozione di ricercatore non si limiti ad indicare soltanto il ricercatore in senso stretto, ma vada, invece, estesa e riferita a tutti i dipendenti fra le cui mansioni è possibile annoverare – insieme all’attività didattica e di studio in generale – anche lo svolgimento di attività di ricerca, quali i professori ordinari ed associati da una parte; i tecnici addetti alla ricerca scientifica e tecnica che partecipano all’attività di ricerca con mansioni non puramente esecutive dall’altra, restando esclusi dalla previsione legislativa i tecnici esecutivi e i dipendenti amministrativi delle strutture di ricerca.

È stato, inoltre, fino a tempi recenti, controverso se potessero essere interessati o meno dall’applicazione della nuova disciplina anche i ricercatori c.d. “parasubordinati “, ossia quelli legati all’Università da forme di collaborazione diverse da un rapporto di lavoro dipendente come, ad esempio, contratti di ricerca individuale, borse di studio post-laurea o post-dottorato e dottorandi.

Rispetto a questi soggetti autorevole dottrina ha ritenuto che l’art. 65 c.p.i. non possa essere applicato, giacché gli stessi devono essere considerati collaboratori autonomi, i quali forniscono un contributo intellettuale determinante ai fini inventivi, operando, però, al di fuori delle direttive e dei programmi di ricerca determinati dal datore di lavoro (ossia agiscono senza vincolo di subordinazione); inoltre, non essendo assunti con contratti di pubblico impiego, non appartengono al personale universitario dipendente, al quale sembrerebbe riferirsi esclusivamente l’art. 65 c.p.i. nel suo primo comma. Di conseguenza, varrebbe in questa ipotesi la disciplina generale in materia di contratti d’opera intellettuale in forza della quale le parti interessate possono accordarsi negozialmente sull’appartenenza dell’invenzione e, ove tale accordo non venga raggiunto, la stessa apparterrà all’Università nei limiti dello scopo del contratto tra questa e l’interno riconoscendo, nello stesso tempo, a quest’ultimo il diritto ad un compenso, la cui misura sarà indicata nel contratto stipulato eventualmente in precedenza.

L’equo compenso per l’inventore parasubordinato: una importante pronuncia di merito

Sul diritto al riconoscimento all’equo compenso in favore dell’inventore parasubordinato è stata la giurisprudenza che ha “prodotto diritto”. È accaduto infatti che una ex tesista presso l’Università di Firenze, riconosciuta, in un precedente giudizio del 2010, co-autrice, all’epoca della stesura della tesi, di un trovato (un polipeptide chiamato Scramble) che consente di diagnosticare precocemente la sclerosi multipla, poi brevettato dall’Università stessa, abbia chiamato in causa i propri docenti supervisori, coinvolti nella sperimentazione e anch’essi riconosciuti co-autori della scoperta, al fine di ottenere dal tribunale una pronuncia che determinasse sia il corrispettivo a lei dovuto in qualità di inventrice, a titolo di equo premio, dall’Università, unica titolare del brevetto, sia formulando una richiesta di risarcimento dei danni da lei subiti sia sotto il profilo patrimoniale (individuabile nei mancati guadagni) sia ma con riferimento alla c.d. perdita di chances, intesa come il danno morale conseguente al riconoscimento del suo valore nell’ambito della comunità scientifica e delle relazioni professionali e non.

A conclusione del procedimento il Collegio ha constatato non soltanto che, all’epoca dei fatti di cui è causa, la prestazione della laureanda si inseriva nell’ambito di un progetto di ricerca programmato (rectius commissionato), già in itinere quando ha iniziato a prendervi parte e successivamente proseguito dai professori convenuti, svolto nelle strutture e con il supporto materiale dell’università fiorentina ma, altresì,che l’attività da questa prestata si svolgeva nella massima autonomia vale a dire, usando le parole della sentenza, che la posizione della ricorrente non poteva essere assimilata, in quanto tesista, a quella di un dipendente (pubblico). Per quanto riguarda la quantificazione sia dell’equo compenso sia del risarcimento dei danni da questa lamentati, il tribunale di Milano ha accolto le domande della parte attrice, compiendo un’operazione interpretativa basata sull’apprezzamento della ricorrente alla stregua di un ricercatore universitario.

Ai fini della quantificazione del compenso in questione, i giudici milanesi, hanno inoltre rilevato che il valore dell’invenzione vada determinato non soltanto con riferimento alle possibilità (attuali) di sfruttamento economico del trovato, ma anche avendo riguardo al ritorno d’immagine vale a dire all’interesse che la scoperta può suscitare nel mondo accademico e alle ripercussioni che essa può avere nella comunità scientifica, attraendo così tanto interesse al punto da incentivare l’afflusso di investimenti e da condizionare anche la posizione professionale dell’autore del trovato.

Alla luce di quanto esposto, dunque, la sentenza in commento rappresenta il primo passo verso l’attuazione di uno degli obiettivi auspiati dalla c.d riforma Tremonti, consistente nella trasformazione delle invenzioni in progetti concreti e dunque nell’alimentare la spinta economica nazionale attraverso l’attribuzione della titolarità dell’invenzione e dei relativi diritti al soggetto che l’ha realizzata.

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