Querela di falso: quando non è sufficiente la richiesta di CTU

in Giuricivile.it, 2022, 3 (ISSN 2532-201X)

Nel giudizio di querela di falso, la CTU non può essere l’unico mezzo di prova offerto dal querelante, se lo stesso non è estraneo al documento e alle persone coinvolte nel falso. A dirlo è il Tribunale di Milano che, nel riportarsi all’orientamento consolidato della Suprema Curia, rappresenta che, “ai fini dell’ammissibilità della querela di falso, la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio con riserva di formare scritture di comparazione può ritenersi valida indicazione di prove della falsità, tutte le volte che il querelante, estraneo al documento e alle persone coinvolte nel falso, non sia in condizione di offrire prove specifiche precostituite, come è nella fattispecie in esame” (Tribunale di Milano, Sez. VI, sentenza n. 2417, del 23.03.2021).

Cenni introduttivi e inquadramento della fattispecie

Laddove in un giudizio civile sia prodotto un documento e la produzione della prova documentale non possa essere disconosciuta perché ha ad oggetto un atto pubblico o una scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, al soggetto lamentante è possibile solo ricorrere alla querela di falso.

La fattispecie è disciplinata dagli artt. 221 e ss. del Codice di procedura civile, i quali prevedono che la querela di falso possa essere proposta sia in via incidentale (ossia all’interno del procedimento in cui il documento è stato versato), sia in via principale instaurando un autonomo procedimento volto a far dichiarare la non autenticità del documento.

Qualora la querela di falso venga proposta in corso di causa il giudice deve preventivamente sentire la parte che ha prodotto il documento al fine di chiedere se la stessa intende avvalersene in giudizio o meno.

Se la parte dichiara di non volersi avvalere del documento lo stesso non è utilizzabile in causa e di fatto la quaestio si arresta in tale sede.

Qualora invece la parte producente dichiari di volersi avvalere del documento oggetto di contestazione si apre il giudizio ex art. 221 c.p.c. e con esso lo spinoso tema dei mezzi istruttori.

Va doverosamente premesso che il procedimento per querela di falso, per costante indirizzo della giurisprudenza, ha il fine di privare “un atto pubblico (o una scrittura provata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità a ‘far fede’, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando così, attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all’efficacia sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro aspetto, dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta individuazione dell’autore della falsificazione” (cfr., ex multis, Cass. n. 8362/2000; Cass. n. 18323/2007).

Pertanto, la querela di falso può essere proposta soltanto allo scopo di togliere a un documento, sia esso come detto atto pubblico o scrittura privata, la sua idoneità a far fede come prova di determinati rapporti in esso disciplinati. Allorquando di contro siffatte finalità non siano perseguite “ma si controverta soltanto su di un errore materiale incorso nel documento (configurabile nel caso di mera ‘svista’ che non incide sul contenuto sostanziale del documento, rilevabile dal suo stesso contenuto e tale da non esigere una ulteriore indagine di fatto), la querela di falso non è ammissibile” (Cass. n. 6375/1982; Cass. n. 8925/2001).

In tema di qualificazione della falsità si parla di c.d. falsità materiale se è investito il profilo estrinseco del documento corrotto nella sua “genuinità”, ciò manifestandosi sia nelle forme della contraffazione (ad es. la formazione del documento da parte di chi non ne è l’autore apparente) che dell’alterazione (ad es. la modifica del documento originale).

Quando invece la falsità concerne la “verità” del documento, ossia l’enunciazione falsa del suo contenuto si parla di c.d. “falsità ideologica”, la quale, costante orientamento, può formare oggetto di querela di falso, limitatamente per ciò che concerne l'”estrinseco” del documento. Si guardi al caso del dell’atto pubblico del notaio che falsamente attesta la veridicità di una dichiarazione compiuta innanzi a lui (cfr. Cass. n. 2857/1979; Cass. n.47/1988).

Per ciò che attiene la legittimazione a proporre querela di falso, si ritiene, possa individuarsi in “chiunque abbia interesse a contrastare l’efficacia probatoria di un documento munito di fede privilegiata in relazione ad una pretesa che su esso si fondi, non esclusa la stessa parte che l’abbia prodotto in giudizio” (cfr. Cass. n. 3305/1997; Cass. n. 11489/2008).

Richiamando l’art. 221 c.p.c. le forme di introduzione del giudizio di querela di falso si individuano nell’atto di citazione o nella dichiarazione da unirsi al verbale di udienza, personalmente dalla parte o a mezzo del difensore munito di procura speciale. Sul punto va osservato che la Suprema Corte con l’Ordinanza n. 1058 del 21/01/2021, ha statuito che, ai fini della proposizione della querela di falso, è necessario che la procura speciale alle liti sia idonea ad attribuire tale potere anche in via incidentale e che, dalla stessa, debba quindi desumersi l’attribuzione di detto potere e debba recare l’espressa indicazione dell’attività da compiere. La non osservanza di quanto disposto comporta l’inammissibilità degli atti posti dal legale per difetto di rappresentanza nello specifico giudizio.

Indi, a conoscere dell’azione da proporsi con le enunciate caratteristiche sarà il tribunale che ha, in materia competenza funzionale ed inderogabile, in composizione collegiale (Cass. n. 13384/1991), giusto il disposto dell’art. 225 c.p.c. secondo il quale “sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio” e ciò anche quando l’azione sia proposta in via incidentale, per cui il giudice innanzi al quale la querela sia incidentalmente proposta dovrà rimettere la causa sul punto al tribunale competente (art. 34 c.p.c.), al contempo disponendo la sospensione del processo principale (art. 295 c.p.c.) sino alla decisione sul falso.

In conclusione, poi, a mente dell’art. 221 c.p.c., ultimo comma, è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero. La partecipazione del Pm, si ricollega all’esigenza di tutelare interessi generali in tema di pubblica fede e di ricerca dell’autore della falsità, per la giurisprudenza di merito e di legittimità, non va intesa nel senso di “partecipazione attiva al processo”(Trib. Salerno 2219/2012), bastando che gli atti siano comunicati all’ufficio del medesimo, per consentirgli di intervenire nel giudizio, mentre la partecipazione effettiva e “la formulazione delle conclusioni sono rimesse alla sua diligenza (Cass. n. 10894/2005).

In altre parole, non è richiesta la “presenza di un rappresentante di quell’ufficio nelle udienze, né la formulazione di conclusioni da parte del medesimo, essendo sufficiente che egli sia informato del procedimento, per essere posto in condizione di svolgere l’attività che ritenga opportuna, tenendo altresì conto della sua possibilità di spiegare l’intervento pure quando la causa sia davanti al collegio, mediante comparsa da depositarsi in cancelleria o all’udienza (art. 3 disp. att. c.p.c.)” (Cass. n. 4526/1982; Cass. n. 25722/2008). L’eventuale omissione procedurale del necessario avviso al Pm della pendenza del processo è “causa di nullità del giudizio di primo grado” (Trib. Salerno n. 2219/2012).

I Mezzi istruttori e l’indicazione della CTU

Per espresso disposto dell’art. 221 c.p.c., la querela deve contenere, a pena di nullità, “l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità”, non potendo essere dedotti nuovi elementi dalla parte successivamente alla proposizione della querela stessa (Cass. n. 6383/1988; Tribunale di Rimini, sentenza del 29 luglio 2021, n. 742). L’enunciazione specifica delle ragioni addotte dal querelante a sostegno della falsità del documento, costituisce, infatti, presupposto imprescindibile di ammissibilità della querela, “in ragione della rilevanza pubblica degli interessi connessi in considerazione della necessità di individuare i dati costitutivi della relativa domanda” (Trib. Catanzaro, 28 giugno 2011). L’obbligo di cui al citato art. 221 c.p.c., ai fini della valida proposizione della querela di falso, non impone necessariamente “la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto” (Cass. n. 1537/2001). In conseguenza di ciò ed a fini dell’accertamento in ordine alla falsità del documento, il giudice ammette i mezzi istruttori che ritiene idonei e rilevanti e dispone anche i modi e i termini della loro assunzione.

A tal punto si pone il cardinale problema dell’onus probandi e della qualificazione della CTU.

Quanto al primo punto non sorgono incertezze nell’affermare che la prova univoca della falsità del documento impugnato con apposita querela deve essere fornita dal querelante per pervenire all’accoglimento della relativa domanda, sia essa proposta in via incidentale o principale (cfr. Cass. n. 4571/1983 e Cass. n. 6050/1998). E così gravando su esso querelante l’onere di fornire il riscontro probatorio della falsità del documento impugnato con prova connotata da caratteri di univocità, laddove lo stesso non assolva a detto onere, il ricorso viene rigettato (Cass. 4, ordinanza 24 gennaio 2019, n. 2126).

Quanto alla qualificazione del carattere della CTU occorre tornare alla ormai nota inquadratura secondo cui la consulenza tecnica, per dottrina e giurisprudenza unanimi, è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito il quale vi ricorre quando risulta necessario, per accertare i fatti del procedimento, l’impiego di conoscenze tecniche o scientifiche particolari che vanno al di là della cultura media, e delle quali Egli non dispone.

La c.t.u. è, dunque, uno strumento di valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico, di dati già acquisiti che non può essere utilizzato al fine di esonerare le parti dall’onus probandi gravante su di esse e può contenere elementi idonei a formare il convincimento del giudice.

Nello specifico giudizio, pertanto, il querelante non potrebbe assolvere l’onere probatorio, su di esso gravante, limitandosi ad una generica richiesta di disporre una consulenza tecnica (ex multiis Cass. n. 3833/1994 e recentissima C.C., Sez. Unite, 01.02.2022, n. 3086).

Pur tuttavia la recente pronuncia del Tribunale di Milano in data 23.03.2021, sez. VI, n. 2417, apre un diverso scenario mettendo in discussione il generale anzidetto indirizzo e riprendendo peraltro un costante orientamento. Ciò purchè tuttavia ricorrano alcuni presupposti.

Il Tribunale di Milano nella citata pronuncia afferma “secondo il condivisibile costante orientamento del Supremo Collegio (v. Cass. n. 3131/1980), ai fini dell’ammissibilità della querela di falso, la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio con riserva di formare scritture di comparazione può ritenersi valida indicazione di prove della falsità, tutte le volte che il querelante, estraneo al documento e alle persone coinvolte nel falso, non sia in condizione di offrire prove specifiche precostituite, come è nella fattispecie in esame”.

Peraltro, in ciò riprendendo analoghe determinazioni della Suprema Corte che a far data dalla pronuncia del 1980, a cadenze più o meno regolari aveva ribadito analogo indirizzo: Cass. n. 4526/82, Cass. n. 12695/08 e Cass. n. 887/18.

Il principio di diritto ripreso dal Tribunale di Milano

In definitiva, nel giudizio di querela di falso ex art. 221 c.p.c. al soggetto querelante, al fine dell’assolvimento dell’onere della prova sullo stesso gravante, è consentita la sola indicazione di consulenza tecnica d’ufficio con riserva di formare scritture di comparazione purché, non potendo offrire prove precostruite, esso querelante sia estraneo al documento oggetto di giudizio ed alle persone coinvolte nel falso.

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