Alla luce dei recenti avvenimenti di cronaca riguardanti, sfortunatamente, sempre più frequenti casi di aggressione all’uomo da parte di animali, siano essi domestici o no, occorre fare chiarezza sulla parte prettamente giuridica di tale fenomeno.
Da un punto di vista giuridico la fattispecie trova espresso fondamento nel disposto di cui all’articolo 2052 del Codice Civile, rubricato “Danno cagionato da animali”.
Siffatto articolo, dopo aver statuito che “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito”, prevede che detti soggetti possano liberarsi da tale responsabilità, esclusivamente fornendo la prova del c.d. “caso fortuito”.
La giurisprudenza è unanime nel ritenere non sufficiente, ai fini dell’esclusione di punibilità del custode dell’animale, la semplice prova dell’impiego della normale diligenza nella custodia dello stesso, considerando necessaria la prova della causa esterna (evento naturale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che, per imprevedibilità, inevitabilità ed assoluta eccezionalità, sfugge alla possibilità di contrasto da parte del proprietario dell’animale o del suo utilizzatore[1].
Trattasi di una responsabilità che, sostanzialmente, si configura come oggettiva essendo, come tale, addossata al proprietario dell’animale in quanto tale, a prescindere dal fatto che allo stesso possano concretamente muoversi specifiche censure in punto di diligenza nella custodia dell’animale[2].
La relativa responsabilità ex art. 2052 c.c. ricade su chi utilizza l’animale.
Pertanto, trattasi di una responsabilità ricadente, di regola, sul proprietario dell’animale o, in alternativa, su terzo che su di esso abbia un effettivo potere di governo, simile a quello che compete al proprietario ma autonomo rispetto ad esso[3].
È, tuttavia, opportuno significare che qualora continuasse a far uso dell’animale, sia pure tramite il terzo, conservando però un’ingerenza sulla gestione dell’animale stesso, la responsabilità continuerebbe, in ogni caso, a gravare sul proprietario dell’animale (così, ad esempio, nel caso del danno cagionato a terzi dal cavallo impiegato per le lezioni di equitazione risponde non già l’allievo, ma il proprietario del maneggio[4] ).
La responsabilità per i danni cagionati da animali selvatici o randagi
Ebbene, è pacifico come la previsione di cui all’art. 2052 non trovi, ovviamente, applicazione ai danni (ad esempio alla circolazione stradale, alle coltivazioni, ecc.) provocati dalla fauna selvatica, il cui stato di libertà è incompatibile con qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione; in tal caso, opererà la previsione generale dell’art. 2043 c.c. [5].
Oggetto della presente trattazione è proprio una recente pronuncia della Suprema Corte[6] espressasi sul tema dei danni causati da animali randagi.
La Cassazione, infatti, con l’ordinanza n. 13488 del 29.05.2018 ha sancito il principio di diritto ad effetto del quale la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi debba ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c., e non già dalle regole di cui all’art. 2052 c.c.
A tal riguardo, pertanto, occorrerà la puntuale allegazione nonché la prova, il cui onere spetta all’attore danneggiato in base alle regole generali, di una concreta condotta colposa ascrivibile all’ente, e della riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria.
Il caso in esame
Tizio conveniva dinanzi al Tribunale di Rieti la Regione Lazio e l’amministrazione provinciale, per sentirle condannare al risarcimento dei danni derivanti dalla collisione della sua auto con un cinghiale che, improvvisamente, gli attraversava la strada cagionando, all’esito dell’urto, ingenti danni meccanici ed alla carrozzeria.
Il Tribunale adito condannava i convenuti in solido al risarcimento del danno applicando l’art. 2052 c.c. La Provincia impugnava la sentenza di primo grado e la Corte d’Appello di Roma, con decisione n. 5941 del 07.11.2016, dichiarava nulla la sentenza di primo grado accogliendo il primo motivo dell’appello principale, e decideva nel merito la domanda proposta in quel grado.
Il Giudice di seconde cure accertava che il potere di adottare le misure necessarie per prevenire i danni cagionati dagli animali selvatici, ad effetto del dlgs. 18.08.2000 n. 267) poteva essere esercitato solo dalla Provincia di Rieti, mentre alla Regione Lazio alcun rimprovero poteva essere mosso negli stessi termini, esercitando solo funzioni di programmazione e di coordinamento della pianificazione faunistica.
La Corte, pertanto, condannava la Provincia di Rieti al risarcimento dei danni.
Avverso tale decisione la Provincia ricorreva in Cassazione affidando il ricorso a due motivi: con il primo motivo si deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 2052 c.c., in quanto il Giudice d’Appello, pur valutando la vicenda ai sensi dell’art. 2043 c.c., di fatto aveva applicato l’art. 2052 c.c. ritenendo sussistente in capo alla Provincia di Rieti gli obblighi di vigilanza sul tratto stradale, che invece ricorrono in capo alla Regione, come previsto dall’art. 95 D.P.R. n. 495/1992 e art. 14 d.lgs n. 285/1992.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 9, l. n. 157/1992; agli artt. 9 e 35, commi 2 e 42, l.r.n. 17/1995; all’art. 19, comma 1, lett e) ed f), dlgs. n. 267/2000; all’art. 14, comma 1, lett. f), l.n. 142/1990, osservando che l’art. 35, comma 2, l.r. n. 17/1995, nell’elencare le ragioni per cui la Provincia provvede al controllo della fauna selvatica, non fa menzione dei danni cagionati dalla circolazione dei veicoli.
La decisione della Corte
Secondo la Corte tutti i motivi di gravame sono da ritenersi infondati.
In primo luogo, si è cercato di stabilire se i poteri di controllo della fauna selvatica spettino alla Regione o alla Provincia o ad entrambe, per addivenire, poi, a considerare che “la responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all’ente, sia esso regione, Ente Parco, Federazione o Associazione, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino [7] ”.
Nel merito, poi, ha affermato la Suprema Corte che “la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c. e non già dalle regole di cui all’art. 2052 c.c.
Non è, quindi, possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, occorrendo la puntuale allegazione e la prova, il cui onere spetta all’attore danneggiato in base alle regole generali, di una concreta condotta colposa ascrivibile all’ente, e della riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell’animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, e ciò nonostante quest’ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura” [8].
Da questo caso si distingue quello della responsabilità (che la giurisprudenza unanimemente riconduce all’art. 2051 c.c.) dell’ente gestore delle autostrade che deve svolgere, in un’area circoscritta a lui affidata, un’adeguata attività di vigilanza in funzione della prevenzione e della eliminazione delle possibili cause di pericolo per gli utenti.
Il gestore autostradale, infatti, per andare esente da qualsivoglia responsabilità dovrà provare il caso fortuito ex art. 2051 c.c., dimostrando che l’evento verificatosi sia dovuto a fattori accidentali e completamente avulsi dalla sua attività di custodia della cosa stessa.[9]
In conclusione, quindi, la responsabilità per i danni cagionati dagli animali randagi dovrà ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c. e non già da quelle di cui all’art. 2052 c.c.
Nel caso di specie, infatti, secondo la Suprema Corte la sentenza di secondo grado ha correttamente ritenuto che la responsabilità della fauna selvatica e del suo controllo fosse stata attribuita nello specifico dalla Regione alla Provincia di Rieti sulla base della l.r. del 2 maggio 1995, n. 17, art. 35, comma 2.
[1] Cass. Civ. 20.05.2016 n. 10402; Cass. Civ. 15.12.2015 n. 25223.
[2] Si vedano sul punto Cass. Civ. 07.03.2016 n. 4373 e Cass. Civ. 28.07.2014 n. 17091, le quali, anche con riferimento all’ipotesi in esame, parlano espressamente di responsabilità oggettiva.
[3] Torrente/Schlesinger., Manuale di diritto privato, Milano, 2017, pp. 938 e ss.
[4] Cass. Civ. 07.07.2010 n. 16023; Cass. Civ. 22.12.2015 n. 25738.
[5] Cass. Civ. 24.04.2014 n. 9276.
[6] Cass. Civ. Sez. VI del 29.05.2018 n. 13488.
[7] Cass. Civ. Sez. VI del 29.05.2018 n. 13488.
[8] Cass. Civ. Sez. II del 31.07.2017 n. 18954 e Cass. Civ. Sez. II del 21.11.2017 n. 27549.
[9] Cass. Civ. del 12.05.2017 n. 11785.