Residualità dell’azione di arricchimento senza causa (alle Sezioni Unite)

in Giuricivile, 2023, 10 (ISSN 2532-201X)

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5222/2023, ha rimesso al Primo Presidente la seguente questione, affinché valuti l’opportunità di rimetterla alle Sezioni Unite Civili:

L’infondatezza della domanda di responsabilità precontrattuale, proposta in via principale, preclude l’esame della domanda subordinata di arricchimento senza causa, in base alla regola della sussidiarietà di detta azione?

L’azione di arricchimento senza causa

L’azione di arricchimento senza causa è disciplinata dall’art. 2041 c.c., che così dispone: “chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.

In ambito contrattuale, la concessione di un ristoro patrimoniale consegue al fatto che il danneggiato ha esperito gli strumenti di tutela negoziale previsti dalla legge per quella determinata fattispecie. P. es., per quanto riguarda la risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 comma 1 c.c., il risarcimento è conseguenza della domanda giudiziale di risoluzione.

L’art. 2041 c.c. introduce tuttavia un ulteriore strumento di tutela, che è quello dell’arricchimento senza giusta causa, il quale, vista l’autonoma collocazione nell’ambito del codice, appare quale mezzo di protezione residuale, ossia: anche nel caso in cui non vengano esperiti gli strumenti di tutela contrattuale tipici (risoluzione per inadempimento), vi è comunque la possibilità di ottenere un ristoro, qualora si dimostri che la controparte, mediante il proprio comportamento negligente in ordine agli obblighi contrattuali, ha conseguito “ingiustamente”, a causa appunto di tale negligenza e quindi “contra legem” (infatti, ex art. 1372 c.c., “il contratto ha forza di legge tra le parti”), un vantaggio.

Quindi l’ordinamento, avendo introdotto tale strumento residuale, ha voluto affermare il principio in base al quale la tutela patrimoniale, pur se sotto forma di indennizzo anziché di risarcimento, deve essere accordata anche nel caso in cui il danneggiato, al fine di ottenerla, non abbia esperito lo strumento di tutela tipico, ossia quello previsto dalla legge. Ciò evidentemente in quanto, nei rapporti tra privati, vi è un generale obbligo del “neminem laedere”, ossia di non arrecare un danno alla sfera giuridica altrui, la cui violazione merita un’adeguata riparazione, anche se l’accertamento di tale danno non viene chiesto utilizzando gli istituti previsti dalla legge per il caso di specie (risoluzione per inadempimento, annullamento, rescissione, etc.).

La suddetta violazione si configura anche nel caso della responsabilità precontrattuale, la quale è disciplinata dall’art. 1337 c.c., il quale prevede che “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.

In tal caso, il ristoro patrimoniale consegue al fatto che la controparte non è addivenuta alla stipula del contratto, e quindi è receduta dalle trattative negoziali in modo illecito.

Rapporto tra azione di arricchimento senza causa e infondatezza accertamento della responsabilità contrattuale

La domanda è: l’azione di arricchimento senza causa è esperibile anche nel caso in cui la domanda giudiziale volta all’accertamento della responsabilità precontrattuale sia stata dichiarata infondata?

La violazione dell’obbligo del “neminem laedere” è stata fatta valere mediante lo strumento tipico, ossia la domanda di accertamento della responsabilità precontrattuale, però tale domanda è stata respinta.

Quindi, si tratta di vedere se la suddetta azione possa essere esercitata anche quando lo strumento tipico è stato dichiarato dal Giudice non utilizzabile.

Il presupposto per l’esperibilità dell’azione ex art. 2041 c.c. è il fatto che la controparte si sia arricchita “senza una giusta causa”.

“Mancanza di una giusta causa” vuol dire che tale arricchimento è stato conseguito con un comportamento antigiuridico, ossia violando le norme che disciplinano gli obblighi contrattuali.

Quando si propone una domanda giudiziale sostenendo che la controparte ha conseguito, attraverso il proprio inadempimento contrattuale (o precontrattuale) un vantaggio indebito, ciò equivale a dire che essa “si è arricchita senza una giusta causa”.

Se questa domanda viene respinta, ciò vuol dire che la mancanza di una giusta causa di arricchimento è stata esclusa dal Giudice.

Quindi, se la parte, dopo aver proposto domanda risarcitoria per violazione dell’art. 1337 c.c. (ove sia in discussione una responsabilità precontrattuale), domanda che è stata respinta, chiede allo stesso Giudice, in via subordinata, la medesima tutela, utilizzando come strumento, anziché quello dell’art. 1337 c.c., quello (residuale) dell’art. 2041 c.c., è come se essa, sotto un’altra forma, chiedesse al Giudice, per una seconda volta, di accertare la mancanza della giusta causa di arricchimento.

Quindi è come se la parte chiedesse, allo stesso Giudice, di ripronunciarsi sulla medesima questione. Al riguardo, va osservato quanto segue.

L’estinzione del processo non estingue l’azione” (art. 310 c.p.c.)

Il diritto di agire giudizialmente non è compromesso neanche nel caso in cui la parte abbia rinunciato agli atti del giudizio, determinandone in tal modo l’estinzione ex art. 306 c.p.c. .

Tale diritto, pertanto, non potrà, a maggior ragione, considerarsi compromesso, sotto il profilo dell’impossibilità di proporre una domanda in via subordinata (art. 2041 c.c.), nel caso in cui la parte sia andata in fondo al giudizio, anche se poi il Giudice abbia dichiarato infondata la domanda proposta in via principale (art. 1337 c.c.).

Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (art. 112 c.p.c.)

La facoltà della parte di proporre, in via subordinata, la domanda ex art. 2041 c.c., con la quale si chiede sostanzialmente la stessa tutela chiesta con la domanda ex art. 1337 c.c. ma ad un titolo diverso (quello, appunto, dell’arricchimento senza causa), deriva direttamente dal diritto sostanziale, il quale ha previsto, quale ulteriore istituto di protezione, quello di cui all’art. 2041 c.c., e ciò in virtù del principio generale del “neminem laedere”.

Pertanto, ritenere che la domanda ex art. 2041 c.c. non possa essere proposta dopo che la domanda azionata in via principale, ex art. 1337 c.c., sia stata dichiarata infondata, vuol dire rinnegare l’essenza stessa dello strumento di tutela residuale offerto dall’art. 2041 c.c.

Proporre una domanda in via subordinata, con la quale, a scopo cautelativo, ci si protegge dal rischio che la domanda principale non venga accolta, è funzionale all’esercizio del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., il quale, per essere effettivo, necessita di una dimensione di completezza, che è data proprio dalla facoltà di poter proporre al Giudice una “domanda di riserva”, qual è, in tal caso, quella di cui all’art. 2041 c.c. .

Inoltre, prevede la norma, il Giudice non può pronunciarsi “oltre i limiti della domanda”. Ebbene, se si sostiene che la richiesta di pronuncia ex art. 2041 c.c. costituisce “un doppione” della domanda già proposta ex art. 1337 c.c. (domanda ritenuta infondata), allora si deve avere la coerenza di ammettere che la suddetta richiesta, proprio perché è una duplicazione di una domanda già fatta, non rappresenta una “domanda nuova” ma rientra “nei limiti” di quella già proposta: ciò che non soltanto legittima, ma obbliga il Giudice a pronunciarsi.

Principio del ne bis in idem processuale

La tesi secondo cui la richiesta di pronuncia ex art. 2041 c.c. costituisce “un doppione” della domanda già proposta ex art. 1337 c.c., si basa su un’interpretazione “sostanzialistica” di quelli che sono gli strumenti di tutela azionabili dinanzi al Giudice, ossia: un’azione, anche se viene esercitata sulla base della norma che la disciplina (art. 2041 c.c.), nel caso in cui comunque persegua sostanzialmente lo scopo che solitamente è proprio anche di un’altra azione (art. 1337 c.c.), non può essere proposta, nel caso in cui quest’ultima sia stata respinta.

Ebbene, non sembra che la suddetta richiesta possa configurare una violazione del principio del “ne bis in idem processuale”, ossia del divieto di “un secondo giudizio” sulla stessa domanda. Ciò in quanto tale divieto sussiste solo nel caso in cui una questione sia stata decisa con una sentenza passata in giudicato, ossia definitiva. Ai sensi dell’art. 2909 c.c., “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti”. A norma dell’art. 324 cpc, “si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395”.

La decisione con la quale il Giudice di primo grado abbia respinto la domanda ex art. 1337 c.c. non è passata in giudicato.

Di conseguenza, pure sotto questo aspetto, la tutela indennitaria può essere chiesta, allo stesso Giudice, con la domanda di cui all’art. 2041 c.c., anche dopo che tale tutela sia già stata chiesta con la domanda ex art. 1337 c.c. laddove quest’ultima tuttavia sia stata dichiarata infondata.

La tipicità delle azioni giudiziali

A proposito di “tipicità” delle azioni giudiziali con le quali si può chiedere il risarcimento, il codice ammette i c.d. “contratti atipici”, disciplinati dall’art. 1322 c.c., che, al comma 2, prevede quanto segue: “le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.

Le parti, quindi, sono libere di regolamentare i loro interessi contrattuali anche senza necessariamente utilizzare gli schemi negoziali previsti per legge, e ciò in quanto la normativa, per quanto vasta, non può contemplare “tutti” i tipi di contratto astrattamente impiegabili per soddisfare le esigenze dei soggetti di diritto privato. Tuttavia, anche i c.d. contratti atipici debbono comunque rispettare quelli che sono i principi fondamentali dell’ordinamento, ossia non possono essere utilizzati per perseguire interessi che l’ordinamento stesso non ritiene meritevoli di protezione.

Ma, nel caso dell’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., non si tratta di uno strumento di tutela “atipico”, in ordine al quale va valutata, di volta in volta, la compatibilità con i principi generali dell’ordinamento. Tale azione, infatti, è sì “particolare” in quanto rappresenta uno strumento di tutela aggiuntivo a quelli previsti per le inadempienze contrattuali (o precontrattuali), ma è comunque un istituto “tipico” in quanto previsto dal codice.

Pertanto, negare che si possa proporre in via subordinata la domanda ex art 2041 c.c., a motivo del fatto che la domanda principale ex art. 1337 c.c. è stata dichiarata infondata, vuol dire violare il principio di tipicità dei mezzi di protezione contrattuale.

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