1) La revocazione di diritto del testamento ex artt 687, comma 1, cc e 277 cc
Come è noto, l’art. 687 c.c. stabilisce che le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di avere figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente legittimo del testatore, benché postumo, o legittimato o adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio naturale.
La ratio del legislatore è quella di far prevalere il figlio che sopravviene rispetto al testamento, antecedente ad esso e perciò di esso inconsapevole. I casi che vi si prevedono sono molteplici e dispongono la revocazione anche nel caso ove sopravvenga il riconoscimento del figlio naturale successivamente alla redazione del testamento [1].
In secondo luogo, l’art. 277 statuisce al primo comma che la sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli stessi effetti del riconoscimento. Infatti, la sentenza di accertamento della filiazione naturale fa sorgere a carico del genitore, dal momento in cui è emanata, tutti i doveri propri della genitorialità, poiché è in quel momento che sorge il legame parentale.
Il riconoscimento comporta pertanto, da parte del genitore, l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi (così l’art. 261 c.c.). Dunque è dal momento della sentenza che il genitore acquista diritti e doveri nei confronti del figlio naturale, così come il sorgere del legame di parentela, e prima vi è soltanto un nesso biologico, giuridicamente ininfluente. Infatti, il riconoscimento e la sentenza di paternità non costituiscono affatto l’ufficializzazione nella forma di una realtà sostanziale già presente e operante, ma esprimono anzi una modifica sostanziale delle condizioni parentali, familiari e successorie, un esteso mutamento delle circostanze giuridiche e dei rapporti reciproci.
In ragione del combinato disposto dei due articoli, per dottrina prevalente e giurisprudenza costante di legittimità[2], è pacifico che la sentenza avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale della paternità naturale equivale al riconoscimento del figlio e pertanto produce, “anche rispetto al testamento”, i suoi stessi effetti. A conferma di tale ricostruzione, soccorrono opinioni pressoché costanti.
Nel sistema del diritto di famiglia, infatti, l’istituto della revoca di diritto del testamento (nel caso di sopravvenienza di figli o riconoscimento del figlio naturale) ha fondamento nella presunta volontà del testatore che, ove avesse saputo dell’esistenza e della sopravvenienza di figli, avrebbe con ragionevole probabilità disposto diversamente delle proprie sostanze[3], ossia (anche) in loro favore, sia nel caso di riconoscimento sia nel caso di dichiarazione giudiziale successiva alla redazione del testamento[4].
La coincidenza tra le conseguenze della dichiarazione giudiziale e quelle del riconoscimento sono il risultato, quindi, di una valutazione obiettiva, in forza della quale al sopravvenuto riconoscimento non può non essere parificata una sopravvenuta dichiarazione giudiziale di paternità[5]. L’art. 687 c.c., come appare evidente, si fonda sulla modificazione della situazione familiare che, incontestabilmente, si realizza non solo quando il testatore abbia riconosciuto un figlio naturale ma anche quando, nei confronti del de cuius nel frattempo venuto a mancare, sia stata esperita l’azione di accertamento della filiazione naturale, e vittoriosamente[6], poiché solo con la sentenza di paternità mutano i diritti successori.
In ragione delle considerazioni appena fatte, la giurisprudenza precisa che va revocato anche il testamento di chi sapeva dell’esistenza del proprio figlio naturale non riconosciuto al quale, solo dopo la morte del testatore, sia stato attribuito, a seguito di azione giudiziaria vittoriosamente esperita, il relativo status formale[7], che ha modificato la situazione dei diritti successori, in relazione alla quale il de cuius aveva formulato le sue ultime volontà[8].
Dal combinato disposto degli artt. 687 e 277 c.c., si determina così la revocazione di diritto del testamento pubblico anche ove fosse conosciuta l’esistenza di un discendente biologico prima non riconosciuto, ove poi intervenga riconoscimento o dichiarazione giudiziale di paternità, e ciò equivale alla “sopravvenienza” di figlio.
Giova ricordare che, in questa zona grigia che è la procreazione fuori dal matrimonio e gli effetti che essa ha sulla “sopravvenienza” di figli naturali che ottengano il riconoscimento, distinguere quale situazione sia assoggettata al regime della revocazione di diritto e quale altra invece possa rientrare nella più limitata lesione di legittima è fondamentale non soltanto perché la prima ipotesi comporterebbe lo stralcio del testamento, con conseguente successione ab intestato, mentre la seconda la sua sola riduzione; è fondamentale approfondire questa problematica anche perché l’azione per la revocazione del testamento ha natura meramente dichiarativa, ed è imprescrittibile[9], con evidenti ripercussioni sulla tutela più adatta e più conveniente.
2) Sulla ritenuta non operatività dell’art 687, comma 1, cc nel caso di figlio conosciuto ma volutamente ignorato dalle disposizioni testamentarie
Opinioni avverse all’orientamento appena detto sostengono, invece, che il figlio riconosciuto (dal genitore o dal giudice) dopo la scrittura del testamento non possa ottenerne una sentenza di revocazione in quanto il de cuius, testando senza tener conto del figlio ed estromettendolo completamente, avrebbe tacitamente espresso la volontà di escluderlo dall’asse ereditario, e che perciò l’unica azione esperibile, una volta intervenuta dichiarazione giudiziale di paternità e, quindi, nascita del legame di parentela e dei diritti di legittimario, sarebbe l’azione di riduzione a tutela della quota legittima. L’unica eccezione a tale avversa ricostruzione è, appunto, quella del testatore inconsapevole dell’esistenza del discendente biologico, in una interpretazione restrittiva della norma.
A sostegno di questa tesi, si collocano agevolmente alcune considerazioni: finché non vi è riconoscimento non sussiste legame parentale, e pertanto, non essendo legittimario, il non riconosciuto potrebbe succedere solo se erede testamentario.
Inoltre, sebbene vi sia il fruttuoso esperimento dell’azione per il riconoscimento della paternità, dalla quale nascerebbero i diritti di legittimario in capo al figlio, ed essi siano lesi dal testamento, il fatto che il genitore conoscesse dell’esistenza di un discendente e non lo abbia tenuto in considerazione al momento della redazione suggerisce che la volontà testamentaria non sia stata, come da art. 687 c.c., in qualche modo incompleta o inconsapevole della sopravvenienza di figli, ma che anzi l’abbia considerato e volutamente escluso. In tal caso resterebbe al di fuori dell’ambito di applicazione della revocazione di diritto e si collocherebbe più coerentemente nella fattispecie del genitore che, ledendo la quota legittima, si espone all’azione di riduzione.
Il discorso si avvalora e trova conferma se il de cuius aveva avuto contezza non solo dell’esistenza del figlio naturale, ma addirittura del processo da costui intentatogli per il riconoscimento della paternità. Ciò costituirebbe il segno che non solo quando il testamento è successivo alla domanda giudiziale, ma anche nel caso sia precedente e non successivamente sostituito, il genitore abbia agito dolosamente (o perlomeno coscientemente) alla preterizione. Non potrebbe quindi ritenersi esistente, come ratio dell’art. 687, la volontà di disporre diversamente ove avesse saputo.
Chi sostiene questa tesi di solito considera invece applicabile a questi casi il terzo comma dell’articolo 687 c.c., che esclude l’operatività della revocazione di diritto ove il testatore abbia provveduto all’eventualità che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi. A questo punto, è da chiedersi se il testatore che abbia avuto coscienza del figlio naturale e niente abbia poi disposto in suo favore possa essere considerato un testatore che abbia “provveduto” nel caso di sopravvenienza.
In breve, “provvede” colui che, venuto a conoscenza di un figlio, nulla ha fatto in merito[10]? Oppure, al fine di evitare la revocazione, considerandola invece solo lesione di legittima, è necessaria una previsione esplicita del de cuius che lo escluda?
E in tal caso, basterà escluderlo sic et simpliciter o bisognerà escluderlo “anche nell’eventualità che ottenga il riconoscimento giudiziale dopo la morte”?
In quale caso può ritenersi che il testatore abbia sufficientemente provveduro, sì che, dopo la sentenza di paternità, lo si consideri testamento non revocabile, ma soltanto impugnabile per lesione di legittima?
In generale, in quale situazione può ritenersi che il testatore abbia “provveduto” sulla sopravvenienza di figli, e cosa avviene quando, sopravvenuto nel frattempo il “figlio”, il testatore non agisce né in favore né con sfavore nei suoi confronti?
3) Alcuni chiarimenti in merito alla preterizione di figlio
Ai fini della norma in esame (art. 687 c.c. e suo tenore letterale), rilevano “soltanto quei figli e discendenti la cui preterizione darebbe luogo alla riduzione delle disposizioni testamentarie per lesione di legittima e che sono d’altra parte eredi ab intestato domino”[11].
Il significato con cui il testatore ha utilizzato il termine “figli” è fatto palese dalla stessa norma in esame: infatti, essa menziona come cause di revocazione la sopravvenienza di figlio o discendente che sia: legittimo, legittimato, adottivo o naturale riconosciuto; sicché appare evidente che soltanto questi, tassativamente individuati, sono i figli che debbono mancare o essere ignorati al tempo della confezione del testamento.
Come da giurisprudenza più risalente[12], poi, laddove si fa riferimento alla mancanza o ignoranza di figli al tempo del testamento, nel termine “figli” non si possono ricomprendere persone che quello stato non abbiano (e così in particolare i non riconosciuti). Sicché, anche se non era “ignorato” nella sua esistenza, è pur vero che, all’epoca della scrittura del testamento, un figlio con tale status “mancava”!
Pertanto la disposizione non andrebbe letta nel dover il de cuius ignorare di avere discendenti biologici, quanto piuttosto all’ignoranza o mancanza di avere figli legittimi, legittimati, adottivi o naturali riconosciuti, ossia discendenti con un ufficiale status giuridico e un legame di parentela operante, tale da far parte della famiglia e quindi tale da avere a che pretendere.
Del resto, un testatore potrebbe non aver incluso nel testamento colui che sospettava essere proprio discendente biologico non perché volesse escluderlo dalla successione, ma più probabilmente perché, in quanto non riconosciuto e senza legame di parentela, era convinto non avesse nemmeno la possibilità di succedergli.
E tuttavia, in tal caso può considerarsi che il testatore abbia “provveduto” alla situazione, o l’ha piuttosto solo pretermessa senza decidere, con conseguente applicazione della revoca?
È anche vero che la norma che regola la situazione del discendente biologico non riconosciuto è quella sul riconoscimento: solo con esso egli può dirsi figlio. Di conseguenza, la mancanza di figli richiesta al testatore non deve consistere in “assenza di soggetti da lui biologicamente generati”, ma in “mancanza di figli”, con ciò intendendosi soggetti che al contempo siano da lui generati ma anche (gia!) giuridicamente a lui legati da un vincolo di parentela[13].
Per i figli non riconosciuti ciò non è ancora avvenuto, essendo il riconoscimento l’unico evento che può far mutare la composizione dei legami parentali e far venir meno il testamento. Non a caso la disposizione dell’art. 687 c.c. si riferisce alle ipotesi in cui, dopo la redazione del testamento, si verifichi un fatto nuovo, che può consistere o in un evento naturale quale la nascita, ovvero in un mutamento giuridico di un precedente status, quale è quello del figlio naturale che venga riconosciuto[14]. E il momento di tale mutamento prescinde dal fatto che il testatore abbia saputo o meno di avere altri figli.
Alla luce di questo orientamento di sintesi, la giurisprudenza sancisce che va revocato il testamento di chi sapeva dell’esistenza del proprio figlio naturale non riconosciuto, e al quale dopo la morte del testatore sia stato attribuito, a seguito di azione giudiziaria vittoriosamente esperita, il relativo status formale[15]. Per di più, anche il sopravvenuto riconoscimento di figlio naturale, la cui esistenza fosse già nota al testatore al tempo della redazione del testamento, è causa di revoca di diritto delle disposizioni testamentarie[16].
Infine, nel caso che il testatore sapesse dell’esistenza di un legame di sangue, e avesse redatto con tale consapevolezza il testamento, chi scrive ritiene che tale disposizione debba essere egualmente revocata di diritto, anche ove poi il figlio naturale venga riconosciuto, in quanto solo dopo tale evento sopravviene un figlio e muta la famiglia, creando un fascio di diritti e doveri reciproci prima inesistente.
Prima di tale sentenza, il de cuius non “aveva” figli. A conferma di ciò, copiosa giurisprudenza espressamente sostiene come la dichiarazione giudiziale di paternità sia equiparabile al riconoscimento volontario del figlio naturale “anche ai fini della norma in esame”[17].
4) Sulla non applicabilità dell’art. 687, terzo comma, c.c.
Il terzo comma dell’art. 687 c.c. sancisce che la revocazione non ha luogo quando il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli.
Chiarito che il figlio naturale, che abbia ottenuto la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del de cuius successivamente alla redazione del testamento, si trova nel pieno ambito di applicazione dell’art. 687 primo comma, c.c. è necessario esaminare se può invece trovare applicazione la previsione dell’art. 687 terzo comma c.c.. Occorre chiedersi allora quali condotte del testatore potrebbero determinare un “provvedere” alla sopravvenienza, evitando così la revocazione.
Se dunque è certo che il figlio naturale che abbia ottenuto sentenza di paternità successivamente alla redazione del testamento possa invocarne la revoca anche ove il genitore avesse saputo della sua esistenza, non è invece certo che la revoca sia applicabile ove il genitore, successivamente a questi eventi, sia ancora in vita.
In tal caso, se dopo la sentenza provvede con un nuovo testamento, potrà tutelare o meno il figlio naturale (ora riconosciuto), che a seconda delle disposizioni succederà quale erede testamentario ovvero si troverà ad essere legittimario pretermesso, e la sua tutela sarà quella dell’azione di riduzione. La questione si pone in termini evidentemente più complessi se il testatore assiste alla “condanna”, in sede di procedimento per la dichiarazione di paternità, e nulla faccia in merito al figlio.
Se non provvede con nuovo testamento, un contegno omissivo può equivalere ad un’implicita conferma del testamento e della “non volontà” di tutelare il figlio?
Una condivisa tesi in dottrina vorrebbe che il termine “provveduto” sia da intendersi come “preveduto”, nel senso che “provveduto” può avere non soltanto il significato di un provvedimento espresso, ossia di una specifica statuizione all’interno del testamento che attribuisca beni ereditari al figlio eventualmente sopravvenuto; al contrario, “preveduto” può avere il significato anche di “preveduto”, ossia di semplice “previsione di tale eventualità”, anche ove ciò non si traduca in verbo scritto nel testamento.
Tale tesi, ribadita da alcune pronunce[18], ha dato adito ad una proliferazione di usi (ed abusi) della menzione di “preveduto”. Spesso si è fatto riferimento a tale locuzione come sinonimo di “previsione mentale”, “consapevolezza”, “scienza”. Basterebbe così aver previsto psichicamente l’esistenza di un legame di sangue con un eventuale discendente, ancorchè poi non manifestato nelle ultime volontà, per avervi provveduto.
5) Conclusioni: la revocabilità del testamento per dichiarazione giudiziale della paternità cui non sia seguito altro testamento
Non si ritiene di poter condividere gli assunti fatti propri da queste tesi, peraltro assai estremizzati. Più ragionevolmente, e in un’interpretazione restrittiva del termine provvedere, si condivide l’orientamento assunto in epoca risalente e finora mai contraddetto della Suprema Corte.
Se provvedere può essere inteso anche come prevedere, allora la “previsione” assume il carattere di predisposizione, ossia di adozione di una scelta: si prevede quando si fa qualcosa in merito ad un problema, quando si reagisce all’evento, quando si opera nel mondo del diritto per realizzare un certo intento, o quando si opera una qualche previsione a fronte di un’eventualità.
Ciò avviene quando il testatore preveda e predisponga un assetto di interessi chiaro e inequivocabile, predisponga cioè dei criteri di scelta che perlomeno guidino l’interprete, nell’eventualità della sopravvenienza di figli, nella lettura del testamento. Tale previsione indica comunque un atteggiamento non meramente passivo, ma positivo.
Infatti, se anche è vero che il termine “provvedere” non richiederebbe che nel testamento ci sia necessariamente una disposizione attributiva di beni ereditari in favore di eventuali figli sopravvenienti[19], è però pur vero che, ai fini della salvezza del testamento, è necessario che dallo stesso risulti in maniera certa, esplicita e inequivoca che il testatore abbia previsto gli eventi dell’esistenza o della sopravvenienza di figli, e come voglia che, per tale eventualità, ci si comporti.
Non è quindi sufficiente una mera percezione intellettiva dell’aver generato un figlio[20], peraltro quasi mai dotata di per sé di certezza scientifica, ma è necessaria una statuizione testamentaria, diretta o indiretta, che si riferisca anche genericamente all’ipotesi. Secondo risalente giurisprudenza e condivisa dottrina, per escludere la revocazione devono potersi rilevare due elementi positivi:
- (i) la previsione della possibile sopravvenienza di figli, chiara e inequivoca, che disponga qualcosa nel caso di tale eventualità;
- (ii) una manifestazione di volontà espressa ed esplicita con la quale il de cuius dichiari di voler mantenere ferme le formulate disposizioni in tale circostanza[21][22].
La pendenza della domanda di paternità al momento della redazione o la successiva condotta omissiva sono circostanze prive di rilevanza, giacché il provvedere/prevedere della sopravvenienza di figli deve risultare dal testamento[23]. La semplice omissione del figlio non può essere considerata un’opportuna, inequivocabile e chiara “previsione” di escluderlo, perché in tal caso il testamento semplicemente non prende posizione. Inutile è la circostanza del sapere o sospettare dell’esistenza di legami di sangue, se poi non vi si dà seguito nelle ultime volontà.
Alla luce di questo orientamento, condiviso dalla più recente giurisprudenza di merito delle Corti di appello[24], una massima sulla fattispecie in esame può essere sintetizzata nei termini che seguono: opera la revocazione sul testamento redatto in epoca antecedente al riconoscimento giudiziale della filiazione naturale, anche quando vi fosse consapevolezza di figli procreati, e anche quando, intervenuta la sentenza di paternità, il testatore nulla abbia provveduto in merito alla sopravvenienza di figli, non potendo tale contegno negativo valere come implicita conferma del testamento, che appare ormai superato.
In quanto sopravveniente in uno status giuridico ufficiale di “figlio”, e in quanto il testamento nulla abbia provveduto, si deve procedere alla revocazione, con conseguente successione ab intestato.
6) Alcuni spunti processuali sull’azione per la revoca del testamento e le eventuali domande riconvenzionali di riduzione
Come non bastasse, quella di riduzione è un’azione che ha natura strettamente personale, e come tale esperibile da parte dei soli legittimari lesi. Secondo tale salda linea di pensiero della Suprema Corte[25], l’azione di riduzione spetta al solo legittimario leso, e soltanto lui può esperirla, contro i soli destinatari delle disposizioni riducibili, solo cioè contro coloro che hanno beneficiato delle disposizioni testamentarie illegittime[26]. Giova ribadire, infine, che il difetto di legittimazione attiva e passiva è un’eccezione rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità[27].
Di conseguenza, il convenuto erede testamentario/legittimario che abbia beneficiato del testamento oggetto della domanda di revoca del sopravvenuto figlio naturale può chiedere di certo il rigetto delle domande attoree, ma di certo non può chiedere che al posto della revoca si operi l’azione di riduzione.
Non soltanto il beneficiario di un testamento non può chiedere che le disposizioni siano ridotte in favore di altro soggetto, per via del carattere personale dell’azione, ma a maggior ragione non può invocare la riduzione di una disposizione testamentaria nei confronti di un legittimario pretermesso, che non ha affatto beneficiato del testamento in causa. Non soltanto incorrerebbe quindi nel difetto di legittimazione attiva, ma anche in quello di legittimazione passiva.
Sicché, se il (divenuto) legittimario pretermesso chiede la revoca del testamento, la controparte non potrà legittimamente invocare, neanche in via gradata, la (ad essa) preferibile azione di riduzione.
[1] Benchè nella normalità dei casi si guardi, infatti, alla nascita (figlio postumo) come momento di sopravvenienza, qui invece il figlio è nato prima della redazione del testamento, ma è riconosciuto successivamente, e dunque la sua “sopravvenienza” equivale a quella del nascituro che solo dopo il testamento sopravvenga, appunto, in qualità di figlio. Non a caso il legislatore utilizza un generico termine di “sopravvenienza” e non soltanto di nascita biologica.
[2] Ex multis, Cass. I, 14.5.2003, n. 7386.
[3] Cass. 29.1.1970, n. 187, GC 1970, I, 703; FI, 1970, I, 1124; Cass. 6.10.1954, n. 3298, GI, 1955, I, 1003 con nota Schlesinger; A Napoli 12.8.1953, ivi, 206 con nota Trabucchi; in dottrina, Gangi, 4, 395 e ss; Azzariti, 11, 600; Giannattasio, 10, 345.
[4] Cfr. per tutti: in dottrina, Caramazza, Delle successioni testamentarie, p. 949; Guarnirei, La revoca del testamento e della donazione per dichiarazione giudicale di paternità o maternità naturale, RIV DC, 1984, II, 485 e ss; Cicu, 2, 159; in giurisprudenza Cass. 9.3.1996, n. 1935; Trib. Chiavari, 22.11.1966, in Riv. Dir. Matr. 1967, p. 633.
[5] Carnevali, Delle successioni testamentarie, Dell’istituzione di erede e dei legati, pag. 201.
[6] Trib. Reggio Emilia, 13.10.2006, Il Merito 2007, 5 40; Trib. Catania, 12.2.2001, Giur. Merito 2002, 39.
[7] Trib. Catania, 12.2.2001, Giur. Merito 2002, 39.
[8] Trib. Salerno n. 922/2007.
[9] De Marchi, 6, 477.
[10] Perlomeno, nulla con riguardo alle proprie sostanze (nel testamento) atto a favorire (chiamato all’eredità) o ad escludere (lesione di legittima) il figlio, ma piuttosto rimanendo in una zona grigia nella quale non si comprende se si rientri nella lesione di legittima o nella preterizione totale di figlio, e quindi nella revocazione.
[11] Talamanca, 12, 211.
[12] Cass. II, 10.5.1967, n. 952.
[13] Qualunque ne sia la genesi: adozione, nascita in costanza di matrimonio, riconoscimento.
[14] Cass. II, 1.3.2011, n. 5037; A Cagliari 28.6.1993, RGSA, 11, con nota Zuddas, Sopravvenienza di figli e revocazione di disposizioni testamentarie.
[15] Trib. Catania, 12.2.2001, Giur. Merito 2002, 39.
[16] Trib. Lucera 18.12.1964, C BLP, 1965, 226; Trib. Caltanissetta 2.9.1950, FI, 1951, I, 378 con nota Azzariti; Caramazza, 8, 492.
[17] Cass. 9.3.1996 n. 1935, FI, 1966, I, 1229; Trib. Catania 12.2.2001, D Fam, 2001, 1096; Guarnirei; Cassia; Trib. Reggio Emilia, 13.10.2006, Il Merito 2007, 5 40; Trib. Catania, 12.2.2001, Giur. Merito 2002, 39.
[18] Trib. Reggio Emilia 13.10.2006; Trib. Cosenza n. 213/2006.
[19] Talamanca, 12, 222.
[20] Come già detto ai punti precedenti, anche in tal caso si è ammessa revoca secondo la consolidata giurisprudenza del Supremo consesso.
[21] Ad es.: “Queste volontà resteranno le stesse anche nel caso di sopravvenienza di figli”, in tal caso ledendo pur sempre la legittima, ma senza meritare revoca.
[22] Cass. 29.1.1970 n. 187 Azzarini 11, 601; Cass. 18.3.1961, n. 612; Cass. 22.8.1956, n. 3146, GC 1957, I, 1116 con nota Arienzo; Cass 7.7.1962, n. 1770.
[23] Peraltro, le disposizioni del testamento hanno forme solenni, e non possono essere integrate, come negli atti dell’autonomia privata, da condotte esterne, comportamenti concludenti o contesti serbati al di fuori dello scritto. Se così non fosse, il testamento potrebbe arricchirsi di significati anche dopo la sua redazione, fino alla morte del de cuius. Trattasi di un atto solenne e rigidamente vincolato a forme puntuali dal legislatore e le sue norme non possono essere interpretate estensivamente, attribuendo rilevanza a ciò che non fa parte delle ultime volontà.
[24] Ex multis, C. App. Salerno, n. 878/2017.
[25] Cass. II, 7.10.2005, n. 19527; Cass. 26.1.1970, n. 160; Cass. 22.10.1975, n. 3500.
[26] Cass. II 13.12.2005, n. 27414; Cass. II 25.11.1997, n. 11809.
[27] Cass. Sez. Un. 16.2.2016, n. 2951; Cass. III 5.7.2004, n. 12286 in Mass. Giur. It. 2004.