Responsabilità per debiti fiscali della società cancellata dal Registro delle Imprese

in Giuricivile, 2018, 5 (ISSN 2532-201X)

L’articolo 28 del D. Lgs. n. 175 del 21 novembre 2014 ha innovato la disciplina tributaria in materia di debiti fiscali delle società estinte.

L’intervento normativo è consistito principalmente nel differimento a fini fiscali e previdenziali degli effetti dell’estinzione societaria al termine del quinto anno successivo alla domanda di cancellazione.

Questo articolo offre una sintesi del tema su cui si è innestata la riforma, affrontandone i profili critici, emersi anche in sede giurisprudenziale, ad ormai tre anni dalla sua entrata in vigore.

La responsabilità di soci e liquidatori

Occorre in prim’ordine richiamare i riferimenti normativi della questione in esame.

Ferma restando la definitiva estinzione della società una volta avvenuta la sua cancellazione dal RI, va infatti premesso che gli articoli 2495 del c.c. e 36 del Decreto legislativo 29 settembre 1973, n. 602 definiscono le responsabilità dei soci e del liquidatore della società per debiti da questa non soddisfatti in sede di liquidazione rispettivamente,

  • (i) per i soci, nei limiti di quanto da questi riscosso in base al bilancio finale di liquidazione[1], e,
  • (ii) per il liquidatore, invece, in quanto il mancato soddisfacimento dei debiti fiscali è dipeso da sua colpa[2].

Presupposto generale per attivare tali responsabilità collaterali di soci e/o al liquidatore è il preliminare accertamento definitivo in capo alla società cancellata dal RI della sussistenza del credito non soddisfatto dalla società. In mancanza di tale elemento, la pretesa nei confronti dei soggetti suindicati è infondata.[3]

Risulta quindi evidente che per attivare le responsabilità di soci e liquidatori è necessario che la società sia ancora esistente, ancorché cancellata, quanto meno affinché sia oggetto di una verifica fiscale conclusa con avviso di accertamento: se la società è invece già estinta, non può essere accertata la condizione preliminare che attiva le responsabilità dei soci e liquidatori previste dalla legge (i.e. la conclusione di una verifica fiscale a carico della società) e, dunque, al creditore è preclusa ogni forma di soddisfazione del suo credito.[4] [5]

Ciò chiarito, va ancora premesso che in sede civilistica siffatto problema è stato affrontato e risolto efficacemente dalla Corte di Cassazione a S.U. con le sentenze gemelle del 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, le quali hanno ricostruito le conseguenze dell’estinzione secondo un meccanismo di successione ereditaria sui generis nei debiti sociali: “deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi, è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio…” dato che, prosegue la Corte, “il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori” [6] [7] [8] [9].

Effetti processuali a seguito dell’estinzione di società

Quanto agli effetti processuali, emersero da subito alcune criticità.

È vero, infatti, che l’estinzione determina anche in capo alla società l’incapacità di stare in giudizio: pertanto, fatta constatare nei termini previsti dal codice di rito, essa provoca, al pari della morte della parte-persona fisica, l’interruzione del medesimo giudizio e la sua prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società (110 c.p.c.).

Per altro verso, affermano i giuidici, quando l’evento interruttivo non fosse comunicato nei modi e tempi di legge, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve avvenire o dirigersi, a pena di inammissibilità, dai soci o nei loro riguardi, non potendo a tal fine ritenersi stabilizzata la posizione di una società estinta, quantomeno non oltre la conclusione della fase di giudizio che l’ha vista estinguersi.

I giudici rifiutarono dunque la tesi che ritiene meramente nulla per errore sull’identità del soggetto la vocatio in ius – nullità sanabile con la costituzione in giudizio delle persone contro cui correttamente andava instaurato il giudizio –, prediligendo la più aspra e non sanabile sanzione dell’inesistenza dell’atto, strutturalmente inidoneo a raggiungere lo scopo.

Affiorava dunque un contrasto con la giurisprudenza (maggioritaria) che invece faceva applicazione della sanzione della nullità per le ipotesi di morte della parte-persona fisica, sanabile con la costituzione in giudizio degli eredi.

Il contrasto venne composto con una ulteriore successiva pronuncia della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (4 luglio 2014, n. 15295), nella quale si affermava il principio dell’ultrattività del mandato alla lite.

In forza di tale principio, affermano i giudici: “nel caso in cui l’evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell’impugnazione. Tale posizione giuridica è suscettibile di modificazione nell’ipotesi in cui, nella successiva fase d’impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta (…)”.

Approfondiamo, ora, i riflessi di tali pronunce nell’ambito del diritto tributario.

I crediti verso il Fisco

Innanzitutto, per quanto riguarda i crediti verso il Fisco, è stata a lungo controversa la loro natura di credito certo e liquido (e quindi trasmissibile) poiché per gli stessi “è prevista una disciplina procedimentale [mediante la quale] il contribuente deve chiedere il rimborso, attraverso, nei diversi modelli procedimentali, l’indicazione in dichiarazione oppure un’apposita istanza, con un potere successivo di controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate[10].

In quanto incerti, dunque, i crediti verso il fisco potrebbero sembrare non trasmissibili e quindi rinunciati dopo la cancellazione, tuttavia – si osserva – “a nulla rileva, a questi fini, che l’esigibilità del credito sia subordinata al rispetto di termini di decadenza (e di prescrizione) e, in generale, all’espletamento di una fase di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria. Tali aspetti, infatti, non possono “degradare” il diritto al rimborso a livello di “mera pretesa” e neppure qualificarlo quale diritto “non liquido”, secondo la terminologia utilizzata dalle Sezioni Unite”.

Nonostante la questione sia aperta in dottrina, l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto ai soci il diritto al rimborso (cfr. Risoluzione delle Entrate 27 luglio 2011, n. 77/E) ed alla luce della riforma legislativa in commento è ragionevole immaginare che tale posizione dell’Agenzia non verrà mutata.

I debiti nei confronti del Fisco

Per quanto riguarda poi le posizioni debitorie della società nei confronti dell’Erario, la posizione fiscale originaria della società non poteva essere trasmessa ai soci né ai liquidatori, i quali al contrario rispondono sulla base di una fattispecie diversa – sopra richiamata – da quella fondativa del rapporto d’imposta, ma che presuppone proprio l’accertamento definitivo di quest’ultimo in capo alla società estinta.

Se, allora, per un verso (i) l’estinzione della società già costituitasi nel giudizio tributario ne comportava a sua volta l’estinzione e la conseguente definitività dell’atto amministrativo (con la possibilità per l’Amministrazione di aggredire i soci e i liquidatori nelle forme dell’art. 36 D. Lgs. 602/1973)[11], per l’altro (ii) se la società si fosse estinta prima della conclusione della verifica, l’amministrazione avrebbe perso la possibilità di notificare utilmente l’avviso alla società, perdendo di conseguenza ogni chanche di riscuotere poi presso soci e/o liquidatore le somme dovute.

È esattamente quest’ultimo il problema che la riforma vuole neutralizzare, prevedendo che: “ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese” (Articolo 28, comma 4 del Decreto Legislativo 21 novembre 2014, n. 175).

La società dunque, ancorché cessata, è “finta esistente” al solo scopo di poter essere colpita dai provvedimenti dell’Erario e dell’Inps per un periodo di cinque anni dalla richiesta di cancellazione alla conservatoria del RI da parte del liquidatore.

La norma consente all’Amministrazione di procedere esattamente come nei confronti di una società in vita, di trascurare quindi che la società oramai ha disperso il suo patrimonio, non ha più una struttura aziendale, che gli organi sociali e la sede sociale non esistono più (con gli inconvenienti di cui si dirà).

Le ulteriori novità della riforma

Ma le novità della riforma non finiscono qui.

Otre all’accertamento preliminare definitivo del debito in capo alla società estinta, l’Amministrazione deve dimostrare

  • (i) sia che il socio presso il quale si dirige la riscossione ha a sua volta effettivamente ottenuto quelle somme sulla base del bilancio finale di liquidazione della società,
  • (ii) sia, qualora l’amministrazione procedesse nei confronti del liquidatore, che questi abbia realmente violato una regola sul riparto dell’attivo rimasto, ad esempio soddisfacendo prima alcuni crediti che andavano soddisfatti solo dopo altri, oppure abbia disperso od occultato parte dell’attivo.[12]

Il successivo 5° comma della stessa disposizione ha infatti modificato l’art. 36 del d.p.r. n. 602 del 1973, inserendo due presunzioni iuris tantum: circa la prima, non è più onere dell’Amministrazione provare l’inadempimento colposo del liquidatore, ma sarà egli a dover dimostrare di aver correttamente eseguito il riparto; la seconda, invece, è inserita in coda al 3° comma della disposizione riformata e consiste in una presunzione di proporzionalità alla partecipazione al capitale sociale del valore dei beni distribuiti ai soci.

Diamo atto, da ultimo, della novità che porta con sé il 7° ed ultimo comma dell’articolo 28, forse il meno controverso, ma per comprendere il quale è necessario riesaminare la successione delle norme precedutegli.

L’art. 19 del D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 aveva limitato l’ambito di applicazione del citato art. 36 alle sole imposte reddituali societarie, impedendo quindi all’Agenzia delle entrate di far valere, con le forme e le procedure in quello previste, la responsabilità di soci, liquidatori e amministratori per pretese tributarie della società cancellata relative ad iva, irap ed altre imposte indirette. Questo trovava fondamento nella “considerazione che è soprattutto nei confronti delle imposte dirette, in conseguenza dei metodi di accertamento e riscossione applicati a quelle imposte, che si presenta il pericolo che lo scioglimento dell’ente abbia attuazione prima che il procedimento di messa in riscossione del tributo sia stato esaurito ”.[13]

In realtà, prima dell’introduzione del citato articolo 19, l’articolo 36 D.P.R. 602/1973 aveva un ambito di applicazione diverso da quello successivamente intervenuto, ben più ampio. L’omogeneizzazione dei modi dell’accertamento, e l’unificazione della riscossione delle imposte dirette e dell’iva portate dal Legislatore Delegato del 1973 aveva fatto venire meno, infatti, la giustificazione di una limitazione, pur previgente a tale data (si veda l’articolo 245 TU del 1958, che dell’art. 36 è il precedente), reintrodotta tuttavia nel 1999.

A partire dal 1973 e fino al 1999 l’articolo 36 era considerato, proprio per la sua portata generale, valevole per tutti i tributi, “l’equivalente tributario” dell’art. 2495 c.c..

Si presentava cioè come una norma speciale rispetto alla corrispondente norma civilistica, di questa completamente sostitutiva, seppure con un limite di responsabilità dei soci più ampio rispetto a quello di diritto comune.

Anche l’espressione “salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile” aveva una diversa funzione: quella di consentire di superare il limite di responsabilità nei confronti dei soci di società di persone – coerentemente con la diversa autonomia patrimoniale delle varie figure societarie – ed utilizzare nei confronti degli stessi soci le forme ed il procedimento di accertamento previste dal 5° comma dell’art. 36.

Successivamente, la limitazione della responsabilità dell’art 36 D.P.R. 602/1973 ad opera dell’art 19 D. Lgs. 46/1999 ha modificato la portata del suddetto art. 36 e con essa il significato del riferimento testuale alla salvezza delle maggiori responsabilità del codice civile. Tale riferimento è divenuta una surrettizia disposizione di collegamento volta a consentire all’ Agenzia delle entrate di esercitare nei confronti dei soci (assegnatari di beni o somme) l’azione generale e di chiusura del sistema, prevista dal 2° comma dell’art. 2495 c.c., per il recupero delle maggiori imposte non più tutelabili attraverso il rimedio dell’art. 36 D.P.R. 602/1973.

Si colmava così, almeno parzialmente, il vuoto di tutela intervenuto a seguito della limitazione operata dal Legislatore del 1999.

L’intervenuta modifica dell’art. 19 del D. Lgs. 46/1999 ad opera del D. Lgs. 175/1999, commenta la dottrina, “ha il pregio di aver riportato il citato art. 36 D.P.R. 602/1973 al suo significato originario, restituendo ad esso il ruolo di norma generale di chiusura del sistema tributario (con riferimento agli effetti prodotti dall’estinzione societaria) sostitutiva dell’art. 2495 c.c..

Con le ulteriori positive conseguenze di aver fornito gli Uffici tributari di una coerente e coordinata procedura di recupero di tutti i maggiori tributi dovuti dalla società cancellata.” [14]

Da questo discende anche un riordino della (non più) diversa disciplina della riscossione di società di capitali e società di persone: le maggiori responsabilità del codice civile infatti tornano ad essere solo quelle derivanti dalla partecipazione ad un’estinta società di persone, che, si ritiene, le Agenzie potranno far valere sempre tramite l’apposito atto di cui al penultimo comma dell’art. 36 D.P.R. 602/1973.

Il quadro attuale: riflessioni critiche

Ad oggi le cancellazioni di società dal Registro delle imprese intervenute prima del 13 dicembre 2014 (data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 21 novembre 2014, n. 175) hanno regolare efficacia costitutiva dell’estinzione dell’ente, anche a fini fiscali[15].

In conseguenza di ciò, l’atto emanato dall’Amministrazione finanziaria successivamente alla cancellazione è inesistente, in quanto diretto ad un soggetto che giuridicamente non esiste più.

Da questo fatto deriva che le forme di tutela dell’Erario offerte dall’art. 36 D.P.R. 602/1973 nei confronti dei soci e del liquidatore non sono praticabili, per via dell’impossibilità dell’accertamento del presupposto imponibile che concorre a costituire tali fattispecie di responsabilità.

Infatti, lo ricordiamo, esse sono fattispecie autonome dal presupposto imponibile che investe la contribuente società, tra i cui elementi costitutivi vi è anche l’accertamento definitivo dell’imposta dovuta.

Se viceversa l’estinzione societaria fosse intervenuta successivamente alla notifica di un atto accertativo, era la compagine sociale a soffrire il maggiore pregiudizio: il meccanismo di successione processuale nei confronti dei soci che opera nel processo civile (interruzione e riassunzione/prosecuzione) con l’intervento delle SS. UU. 2013 è inapplicabile nella materia fiscale, per ragioni inerenti alla specialità delle disposizioni di cui all’art. 36 D.P.R. 602/1973.

Il processo non potendo proseguire si estingue, diventando dunque definitivo l’atto e aprendo la strada all’accertamento verso i soci ex art. 36.5 D.P.R. 602/1973. Di qui il tema legato ai confini della loro responsabilità, se dunque siano da individuare nella quota riscossa in base al bilancio finale di riparto o, invece, se la successione quasi ereditaria legittima il socio a rispondere per posizioni che vanno oltre quanto riscosso da questi in sede di liquidazione (Sul punto v. da ultimo Cassazione 7 aprile 2017 n. 9094, in commento di seguito).

Intanto, con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, a partire dal 13 dicembre 2014, come detto, la cancellazione della società dal Registro delle imprese non ha alcun effetto estintivo per un periodo di cinque anni dalla domanda di cancellazione ai fini degli atti di accertamento, riscossione, di contenzioso.

Così, l’Amministrazione finanziaria avrà tempo per notificare gli atti che assicurano il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, i quali produrranno regolarmente i loro effetti e apriranno così l’accesso, se non alla riscossione coattiva su un patrimonio sociale nel frattempo disperso, alle azioni di responsabilità nei confronti di liquidatori, amministratori e soci, come prevede l’art. 36 D.P.R. 602/1973.

La riforma nel suo complesso ha il pregio di non rendere vane tali speciali garanzie patrimoniali provviste nel citato Decreto sulla riscossione, le quali addirittura sono rese più “efficaci” in ottica di riscossione (si fa riferimento all’inversione dell’onere della prova in capo a liquidatori e soci ex art. 28.5).

D’altra parte, la società sciolta, cancellata ed estinta, ma “viva” ancora a solo fini fiscali presenta alcuni inconvenienti proprio a causa della sua genetica ambiguità.

Diversi allora gli interrogativi sollevati riguardo alla sussistenza o meno del patrimonio sociale (se vi è ancora un liquidatore dov’è la ricchezza da distribuire?), a quali organi sociali sopravvivono e quali vengono meno, ai poteri processuali che effettivamente il liquidatore può dispiegare a difesa di una società che non c’è più.

E che su di questi non può più esercitare alcun potere di controllo e revoca perché, così non fosse, vorrebbe dire che l’assemblea sopravvive, con essa anche il vincolo societario dei soci, il che è incompatibile con il principio della loro successione nei rapporti della società estinta, per cui mai i soci potrebbero essere al contempo “soci attivi, tanto da far funzionare l’assemblea, e soci eredi, qualità che postula il venir meno della società e dei suoi organi come l’assemblea. Ragionando diversamente si dovrebbe ammettere che possono coesistere sia il dante causa che il suo erede quando l’uno esclude necessariamente l’altro[16].

Si pensi, ad esempio, ad un liquidatore che presti acquiescenza ad un avviso di accertamento notificato dopo l’avvenuta cancellazione dal registro delle imprese (magari perché sicuro di non incorrere in responsabilità).

L’atto acquisterebbe definitività, impedendo che i soci in sede di accertamento della loro responsabilità ex art. 36 possano validamente contestare il presupposto dell’obbligazione fiscale principale, ormai divenuto definitivo.

Analogo problema si presenterebbe nel caso opposto di avvenuta impugnazione dell’accertamento societario ad opera del ricevente liquidatore: come chiarito, la probabile declaratoria di inammissibilità per mancanza di interesse ad agire del ricorrente ne impedirebbe la sua contestabilità.

Il riflettersi degli effetti dell’accertamento societario sui soci della società, soggetti sì estranei al presupposto imponibile, ma obbligati sulla base di un titolo che si asside su tale presupposto, determina un palese difetto di garanzia costituzionale del diritto di difesa degli stessi, nel momento in cui non li si coinvolge sin dall’accertamento del presupposto.[17]

Infatti non si comprende perché, di fronte all’inerzia del liquidatore, non deve essere possibile ai soci (unici soggetti realmente interessati alla vicenda) reagire a tale atto per impedire che diventi definitivo.[18]

Con l’auspicio che non vi siano ostacoli insormontabili all’affermazione di tale tesi, pena la quasi certa illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 24 Cost.[19]

Anche qualora il liquidatore impugni nell’interesse della (fu) società, tuttavia, i problemi non mancano.

Infatti, pur oltrepassando positivamente il ricorso proposto dal liquidatore il giudizio di ammissibilità circa interesse ad agire e legittimazione ad agire, il processo dovrebbe concludersi entro il compiersi del quinto anniversario dalla cancellazione della società.

Non pare realistico credere, ancorché inquadrando le disposizioni in esame nel più ampio sistema di norme contenute nel “Decreto Semplificazione”, che il legislatore seriamente abbia una simile convinzione: la media di durata del giudizio tributario, comprensivo del grado di legittimità, si attesta su un periodo superiore a cinque anni.

Lo scenario che si profila, purtroppo, all’orizzonte, è che alla scadenza del quinto anno dalla cancellazione l’effetto estintivo si produce automaticamente, causando l’estinzione anche del giudizio di impugnazione dell’avviso nei confronti della società.

Di fronte a che tipo di estinzione ci troviamo: per rinuncia, per inerzia o per cessata materia del contendere? Quali effetti produce sull’atto tale estinzione? A tali interrogativi e a molti altri la dottrina dovrà dare risposta.

Le alternative, come sempre, sono due: o l’atto acquista definitività, e allora non può più essere opposto; oppure non diventa definitivo, e allora il presupposto imponibile “pregiudiziale” andrà accertato in sede di accertamento “ dipendente” ai soci e/o al liquidatore.

La prima alternativa semplicemente non ci dice nulla di più di quanto non ricaviamo dall’inserimento della disposizione nei principi generali della materia: se l’effetto estintivo è differito al quinto anno dalla cancellazione, alla scadenza del quinto anno si verifica l’effetto estintivo, esattamente come se si fosse verificato al momento della cancellazione, con tutto ciò che ne sarebbe derivato, estinzione processuale compresa.

Più interessante la seconda alternativa.

Se alla scadenza del quinquennio l’estinzione del processo non dovesse condurre alla definitività dell’accertamento, riproponendosi tale questione preliminare in sede di accertamento speciale ai soci, allora il significato della norma cambierebbe, in un senso particolare.

Il legislatore starebbe affermando una regola che non è volta soltanto a dare un tempo all’Amministrazione finanziaria affinché assolva ai suoi compiti, ma più ampiamente starebbe concedendo un termine entro cui l’atto deve acquistare definitività, non volendo che questa si produca per mezzo del verificarsi dell’effetto estintivo di là differito a cinque anni.

In tal caso, però, si deve concludere che viene disatteso proprio quel proposito originario di Semplificazione e di eliminazione di adempimenti superflui che ispira il Decreto, visto che all’A.f. viene imposto di motivare nell’accertamento di cui all’art. 36.5 D.P.R. 602/1973 anche con riferimento all’autonomo presupposto “preliminare”, dovendo in tale sede accertarsi tale debito principale in maniera definitiva, alla stregua dei presupposti speciali delle responsabilità dei coobbligati.

Con il che, sempre proseguendo in quest’analisi, meccanismo di cui all’art. 28, comma 4, del D. Lgs. n. 175/2014 poteva essere sostituito da una disciplina che affermasse come necessario che l’atto di cui all’art. 36, comma 5, del D.P.R. n. 602/1973 dovesse motivarsi circa i presupposti non solo specifici ma anche generici della responsabilità e legittimasse la notifica dello stesso, una volta estinta la società (in seguito alla cancellazione), direttamente ai soci e liquidatori senza previo accertamento del debito in capo alla società.

Unica soluzione questa, realmente prospettabile, giacché impossibile sarebbe stato, al fine di salvaguardare l’autonomia del generale atto di accertamento del debito tributario della società, notificare direttamente ai soci tale atto, proprio in quanto la successione nel debito fiscale della società è esclusa dalla giurisprudenza di Cassazione.

In ogni caso, costituisce condotta gravemente lesiva degli interessi dei soci la cattiva prassi perseguita dall’Amministrazione di non motivare l’avviso di cui all’articolo 36, comma 5 D.P.R. n. 602/1973 con riguardo specifico ai presupposti che fondano la responsabilità dei soci stessi, affidando la stessa ad un opaco meccanismo di presunzione di riparto dell’attivo risultante a bilancio di liquidazione e soprattutto senza che l’atto riporto una dimostrazione di quanto il socio abbia percepito effettivamente. [20]

La giurisprudenza: alcune sentenze guida

Con la recente ordinanza 28 settembre 2016, n. 19142, invece, la sezione VI della Corte di Cassazione ha deciso un caso in cui ad una società in accomandita semplice era notificato un avviso di accertamento dopo che questa era già stata liquidata e cancellata dal RI.

Entrambi i gradi di merito si concludevano con una pronuncia di inammissibilità del ricorso proposto dal liquidatore avverso l’avviso notificato alla società cessata, per il principio per cui “la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore, sicché eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, consegue l’annullamento senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito” (Dalla sentenza analoga della sezione VI della Corte di Cassazione del 23 marzo 2013, n. 5736, richiamata e confermata nell’ordinanza in commento).

In sede di cognizione di legittimità del ricorso esperito dal liquidatore la Corte di Cassazione ha non soltanto confermato tale principio, anche in tale occasione ribadendo che “…la cancellazione dal registro delle imprese costituisce il presupposto della proponibilità dell’azione nei confronti dei soci; l’avvenuta percezione di somme in sede di liquidazione del bilancio finale costituisce il limite della responsabilità dei soci.”.

L’estinzione della società nel corso di un giudizio civile, poi, non sempre determina un sicuro fenomeno di successione nel processo in favore del socio, garantendone la prosecuzione.

La Corte di Cassazione con la sentenza del 29 luglio 2016 n. 15762 ha infatti riaffermato il principio della successione dei soci nei diritti ed obblighi della società estinta anche non compresi nel bilancio finale della società, a condizione però che tali diritti ed obblighi abbiano ad oggetto beni o diritti certi e liquidi, e non invece diritti incerti e illiquidi o mere pretese, ancorché azionate in giudizio.

Nel caso richiamato una società conveniva una banca per i danni arrecati dal fatto illecito di un dipendente nell’esercizio delle incombenze cui era adibito. Parte attrice richiedeva la condanna per danni morali e patrimoniali dell’istituto di credito ai sensi dell’articolo 2049 cod. civ., per la somma complessiva di Euro 2.000.000,00 o in quella maggiore o minore ritenuta di giustizia.

La società, soccombente in primo grado, proponeva appello; dopo che era stata tenuta l’udienza di discussione davanti al giudice, veniva approvato il bilancio finale di liquidazione e la società era liquidata, con conseguente cancellazione estintiva dal registro delle imprese prima della data del deposito della sentenza.

Avverso la sentenza i soci della società estinta proponevano ricorso per cassazione.

La Corte di Cassazione ha accertato che la compagine sociale fosse totalmente sprovvista di legittimazione ad agire, ciò sulla base di quanto affermato dalla richiamata sentenza delle SS. UU. 12 marzo 2013 n° 6071 (oltre che 6070 e 6072) che esclude dalla successione nei confronti dei soci: “le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, [nonché] i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.[21]

Come affermato già anche nella sentenza 24 dicembre 2015, n. 25974 e, analogamente nella sentenza 7 marzo 2016 n. 4389, la Corte attribuisce al fatto estintivo una presunzione assoluta di rinuncia al credito della fu società, non confluito nel bilancio finale di liquidazione.

Ben più centrale invece la questione della legittimazione passiva dei soci, la cui disciplina è incentrata sul richiamato art. 36 comma 3 del d.P.R. n. 602/1973, che ricalca l’analoga previsione di cui all’articolo 2495 cpv c.c. e che, si ribadisce, è stato interpretato nelle sentenze delle Sezioni Unite di marzo 2013 come il fondamento e il limite della successione dei soci nella posizione della società.

È proprio l’ampiezza e le caratteristiche tecniche di tale fenomeno successorio a formare oggetto di dibattito nella giurisprudenza di legittimità.

Dapprima, infatti, la Cassazione (pronunce 16 maggio 2012, n. 7679 e 9 novembre 2012, n. 19453) ha interpretato il limite del riparto in sede di liquidazione della società come una condizione formale da cui dipende l’ammissibilità dell’azione nei confronti del socio, in origine esercitata dal creditore nei confronti della società.

In altri termini, solo se il socio otteneva una parte di attivo dalla liquidazione (il che, prima della riforma, era onere assai arduo dell’Amministrazione creditrice provare), diventava successore della società ed acquistava legittimazione passiva a stare in giudizio come tale.

Tale interpretazione in senso processualistico delle predette norme mal si concilia con lo spirito di fondo delle sentenze gemelle del 2013, ossia evitare “che la cancellazione dal registro, pur provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi. […] La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto”.

Tale lettura tuttavia ha trovato ulteriore seguito in diverse pronunce della Suprema Corte (Si vedano 31 gennaio 2017 n. 2444, 29 febbraio 2016 n. 3916 e 26 giugno 2015, n. 13259).

È solo con la sentenza del 7 aprile 2017, n. 9094 che la Cassazione è ritornata a riaffermare il principio coniato dalle Sezioni Unite, censurando l’indirizzo da ultimo esposto.

Vengono infatti espressamente richiamate le sentenze delle Sezioni Unite nn. 6070 e 6072 del 2013, le quali hanno affermato la successione “quasi ereditaria” dei soci nei rapporti sociali a prescindere dalla distribuzione di attivo in loro favore a seguito di liquidazione, ciò non ostando al riconoscimento della legittimazione passiva in capo ai soci e, pertanto, alla prosecuzione dell’azione creditoria – originata verso la società – nei loro confronti.

In altri termini gli ex soci, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex art. 2495 comma 2 e art. 63 d.P.R. n. 602/1973, succedono in tutti i rapporti sociali, anche quelli non definiti in sede di liquidazione, poiché anche con riferimento a tali posizioni il creditore non è da escludersi a priori che abbia un interesse ad agire. Basti pensare, ad esempio, al caso di beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa; oppure al caso delle sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e non liquidi al momento della liquidazione.

Così anche la Cassazione: “la possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

Pertanto, nel caso deciso con la sentenza 9094/2017 la Corte ha dichiarato l’ammissibilità del ricorso proposto verso i soci in veste di successori della società (anche se poi lo ha rigettato nel merito).

Con riferimento alla materia fiscale, è interessante confrontare il descritto ambito di non applicazione del principio di successione universale con le nuove disposizioni del decreto-legge 22 ottobre 2016,n. 193, recante disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili, convertito in legge in data 24 novembre 2016.

L’articolo 1, comma primo del Decreto Fiscale prevede la cancellazione d’ufficio a partire dal 1° luglio 2017 delle società del gruppo Equitalia, con conseguente loro estinzione.

Tale previsione, in combinato con l’articolo 6, che prevede la facoltà di definire in via agevolata le cartelle notificate nei diciassette anni passati (2000 e 2016 compresi) potrebbe intendersi, nel solco della giurisprudenza citata, come un fatto a cui ricollegare una volontà del liquidatore (lo Stato, ancorchè il Decreto prevede che non verrà disposto alcun bilancio finale di liquidazione) di rinunciare ad una serie di disposizioni e risorse per mezzo del quale sono stati guidati i procedimenti di riscossione per le cartelle notificate nel periodo indicato.

Diversamente, con riguardo ai profili di responsabilità del liquidatore merita segnalazione la sentenza della sezione tributaria della Corte di Cassazione, n. 16446, depositata il 5 agosto 2016

Ripercorriamone i fatti.

La ricorrente impugnava in qualità di amministratrice di una società due cartelle di pagamento relative agli anni 1998 e 1999 ed un avviso di accertamento relativo all’anno 2000 (entrambi in materia di ii.dd. e iva).

Gli atti impugnati (nonché, per le due cartelle, i precedenti avvisi di accertamento) venivano notificati una volta che la società era già stata trasferita all’estero e l’amministratrice veniva sostituita nella propria carica sociale in data 16 novembre 2000.

Per la precisione, gli avvisi erano stati notificati in data 4 novembre 2003 e le relative cartelle pervenivano a conoscenza dell’ormai ex amministratrice in data 10 giugno 2004. L’avviso di accertamento per l’anno 2000 era notificato invece in data 31 agosto 2004 e veniva da questa impugnato separatamente.

I due giudizi venivano dunque riuniti e decisi dalla CTP in senso favorevole alla ricorrente con seguente annullamento sia dell’avviso che delle cartelle di pagamento impugnate.

La decisione era appellata dall’Amministrazione, la quale affidava i motivi di ricorso ad argomenti nuovi e diversi rispetto agli addebiti mossi in prim’ordine all’amministratrice della società, nonchè estranei alle doglianze opposte da questa nel giudizio di primo grado: la ricorrente doveva rispondere dei debiti della società a mente dell’articolo 36, comma 4 del d.P.R. 602/1973, ovvero per responsabilità diretta dell’amministratore per attività distrattive compiute nel biennio precedente alla liquidazione.

Il giudice d’appello con sentenza del 21 settembre 2009 accoglieva tali motivi di ricorso dell’Amministrazione, per la cassazione della quale l’amministratrice a sua volta proponeva ricorso affidato a due ordini di motivi.

Innanzitutto, ella lamentava l’errata applicazione dei criteri di responsabilità diretta dell’amministratrice della società a mente del precitato articolo 36, comma 4 del d.P.R. 602/1973.

Tale questione, a dire della ricorrente, non essendo stata sollevata negli atti notificati, non poteva essere introdotta dal Fisco nel giudizio di merito, incorrendosi in violazione dell’articolo 112 c.p.c. e/o degli artt. 23 e 57 c.p.t., essendo il contenzioso fiscale limitato alle ragioni di fatto e di diritto esposte negli atti impositivi e agli specifici e correlati motivi d’impugnazione del ricorso introduttivo.

Successivamente, rilevava la ricorrente, la responsabilità sussidiaria dell’amministratrice era fatta valere in contrasto con quanto dispone lo stesso articolo 36, comma 4, che presuppone che l’atto sia notificato prima della liquidazione della società e della sua conseguente cancellazione dal registro delle imprese. Nel caso di specie, a dire della ricorrente, la società risultava già cancellata dal registro in quanto trasferita all’estero, prima delle notifiche degli atti.

L’amministrazione proponeva controricorso e ricorso incidentale condizionato.

In via preliminare, la Cassazione osservava che tale ultimo argomento risultava del tutto infondato in quanto il trasferimento della società all’estero non era avvenuto a seguito della sua liquidazione in Italia. Pertanto le notifiche degli avvisi all’amministratrice erano da considerarsi validamente effettuate anche una volta che la società aveva trasferito la sede all’estero.

Riguardo alla prima questione, poi, la Cassazione rigetta il ricorso limitatamente alle cartelle impugnate con riferimento agli anni 1998 e 1999. Per queste due, infatti, il precedente avviso di accertamento in capo alla società risultava aver acquisito definitività e, dunque, i ricorsi principali avverso le due cartelle di pagamento non era ammissibile per vizi diversi dai vizi propri delle cartelle.

Per quanto riguarda invece l’avviso di accertamento impugnato per l’anno 2000, il ricorso per cassazione viene accolto, la sentenza impugnata riformata e, in accoglimento del ricorso principale, annullato il relativo avviso impugnato, sulla base delle seguenti motivazioni.

Da una parte, infatti, è vero che “Con riferimento ai crediti del fisco i cui presupposti si siano verificati a carico di società posta in liquidazione, è riconosciuta all’amministrazione finanziaria dall’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973, anche peculiare azione a carico di liquidatori, amministratori e soci…”.

D’altra parte, nel caso di specie, l’Amministrazione aveva accertato in capo al liquidatore “la mancata tenuta di scritture contabili e l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi”, condotte ben diverse da quelle distrattive del patrimonio societario che giustificherebbe la responsabilità in proprio del liquidatore, pur avanzata in corso di giudizio.

Da una parte tale profilo di responsabilità del liquidatore, che non è contestato dall’Amministrazione negli avvisi originari, non può essere accolto per due ordini di ragioni: innanzitutto perché la responsabilità fiscale della società (preliminare rispetto a quella del liquidatore) non è accertata in via definitiva, nonché in quanto le contestazioni intervenute in corso di causa ad opera dell’Amministrazione rappresentano, a dire della Corte, integrazioni che trascurano il principio per cui “nel giudizio tributario, l’oggetto del dibattito processuale è delimitato da un lato dalle ragioni di fatto e di diritto esposte dall’Ufficio nell’atto impositivo impugnato, dall’altro dagli specifici e correlati motivi d’impugnazione dedotti dalla contribuente nel ricorso introduttivo (…). Della peculiare responsabilità di natura civilistica e non strettamente tributaria ex art. 36 cit., applicabile peraltro alle sole imposte sui redditi e non all’imposizione sul valore aggiunto (D. Lgs. N. 46 del 1999, art. 19[22]), è pacifico che non vi fosse cenno nell’atto impositivo per l’anno 2000 (…). Di contro, l’accertamento delle circostanze fondanti la responsabilità ex art. 36 comporta un ampliamento del thema decidendum e del thema probandum non consentito (Cass. 19611/2015, in gen.).


[1] Per la maggioranza della Dottrina tale obbligazione sussidiaria della compagine sociale si basa sul diritto dei soci al rimborso della quota di spettanza dell’attivo residuo dopo la liquidazione (articolo 2492 c.c.). Se essi ricevono più del dovuto, la differenza è aggredibile dai creditori insoddisfatti della società secondo gli schemi dell’arricchimento prodotto dal fatto del terzo (2041 c.c.) (in tal senso, ex multis, BIANCHI, CARNELUTTI, FERRI, FRè, GRAZIANI, MINERVINI, RAGUCCI).

[2] Nonostante a lungo la dottrina aveva ritenuto si fosse in presenza di  una forma di responsabilità aquiliana (FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, p. 540), la Corte di Cassazione fa propria quella dottrina che invece ascrive quello del liquidatore agli obblighi di protezione. “ Posizione giuridica, questa, facilmente distinguibile dagli obblighi relativi all’obbligazione contrattuale tributaria che su di essa grava in quanto soggetto passivo dell’imposta. E il cui inadempimento si verifica quando il liquidatore non operi con la diligenza adeguata alla natura dell’attività dovuta, a meno che non provi che ciò sia dipeso da un’impossibilità a lui non imputabile” (RAGUCCI G., La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali dopo le modifiche apportate dal D. Lgs. n. 175/2014, in S. Muleo (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni ( D.Lgs. n. 175/2014), Torino, 2015, pag. 140 ss.).

[3] FRANSONI, L’esecuzione coattiva a carico dei debitori diversi dall’obbligato principale, in Rassega Tributaria, n. 4/2011, pag. 823 ss.

[4] Così GLENDI, Cancellazione delle società, attività impositiva e processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 2010/9 e LAROMA JEZZI, in Cancellazione di società e responsabilità dei coobbligati, Corriere Tributario 2014, fascicolo 38, pp 2949-2955.

[5] Anzi, con l’ordinanza 17  dicembre 2013 n° 28187, la Cassazione ha affermato in via  eccezionale la legittimazione attiva dell’ex liquidatore all’impugnazione dell’avviso al solo scopo di vederne dichiarata l’invalidità per vizio di notifica.

[6] Per quanto riguarda invece i rapporti attivi facenti capo all’estinta società, le S.U. del 2013 affermano che per i crediti ancora incerti e illiquidi e le mere pretese, ancorché azionate in giudizio, non opera alcuna successione nella titolarità, si verifica bensì la loro automatica estinzione per effetto della cancellazione societaria, secondo un meccanismo di implicita rinuncia (con non poche critiche in dottrina, fra cui MARTINELLI, La sopravvivenza fiscale delle società estinte e la (nuova) responsabilità di liquidatori e soci, Roma, 2016, 43, 44, che richiama gli artt. 1260 e 1261 c.c. in base ai quali se sono perfettamente cedibili i crediti incerti, illiquidi e – in alcuni casi – anche sub iudice, non è spiegato perché per la successione simil mortis causa debbano vigere principi diversi. Sul punto cfr. infra in commento Cass. n. 15782 del 29 luglio 2016.

[7] Uno dei più autorevoli fautori del superamento della visione romanistico-precapitalistica (secondo cui la società esiste finchè non sono integralmente soddisfatti tutti i creditori sociali) fu già GALGANO, Le società di persone, Bologna, 1971, 151, 152; di più recente, basti richiamare BIANCHI L., Società di capitali cancellata tra successione e responsabilità tributaria dei soci, in Diritto e Pratica Tributaria, 2015, fascicolo 1, pagg. 1-48; IORIO e AMBROSI, Estinzione della società e obblighi patrimoniali dei soci, Rassegna Tributaria, n. 4/2011, pag. 823 ss.

[8]  Una conseguenza notevole che deriva dalla configurazione della cancellazione della società come fenomeno successorio è quella di impedire la dispersione delle garanzie che assistevano i creditori della società. Infatti, si tratta di un evento – la perdita delle garanzie a seguito della cancellazione – che le Sezioni Unite del 2013 intendono ex professo scongiurare: “Se così fosse, si finirebbe col consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui magari facendo venir meno, di conseguenza, le garanzie, prestate da terzi, che a quei debiti eventualmente accedano”. In questo è senz’altro utile il confronto con l’articolo 1263 c.c., la cui logica è applicabile senz’altro al caso di specie, a mente del quale: “per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e con gli altri accessori”.

[9]  Anche la Corte Costituzionale, con sentenza 17 luglio 2013, n. 198, ha avallato la tesi patrocinata dalle Sezioni Unite del 2013, affermando che: “in seguito alla cancellazione della società dal registro delle imprese i soci sono successori universali nei giudizi pendenti contro la società estinta. Il diritto di impugnazione della sentenza emessa nel processo pendente al momento dell’estinzione della società non è pregiudicato dalla necessità di notificare l’atto ai soci in quanto il sistema di pubblicità cui è soggetta la cancellazione consente all’impugnante di aver notizia dell’estinzione della società attraverso la consultazione del registro delle imprese.”

Infine, i Soci sono individuati successori processuali in quanto successori universali della società, a prescindere da che succedano a titolo universale o particolare nel diritto controverso (in questo senso già Cassazione 16 maggio 2012, n. 7679).

[10] TASSANI, Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in Rass. Trib, 2014, 1012.

[11] Per alcuni l’estinzione avviene per sua interruzione e impossibilità di proseguirsi (RAGUCCI, La responsabilità dei liquidatori di società di capitali dopo le modifiche apportate dal D. Lgs. N. 175/2014, in S. Muleo (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni (D. Lgs. N. 175/2014), Torino, 2015, pag. 148.), per altri per cessata materia del contendere (FICARA, La disciplina delle società delle società estinte. Il profilo dei termini di accertamento (Art. 28, commi 4 e 6), in S. Muleo (a cura di), Commento al decreto sulle semplificazioni (D. Lgs. N. 175/2014), Torino, 2015, pag. 129 ss.)

[12] Cassazione 26 giugno 2015, n. 13259.

[13] VANONI, Elementi di diritto tributario, in Opere Giuridiche, II, Milano, 1962, p. 184.

[14] BIANCHI, ibidem.

[15] La Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 2 aprile 2015, n. 6743 ha statuito che il principio di nuova introduzione non è applicabile alle cancellazioni domandate anteriormente al 13 dicembre 2014, rigettando indirettamente l’interpretazione retroattiva della norma avanzata in prima battuta dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 31/E 2014.

[16] MARTINELLI, ibidem, 75, 76.

[17]  Peraltro dottrina (cfr. MARTINELLI, ibidem, pag. 149) ha evidenziato come l’articolo 28 del Decreto Semplificazioni abbia un’evidente “vocazione suicida” nel riuscire ad aggravare la riscossione all’Erario invece che agevolarla. Infatti: “se (per gli atti impositivi notificati dopo il 13 dicembre 2014) non sono ancora decorsi cinque anni dalla data della domanda (della società) di cancellazione, il Fisco sarà costretto a prosegire il giudizio nei confronti della società ormai “fantasma”, senza poter aggredire i soci anche se questi per ventura acessero ricevuto in sede liquidatoria somme ingenti. Questo perché siccome la società (almeno per il Fisco) esiste ancora, i soci non possono considerarsi eredi (il successore, per definizione, postula la dipartita del dante causa). Con la conseguenza che il Fisco si vedrà costretto a proseguire un inutile giudizio nei confronti della società fin tanto che, decorso il quinquennio ex art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2014, potrà finalmente rivolgersi ai soci [per la riscossione, n.d.r.]”.

[18] Un analogo potrebbe essere cercato in quella giurisprudenza che, nel caso di inerzia del curatore fallimentare, ha riconosciuto legittimazione anche al fallito, in considerazione dell’interesse correlato all’eventualità del suo ritorno in bonis, giungendo anche a prescrivere all’Amministrazione l’obbligo di notifica dell’atto impugnabile a entrambi i destinatari.

[19] Tali dubbi di legittimità costituzionali della riforma in esame sono stati paventati nella citata sentenza della Corte di Cassazione del 2 aprile 2015, n. 6743, anche e soprattutto sotto l’ulteriore profili di eccesso di delega rispetto  alla legge delega fiscale 11 marzo 2014, n. 23.

[20] Tale violazione di legge è stata anche denunciata dalla stampa, in particolare  il Sole 24ore 16 gennaio 2017, pagina 19, G. GAVELLI (a cura di).

[21] Identiche affermazioni del medesimo principio si trovano anche in Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 24 dicembre 2015, n. 25974 e, nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione III, sentenza 7 marzo 2016 n. 4389.

[22] Sulla reintrodotta applicazione dell’articolo 36 anche alle imposte indirette vedi supra

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