Opposizione di terzo avverso una sentenza passata in giudicato: facoltà legittima o illegittima?

L’art. 404 c.p.c. riconosce al terzo la possibilità di proporre opposizione avverso una sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva, qualora essa pregiudichi i suoi diritti. La norma, se da un lato appare coerente con il sistema pubblicitario previsto dall’art. 2643 c.c., che include espressamente le sentenze tra gli atti soggetti a trascrizione, e dunque rilevanti anche per i terzi, dall’altro sembra entrare in tensione con il principio di stabilità delle decisioni giurisdizionali, tutelato dall’art. 24 Cost., che garantisce il diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, ma non oltre il suo esaurimento. Ulteriori perplessità sulla tenuta sistematica dell’art. 404 c.p.c. emergono dal confronto con le disposizioni di diritto sostanziale, in particolare gli artt. 2859 e 1422 c.c., che, seppur in ambiti differenti, delineano confini precisi al diritto di azione esercitato da soggetti terzi. Il “Formulario commentato del nuovo processo civile”, di Lucilla Nigro, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon, offre un supporto utile per gestire ogni fase del contenzioso civile. 

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Formulario commentato del nuovo processo civile

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Lucilla Nigro
Autrice di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.

 

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La questione: chi è “il terzo” legittimato a proporre opposizione ex art. 404 c.p.c.

L’art. 404 c.p.c. stabilisce cheun terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti”.

Riconoscere al terzo la facoltà di opporsi ad una sentenza passata in giudicato sembra essere motivato dal fatto che egli non è stato coinvolto nel giudizio: altrimenti la necessità, fortemente avvertita dall’ordinamento, di assicurare stabilità e certezza alle sentenze definitive (vedi, p.es. l’inefficacia, su una sentenza passata in giudicato, della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma oggetto del giudizio), risulterebbe compromessa laddove si ritenesse che il terzo possa opporsi alle medesime anche quando egli abbia partecipato al giudizio.

Pertanto, se si vuole essere coerenti con la necessità sopra evidenziata, si deve ritenere che l’unico caso in cui l’opposizione di terzo è ammessa sia quello in cui egli sia stato, illegittimamente, escluso dal giudizio.

Esclusione del terzo dal giudizio: la mancata integrazione del contraddittorio da parte del giudice

L’esclusione del terzo può derivare da due situazioni:

  1. Omissione del giudice: mancata integrazione del contraddittorio in violazione dell’art. 102 c.p.c.;

  2. Inerzia delle parti: mancata chiamata in causa nei termini decadenziali ex art. 269 c.p.c.

La decadenza dalla facoltà di chiamare il terzo in causa

Secondo l’art. 269 c.p.c., sia l’attore che il convenuto possono chiamare in causa un terzo, ma devono farlo entro un termine perentorio, a pena di decadenza. Se tale termine non viene rispettato, la possibilità di chiamare il terzo si perde definitivamente.

L’integrazione d’ufficio del contraddittorio non può supplire all’inerzia delle parti

Sarebbe errato ritenere che il Giudice possa o debba supplire alla decadenza delle parti ordinando l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. Ciò svuoterebbe di significato il meccanismo sanzionatorio previsto dalla norma: l’inerzia delle parti non sarebbe in alcun modo “punita” se il Giudice fosse obbligato ad agire comunque in loro sostituzione.

Le conseguenze della decadenza per le parti

La sanzione per la decadenza consiste nell’impossibilità, per l’attore o per il convenuto, di eccepire che la sentenza, sfavorevole nei loro confronti, avrebbe dovuto essere pronunciata contro un terzo, effettivo soggetto obbligato. Ne deriva che il terzo, rimasto estraneo al giudizio per inerzia delle parti, si trova avvantaggiato: non ha subito alcun danno dalla sentenza, la quale ha invece condannato una delle parti a una prestazione che, in diritto, gravava su di lui.

Mancato interesse del terzo ad opporsi alla sentenza

In tale ipotesi, il terzo non ha motivo per opporsi alla sentenza passata in giudicato, poiché la sua mancata partecipazione è dipesa dalla negligenza delle parti e ha prodotto effetti negativi solo su queste ultime, non su di lui.

Quando l’omessa integrazione del contraddittorio è imputabile al Giudice

L’unico caso in cui la sentenza definitiva può ledere i diritti del terzo pretermesso è quello in cui l’esclusione dal giudizio sia derivata dall’omessa integrazione del contraddittorio da parte del Giudice, in violazione dell’art. 102 c.p.c.

Apparente contrasto tra l’obbligo del Giudice e la possibilità di impugnazione del terzo

La possibilità, per il terzo, di opporsi alla sentenza definitiva si pone in apparente contrasto con l’obbligo del Giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio. Se tale obbligo fosse correttamente adempiuto, infatti, nessun terzo dovrebbe risultare estromesso dal processo, e tutti gli interessati avrebbero avuto l’opportunità di intervenire prima che la sentenza divenisse definitiva.

La spiegazione più plausibile di questa incongruenza è che il Giudice non può conoscere tutti i terzi interessati al giudizio. Tuttavia, tale giustificazione è debole: nel momento in cui viene proposto un ricorso, il Giudice dovrebbe, anche attraverso i mezzi a sua disposizione, individuare con sufficiente certezza le situazioni soggettive coinvolte.

Il caso particolare degli interessi diffusi

L’unica reale difficoltà per il Giudice si presenta quando si tratta di estendere il contraddittorio a soggetti portatori di interessi diffusi, ovvero esigenze collettive rappresentate da associazioni o comitati. In tale contesto, pretendere che il Giudice chiami in causa tali organismi rischierebbe di compromettere il principio di economicità del procedimento (art. 97 Cost.), valore costituzionalmente tutelato alla pari della stabilità delle pronunce giudiziarie.

Tesi a favore della legittimità dell’art. 404 c.p.c.: la trascrizione delle sentenze

Anche le sentenze, al pari delle domande giudiziali, devono essere trascritte ai sensi dell’art. 2643 c.c. Lo scopo della trascrizione della sentenza è quello di rendere pubblica – e dunque conoscibile dai terzi – l’esistenza di un accertamento giudiziale di un diritto a favore della parte vittoriosa. Tale accertamento, infatti, potrebbe ledere i diritti di terzi, i quali, grazie alla trascrizione, potranno venirne a conoscenza e proporre opposizione contro la sentenza.

A quali terzi è rivolta la trascrizione della sentenza?

La domanda cruciale è: a chi si rivolge la trascrizione delle sentenze? La trascrizione della domanda giudiziale, secondo la legge, non pregiudica i diritti dei terzi che abbiano trascritto o iscritto un proprio titolo anteriormente. Pertanto, anche se la domanda viene accolta, il terzo acquirente precedente non può subirne danno, poiché il suo diritto è tutelato dalla priorità della trascrizione.

L’apparente inutilità della trascrizione delle sentenze rispetto a quella delle domande

Se fosse sufficiente la trascrizione delle domande a tutelare i terzi acquirenti, non si comprenderebbe la ragione dell’ulteriore previsione normativa che impone la trascrizione anche delle sentenze. Questo suggerisce che l’obbligo di trascrizione della sentenza sia destinato a tutelare altri soggetti oltre i soli terzi acquirenti tutelati con la trascrizione della domanda.

I terzi “non acquirenti” e la necessità di una tutela processuale

La trascrizione delle sentenze potrebbe dunque rivolgersi a terzi che, pur non avendo acquistato diritti sul bene oggetto della controversia (e quindi non avendo effettuato trascrizioni o iscrizioni precedenti), devono poter ricevere tutela nei confronti degli effetti pregiudizievoli della sentenza. In ambito processuale, rientrerebbero in questa categoria anche i soggetti che non hanno mai preso parte al giudizio.

L’irrilevanza della definitività della sentenza ai fini della trascrizione

L’art. 2643 c.c. non distingue tra sentenze definitive e non definitive. Questo rafforza la tesi secondo cui la trascrizione consente a un terzo di opporsi anche a una sentenza passata in giudicato, qualora questa abbia inciso negativamente sulla sua sfera giuridica, pur senza che egli fosse parte del processo.

Il confronto tra terzi acquirenti e non acquirenti: il caso di Tizio e Caio

A titolo esemplificativo, si può immaginare il caso in cui:

  • Tizio, terzo acquirente, ha comprato il bene oggetto della successiva sentenza e ha trascritto l’atto, dimostrando così un interesse concreto e giuridicamente protetto;

  • Caio, invece, non ha mai acquistato il bene, né ha manifestato un interesse patrimoniale su di esso.

Ci si chiede allora: perché Caio dovrebbe poter opporsi alla sentenza (anche definitiva) alla stessa stregua di Tizio?

L’interesse ad agire non è necessariamente patrimoniale

La risposta risiede nell’art. 100 c.p.c., che richiede un interesse ad agire come presupposto dell’azione giudiziale, ma non impone che tale interesse sia patrimoniale. Secondo l’art. 1174 c.c., infatti, anche un interesse non patrimoniale può legittimare una pretesa obbligatoria. Da ciò consegue che lo stesso interesse non patrimoniale, se meritevole di tutela nella fase contrattuale, deve esserlo anche in sede processuale, quando il terzo intenda proteggere la propria sfera giuridica contro gli effetti di una sentenza pregiudizievole.

Tesi a favore della illegittimità dell’art. 404 c.p.c.: art. 24 Cost. e artt. 2859 e 1422 c.c.

L’art. 24 Cost. tutela il diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, ma non oltre la sua definizione. Da ciò si deduce che il legislatore costituzionale non avrebbe previsto la possibilità per soggetti estranei di impugnare una sentenza ormai definitiva.

L’unica eccezione è prevista dall’art. 391-bis c.p.c., che consente l’impugnazione di una sentenza della Cassazione in caso di errore di fatto (art. 395 n. 4 c.p.c.). Tuttavia, tale rimedio non è fondato sulla lesione di un diritto del terzo estraneo al giudizio, bensì su un travisamento dei fatti da parte del Giudice.

L’assenza di un diritto costituzionale all’impugnazione dopo il giudicato

Il fatto che la Costituzione non contempli, tra i diritti inviolabili, quello di impugnare una sentenza anche dopo la conclusione del procedimento, può rappresentare un ostacolo al pieno riconoscimento in favore del terzo della facoltà di proporre ricorso avverso una sentenza passata in giudicato.

L’art. 2859 c.c. e il terzo acquirente nell’ambito dell’ipoteca

La posizione del terzo non coinvolto nel giudizio è considerata anche dall’art. 2859 c.c., in tema di ipoteca. Secondo tale norma, se la domanda del creditore ipotecario è successiva alla trascrizione del titolo di acquisto del terzo, quest’ultimo – se non è stato parte del giudizio – può opporre al creditore tutte le eccezioni non opposte dal debitore e anche quelle che spettano a quest’ultimo dopo la condanna.

Effetti limitati della difesa del terzo acquirente

Nonostante la facoltà di opporre eccezioni, la norma precisa che ciò non sospende il termine per la liberazione del bene dalle ipoteche. Il terzo, anche se legittimato a difendersi, deve comunque rispettare i termini per liberare il bene pagando il debito, poiché va garantita la posizione del creditore che ha iscritto l’ipoteca in via prioritaria. Inoltre, la norma non prevede espressamente che le eccezioni possano essere sollevate anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Conseguenze per la legittimità dell’art. 404 c.p.c.

Alla luce di quanto previsto dall’art. 2859 c.c., la legittimità dell’art. 404 c.p.c. – che consente al terzo di impugnare una sentenza passata in giudicato – non può considerarsi indiscutibile. Le norme codicistiche, infatti, sembrano indicare un’area di tutela limitata nel tempo e nei modi per i soggetti estranei al giudizio.

Assenza di un termine per l’opposizione del terzo ex art. 404 c.p.c.

L’art. 404 c.p.c. non fissa un termine entro il quale il terzo debba proporre l’opposizione. Da questo punto di vista, presenta analogie con l’art. 1422 c.c., secondo cui l’azione di nullità del contratto è imprescrittibile, e con l’art. 1421 c.c., che consente l’esercizio dell’azione da parte di “chiunque vi ha interesse”, inclusi i terzi.

Distinzione tra imprescrittibilità dell’azione e definitività della sentenza

Sorge però una questione: l’assenza di un termine implica che il terzo possa agire anche contro una sentenza passata in giudicato? È importante distinguere tra:

  • Il termine per l’esercizio dell’azione (ossia per proporre la domanda);

  • Il passaggio in giudicato della sentenza che decide sulla domanda.

I due concetti non coincidono: la prima riguarda il tempo per agire, la seconda riguarda l’autorità e la stabilità della decisione.

Conclusione: analogia con l’azione di nullità e dubbi sulla legittimità dell’art. 404 c.p.c.

Sebbene l’azione di nullità possa essere esercitata senza limiti temporali, ciò non comporta che possa essere esercitata anche contro una sentenza divenuta definitiva. L’assenza di legittimazione in tal senso – nonostante l’analogia tra l’azione ex art. 404 c.p.c. e quella ex art. 1422 c.c. – sembra costituire un argomento contrario alla legittimità dell’art. 404 c.p.c.

Riflessioni finali

L’opposizione di terzo avverso una sentenza passata in giudicato pone interrogativi rilevanti sul piano sistematico e costituzionale. Se da un lato la previsione dell’art. 404 c.p.c. tutela diritti potenzialmente lesi in assenza di contraddittorio, dall’altro mina la stabilità del giudicato e sembra collidere con i principi di economia processuale e certezza del diritto.

Una rilettura sistematica della norma, alla luce dei limiti costituzionali e codicistici sopra esaminati, impone un’interpretazione restrittiva dell’opposizione, limitandone l’operatività ai soli casi di esclusione illegittima dal processo per fatto imputabile al giudice.

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